Il virus: parole, opere e omissioni

Virologi ed epidemiologi fanno il loro mestiere: ricerca di risposte puntuali, analisi, calcoli, scenari. Medici e apparati ospedalieri ne fanno un altro: contrasto all’emergenza e messa a disposizione di terapie. I politici dovrebbero fare il loro: che, a seconda che sia fatto bene o male, comporta il prendere delle decisioni, possibilmente giuste ma spesso inevitabilmente sbagliate (e quali siano le une o le altre è difficile dire, poiché dipendono dalle variabili di volta in volta prese in conto, e dalle esigenze da contemperare), o il non prenderne, il non attivarsi, il non agire. Ci si dimentica spesso che, oltre che in parole ed opere, si può peccare in omissioni, e queste sono di gran lunga in numero maggiore, e talvolta peccati più gravi, anche se meno presi in considerazione.

I cittadini stanno in mezzo a tutto questo, combattuti tra il timore – crescente nella misura in cui crescono contagi, terapie intensive e decessi – e la rabbia: per le cose che non funzionano, per quelle che non si capiscono, per quelle a causa delle quali pagano o pagheranno prezzi sempre più elevati. A loro non spettano calcoli difficili: si accontentano di tirare conclusioni semplici, magari semplicistiche, ma che ai loro occhi hanno una logica – più lineare di tante altre.

Per esempio, se si parte da una situazione incoraggiante, in cui dopo il primo doloroso lockdown, i dati epidemiologici migliorano, e poi dopo l’estate le cose vanno peggio, il comune cittadino accetta anche di prendersi le sue responsabilità, di essere ammonito e magari punito per le troppe libertà che si è preso, pronuncia un doveroso mea culpa e si rimette a fare sacrifici. Anche se qualche domanda se la fa, sulle prime omissioni che nota da parte di quelli che dovrebbero agire e reagire: per esempio si accorge che le scuole hanno lavorato per riaprire in sicurezza, mentre chi doveva occuparsi dei trasporti non ha fatto nulla, salvo sorprendersi che i ragazzi prendano il bus per recarvisi, nelle scuole – e non comprende la logica per cui, per risolvere il problema, invece di potenziare e rimodulare i trasporti, si richiudano le scuole. Ma tira avanti, ancora fiducioso anche se un po’ più malfermo nelle sue certezze. E accetta nuove disposizioni restrittive senza protestare.

Poi però parte la seconda ondata di chiusure, e il cittadino, nella sua popolaresca pochezza, così lontana dalla raffinata capacità di ragionamento dell’empireo dei decisori, si accorge che più fa sacrifici e accetta restrizioni, più i dati epidemiologici si aggravano, e finisce per farsi delle domande sul rapporto causa-effetto tra le cose, e ancora di più sulla capacità decisionale di chi doverosamente assume le decisioni. Che il problema ci sia, ne è convinto, non lo sottovaluta e tanto meno lo nega: che i suoi sacrifici servano, è più che disposto a concederlo, anche perché così dà loro un senso. Ma sempre più ha la percezione, seppure vaga, che manchi qualcosa, se, pur essendo il Paese d’Europa che ha chiuso più a lungo di tutti le scuole, e numerose altre attività, siamo anche quello con più contagiati e più morti, mentre quelli che compiangevamo guardandoli dall’alto in basso stanno tutti meglio di noi. Con meno restrizioni: ma probabilmente con molte maggiori decisioni prese. E si fa quindi delle domande sull’equilibrio tra parole (tantissime, anche se fastidiosamente generiche, retoriche, ripetitive e autoassolutorie), opere (molte meno: e quasi solo chiusure, limitazioni, divieti; continuano a scarseggiare le capacità organizzative, e soprattutto le proposte pratiche non di contrastare scenari negativi, ma di inventarne altri, positivi, anticiclici – che dovrebbe essere il mestiere alto della politica, al di là del piccolo cabotaggio della ordinaria manutenzione condominiale), e soprattutto omissioni (più numerose delle parole, come emerge ogni giorno di più: quello che non si fa, che si continua a non fare). E magari il nostro bravo cittadino, come un inerme passeggero sull’autobus, comincia a farsi qualche domanda sulla competenza del conducente: se abbia davvero la patente, se conosca la meta e la strada per arrivarci, se disponga di una mappa. Se sappia di cosa parla, anche, visto che mentre guida continua ad addossare la colpa del fatto di essersi perso e non saper dove andare ai comportamenti scriteriati di pochissimi passeggeri o ad eventi di tre mesi fa. Non stupisce che crolli la fiducia in chi guida: a prescindere dalle schermaglie politiciste e dai minuetti sottogovernativi che dominano in questi giorni il chiacchiericcio dei telegiornali, e che pure non sono un bello spettacolo.

 

Parole, opere, omissioni, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 15 dicembre 2020, editoriale, p.1