La chiesa pecca in comunicazione

L’ennesimo scivolone comunicativo che ci proviene dai vertici della chiesa cattolica – le dichiarazioni del card. Bertone sul rapporto tra omosessualità e pedofilia – sono un buono spunto per una riflessione più generale sul rapporto tra chiesa e media e, in definitiva, sull’attuale pontificato.

Una prima considerazione è quasi banale. Troppo spesso i vescovi sono abituati a parlare, anche di ciò su cui non hanno alcuna competenza specifica, con un atteggiamento ex cathedra: come se si trattasse sempre di una parola alta, autorevole e definitiva. E la compiacenza con cui queste affermazioni vengono accolte, sia interna alla chiesa che esterna, anche quando si tratta di banalità o di autentiche sciocchezze, rende plausibile che ci si abitui ad aver ragione per mancanza di contraddittorio. La rarità delle occasioni in cui, in Italia, prelati autorevoli partecipano a tavole rotonde a pari grado con altri soggetti, in atteggiamento di autentico confronto, e viceversa l’abitudine a relazioni e dichiarazioni a senso unico, calate dall’alto e senza possibilità di risposta, fanno sì che l’atteggiamento venga confermato. E questa non è certo una buona scuola comunicativa. Prima o poi si trova qualcuno che decide di rispondere per le rime. E l’impaccio degli ecclesiastici quando si ritrovano nel pieno della polemica tradisce la difficoltà dell’approccio.

Un problema che si riverbera anche nelle polemiche per le quali la chiesa cattolica è sulle prime pagine della stampa in questi giorni: la questione della pedofilia. Su cui la chiesa ha commesso errori, e non solo ingenuità, anche pesanti. E peccati di omissione che possono essere più gravi di quelli in parole ed opere, trattandosi di un comportamento per il quale il vangelo ha parole terribili: “Chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e fosse gettato in fondo al mare” (Matteo 18,6). Ma vi è pure una innegabile strumentalità di molte accuse, anche dirette alla persona del papa. E colpisce, in questo caso, l’incapacità della chiesa, non abituata ad essere oggetto di discussione pubblica, a rovesciare il messaggio, a riuscire a dire che, pur tra le colpe gravissime di alcuni, oggi inequivocabilmente condannate, la chiesa è pur sempre tra le agenzie che, ovunque nel mondo, più fanno per la tutela, l’aiuto e la crescita dei piccoli, dei giovani, dei ragazzi (e sarebbe interessante vedere se altri ambienti fanno altrettanta pulizia in pubblico: dai collegi religiosi di altre confessioni e laici, agli ambienti militari, a quelli sportivi, e ovunque adulti e ragazzi, dello stesso sesso o meno, vivano insieme per lunghi periodi di tempo).

Invece, anche in questo caso, il comportamento è stato goffo e le chiamate di correo controproducenti, riuscendo a collezionare una sequela di incidenti comunicativi impressionante, come il ridicolo paragone con l’antisemitismo. Il problema è che tali incidenti cominciano a caratterizzare l’attuale pontificato e i suoi uomini in maniera imbarazzante: dal discorso di Ratisbona alla riammissione dei lefebvriani, fino ai ripetuti problemi nei confronti degli ebrei.

Il che ci porta al cuore del problema: le modalità comunicative della chiesa attuale. E’ piuttosto improbabile che la stampa mondiale si sarebbe accanita con le stesse modalità nei confronti del papa precedente: non ci si sarebbe permessi, punto e basta. Giovanni Paolo II, più familiarmente Karol Wojtyla per molti, parlava con il corpo e con i fatti, attraverso una pedagogia dei gesti straordinariamente in sintonia con gli umori dell’epoca. E di lui rimangono immagini simboliche potentissime: gli incontri di Assisi, l’abbraccio al rabbino Toaff, la preghiera nella moschea di Damasco, l’entusiasmo delle moltitudini, giovanili in particolare, fino al suo corpo sofferente offerto come icona alla commozione pubblica. Benedetto XVI, che pochi chiamerebbero con la stessa familiarità Joseph Ratzinger, parla con la logica della razionalità – e lo ha rivendicato con i suoi messaggi fin dall’inizio del suo pontificato – che di per sé si presta ad essere criticata sul medesimo piano. Non compare l’afflato e la passione, che pure forse ci sono, ma si rende più visibile il rigore, e anche la freddezza, del ragionamento astratto e del tono professorale. Il che lo rende antipatico anche quando ha ragione. Anche se il problema non è di forme, ma di contenuti: Woytjla ha inziato il suo pontificato con parole di speranza: “Non abbiate paura!”, “Aprite le porte a Cristo”. Ratzinger si è caratterizzato per gli accenti cupi, l’approccio polemico (contro il relativismo, contro la modernità, contro la scienza, contro l’islam), un sostanziale pessimismo, una certa chiusura della chiesa su se stessa e sul proprio passato (la messa in latino o i riferimenti a Pio XII e ad altri papi del passato, notoriamente non i più aperti). Un tratto che forse è ugualmente in sintonia con lo spirito dell’epoca. Ma di un’epoca disincantata, impaurita, in cui prevale la chiusura e il conflitto con tutti coloro che non la pensano come noi. Di cui finisce per fare le spese anche una chiesa che a questo spirito si adegua.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), La chiesa pecca in comunicazione, in “Il Piccolo”, 15 aprile 2010, pp. 1

Un partito che deve sottrarsi al giogo dei padri fondatori

I ballottaggi, con la perdita di Mantova, hanno sancito la sostanziale sconfitta del Partito Democratico, in particolare al nord. Sarebbe però fuorviante ridurre il dibattito post-elettorale all’interno del PD a uno sterile tiro al piccione. Anche perché a perdere, a livello nazionale, non è stato Bersani, così come a livello regionale non è stato Bortolussi. La colpa del risultato, in Veneto, non è imputabile al candidato, ma al modo in cui si è arrivati alla sua designazione, al ritardo accumulato, alla scelta della persona prima di avere un programma e un progetto politico condiviso.

Dalle urne tuttavia non esce sconfitto il progetto per il quale il PD è nato, ma semmai la sua mancata realizzazione, soprattutto da parte di chi è rimasto ancorato alle tradizionali componenti e non riesce a riprendere i legami con una società che è nel frattempo cambiata. E’ nella distanza tra certo apparato del PD e il suo elettorato che si trova una delle chiavi per leggere questa sconfitta. Né è un esempio significativo il caso padovano: in cui buona parte del gruppo dirigente ha scelto di spendere il suo peso politico tutto a favore di un solo candidato, che è risultato di gran lunga il meno votato tra quelli eleggibili, superato in alcune circoscrizioni anche dai candidati locali di bandiera. Un fatto che non potrà non pesare sul dibattito interno al PD. Mentre il candidato che ha ottenuto più preferenze è stato quello più trasversale, sostenuto anche da molti – e da molti giovani e nuovi iscritti – che non appartenevano né ai DS né alla Margherita, e vorrebbero costruire una storia politica capace di maggiore autonomia e innovazione rispetto ad essi.

Il PD ha davanti a sé una grossa occasione per dare un segnale di discontinuità di metodo e persone, e nello stesso tempo di coerenza e continuità con il progetto intorno a cui è nato. Ed è il rinnovo degli organi dirigenti e dei segretari di circolo, comunali e provinciali: il solo modo per esprimere un ceto politico radicato nel territorio, e che a questo risponda, come oggi tutti dicono di voler fare. L’elezione di Laura Puppato a capogruppo del PD in consiglio regionale è un primo segnale in questa direzione. Ma bisogna sradicare anche i piccoli potentati locali e sostituirli con una classe dirigente adeguatamente rinnovata.

Anche qui il caso padovano è significativo. Sulla segreteria provinciale precedente pesa la difficoltà di tutti gli inizi, oltre tutto in una fase infarcita di appuntamenti elettorali, alcuni condotti con successo, come quello che ha portato alla rielezione di Zanonato, ed altri molto meno, come quello provinciale (e, con responsabilità condivisa con molti altri, quello europeo, che ha portato alla mancata elezione di parlamentari veneti a Bruxelles, e ora quello regionale). Ma anche la gestione verticista delle candidature in questa campagna elettorale e il mancato ascolto della base. Nonché un eccesso di padovacentrismo, che ha visto tutta la provincia schiacciata dalla città e umiliata al punto che sono di Padova città tutti gli eletti in consiglio provinciale e tutti gli eletti padovani in regione. Il segretario del PD provinciale dovrà quindi rappresentare innanzitutto la provincia. Ed essere una figura con solidi legami col territorio, misurati dal consenso elettorale e dalla capacità amministrativa, la voglia di giocare di squadra, portandone al governo del PD una innovativa e capace, e mostrando di aver superato, nella sua pratica politica, la logica delle appartenenze, delle correnti, delle fedeltà di apparato anziché di partito.

Se si vuole dare una svolta, occorre puntare con forza a quella parte di PD che crede nel PD anziché nei suoi soci fondatori, e che è più attenta ai frutti da far maturare che alle radici di cui fare memoria. L’alternativa è un declino lento ma sicuro, da riserva indiana. Mentre proprio il risultato elettorale mostra quanto ci sia bisogno di una opposizione, innanzitutto culturale, forte e di ampi orizzonti.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Un partito che deve sottrarsi al giogo dei padri fondatori, in “Il Mattino”, 14 aprile 2010, pp. 1-5 (anche la Nuova Venezia e la Tribuna di Treviso con il titolo “Democratici. Basta dominio dei fondatori”)

L’indicazione di voto della Cei

Sul Mattino di ieri don Marco Cagol ha proposto delle interessanti riflessioni sul messaggio pre-elettorale del cardinal Bagnasco. Che meritano, per la loro profondità, qualche chiosa.

Egli afferma che è stato consolante vedere come non ci si siano “stracciate le vesti per una presunta ingerenza della Chiesa”. Ovvio che lo schieramento di centro-destra, dominante sui media, non avesse interesse a parlarne in questi termini. Ma è anche vero che le voci dissenzienti, anche interne alla Chiesa, non hanno molti ambiti per manifestarsi, a cominciare dalla stampa cattolica, piuttosto sorda in materia.

Proprio lo spazio dato alle parole di Bagnasco dimostra peraltro che, in positivo o in negativo, strumentalizzazione c’è stata eccome: e abbiamo troppa stima dell’intelligenza del cardinale per pensare che fosse inaspettata. Anche perché, se si fosse davvero voluto mandare un messaggio solo pastorale e non elettorale, lo si sarebbe fatto dopo le elezioni, non prima.

Essendo tra coloro che hanno letto interamente il testo – effettivamente ben più profondo di come lo si è sintetizzato – vorrei sommessamente aggiungere che l’impressione, nel passaggio poi evidenziato dalla stampa, era proprio quella di una precisa indicazione di voto, cui mancava solo l’esplicitazione finale: votate centro-destra. O almeno non votate Emma Bonino e Mercedes Bresso. Prova ne sia che se ne sono accorti tutti, di destra e di sinistra.

La destra è stata lesta nello sfruttare il sostegno che le è stato offerto, mettendo in ombra alcune banali verità, occultate anche nel documento. Ad esempio che l’aborto – il tema di cui soprattutto si è parlato – non è un qualcosa che vuole introdurre la sinistra, ma una legge dello stato, che anche la destra vuole mantenere, tanto è vero che nessuno si è mai davvero posto il problema di abrogare la legge 194. Che gli aborti legali sono in diminuzione. E che in aumento sono tragicamente quelli clandestini, specie tra alcune popolazioni immigrate: e c’entrano molto con la condizione di clandestinità a cui le leggi approvate dalla destra li costringono. E infine che l’aborto non è propriamente tema da elezioni regionali: il bene comune locale avrebbe bisogno di ben altre sottolineature.

“Sostiamo un attimo e proviamo a pensare”, ci dice don Marco Cagol, con le parole di Bagnasco. Magari anche alle conseguenze di questi messaggi. Perché se occorre “approfondire le proprie convinzioni non sulla base di slogan, ma con l’uso accurato della ragione vissuta nella fede”, serve un franco dibattito, nello spirito della correzione fraterna, non dei messaggi sempre e solo calati dall’alto, dove l’ascolto è a senso unico: delle pecore da parte dei pastori, come se i pastori non avessero mai bisogno di ascoltare. Abitudine invalsa anche tra i vescovi, se è vero, come notava Francesco Jori su questo giornale, che chi parla a nome loro ha la singolare abitudine di farlo prima ancora di averli sentiti: come prolusione, non come sintesi finale di un dibattito, che infatti non fa mai notizia.

Una riflessione sulle modalità con cui la chiesa si pone probabilmente gioverebbe anche ad essa. Perché ormai – molti sondaggi lo indicano con chiarezza – le prese di posizione dei vescovi sono sempre più deboli nell’orientare l’elettorato cattolico: che comunque voti lo fa esercitando la sua autonoma riflessione. E certi messaggi aumentano il disagio di chi, pur cattolico, non vi si riconosce, e si rattrista dell’uso elettorale di parole e temi alti, producendo quello che un libro di qualche anno fa chiamava “lo scisma sommerso”. Mentre tra i vertici politici rischiano di far prevalere un clericalismo spesso inversamente proporzionale alla fede, e una attenzione alla Chiesa strumentale, che ne immiserisce il messaggio nella stessa misura in cui ne esalta il ruolo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), L’indicazione di voto della Cei, in “Il Mattino”, 3 aprile 2010, pp. 1-15 (anche la Nuova Venezia e la Tribuna di Treviso)

Le vie del multiculturalismo. Non è rispetto, è un gesto miope

Il multiculturalismo – il rispetto per l’altro e l’invenzione di modalità di convivenza tra culture diverse – si può fare in molti modi. Ma non per sottrazione. Si può fare per addizione: aggiungendo conoscenze, simboli, momenti e luoghi di incontro, prodotti e consumi diversi. Si può, ancor meglio, procedere per interpenetrazione: facendo lo sforzo di pensare modalità diverse di incontro e di confronto (è del resto quanto accade nella vita quotidiana, quando incontriamo persone di altri mondi e le frequentiamo). Quello che non ha nessun senso fare è procedere per sottrazione: negando la propria cultura, o nascondendone i simboli (che oltretutto, in questo caso, finiscono per risaltare ancora di più, come accade quando togliamo un crocifisso da una parete dove è rimasto a lungo, magari impercepito, rendendolo paradossalmente più visibile).

Il mondo della scuola, con la sua forte presenza di immigrati di culture, lingue e religioni diverse, è in questo ambito un laboratorio d’eccezione. Ma proprio per questo, dato che si procede per tentativi ed errori, spesso in assenza di una preparazione adeguata, è anche il luogo dove più spesso si fanno passi falsi grossolani, magari in buona fede e con ottime intenzioni: che però, come noto, lastricano le vie della perdizione, o semplicemente del perdersi.

Esiste infatti un multiculturalismo improvvisato, che è speculare all’identitarismo grossolano e altrettanto privo di riflessione di chi poi grida al tradimento culturale, e a cui offre imperdibili occasioni di manifestarsi. E’ interessante che di questo multiculturalismo non siano di solito responsabili gli immigrati, o come spesso si finisce per credere i musulmani, ma insegnanti di ampie e democratiche idee, ma di troppo astratte vedute: non è cioè un conflitto tra noi e loro, ma tra di noi a proposito di loro, che ne sono più le pedine e le vittime che non gli attori. Alcuni esempi, presi dal vero. L’insegnante che toglie il crocifisso dal muro perché ci sono in classe dei bambini stranieri. Quello che nella canzone da imparare a Natale sostituisce ‘Gesù’ con ‘virtù’ per timore di offendere qualcuno, o che dice al bimbo musulmano di non partecipare alla recita perché rappresenta la Natività (e lui che sarebbe ben contento di fare anche la parte di Gesù, del resto un venerato profeta dell’islam, pur di partecipare, ci rimane male…). La direttrice didattica che decide che non si fa più il presepe a Natale, ma solo l’albero, che è meno ‘compromissorio’. La commissione didattica che si oppone alla conferenza su temi o da parte di responsabili religiosi. E via elencando, di sciocchezza in sciocchezza.

Il caso delle insegnanti che portano via i bambini dal cortile della scuola di Monfalcone dove si sta commemorando una amata collega deceduta, in memoria della quale è stato piantato un ulivo, per evitare che partecipino a una benedizione, sembra rientrare in questa casistica. L’immigrato sa di venire in un paese e in un territorio che non è vuoto e privo di riferimenti culturali e religiosi. Esattamente come noi, quando andiamo in India, o in Marocco. E non si stupisce della presenza di simboli e cerimonie religiose. Semmai, si stupirebbe del contrario. E’ dunque miope e fuorviante concentrare l’attenzione su questi aspetti, e negarne la fruizione a tutti a causa della presenza di qualcuno che non vi si identifica. Esattamente come sarebbe insensato togliere la carne dal menu della scuola per la presenza di un hindu che non mangia quella di mucca, o un ebreo o un musulmano che non mangiano il maiale. Ci sono altre strade che si possono percorrere, ed altre accortezze, sagge e a basso impatto ambientale per così dire, che si possono avere: e che rispettano tutti senza rischiare di danneggiare qualcuno.

Oltre tutto oggi si tratta di temi sensibili, che male affrontati finiscono per dare argomenti e visibilità precisamente a chi invece è cieco ad ogni diversità, e intollerante alla medesima. E che su questi temi si schiera, e li strumentalizza, non perché abbia a cuore la completezza della formazione degli alunni, di tutti gli alunni, ma semplicemente perché non ha a cuore per nulla la presenza stessa di alunni di culture e religioni diverse, e non vuole ragionare intorno ad essa. E così, tra una strumentalizzazione e l’altra, si dimentica il senso stesso di ciò di cui si sta parlando. Come in una memorabile definizione di fanatismo: raddoppiare gli sforzi quando si è dimenticato lo scopo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Le vie del multiculturalismo. Non è rispetto, è un gesto miope, in “Il Piccolo”, 1 aprile 2010, pp. 1 (anche Messaggero veneto)

La Lega è messa alla prova

La Lega è stata la principale novità politica degli anni ’80 e ’90. In questo senso è la principale promessa non mantenuta della Seconda Repubblica, di cui è il rappresentante più longevo (tutti gli altri hanno cambiato nome anche più volte). Promessa, perché è riuscita a imporre il federalismo all’agenda di tutti, anche i più riottosi. Non mantenuta, perché l’ha dichiarato ma poco praticato, in questo che è stato il governo forse più centralista della storia repubblicana; e anche in Veneto, in cui ha governato per oltre un decennio senza nemmeno riuscire ad approvare lo Statuto, che qualche spiraglio federalista poteva pur aprirlo (mentre l’hanno approvato quasi tutte le altre regioni). Insomma, ci ha dato la confezione con il fiocco e i nastrini (la promessa del federalismo fiscale), ma non ancora il regalo.

C’è una seconda ragione per cui la promessa non è stata mantenuta. Il localismo è una straordinaria occasione democratica, perché avvicina la politica ai cittadini, e la Lega ha avuto il merito storico di costringere tutti a riscoprirlo (magari riscoprendo il municipalismo di don Sturzo e il federalismo di Silvio Trentin). Ma, anche in questo caso, ne ha adottata una pratica ambigua: fuggendo il confronto, che è l’abc della democrazia locale, praticando lo spoil system come pochi altri, accettando al suo interno un cesarismo assoluto, in cui decide tutto Bossi, alla salute del decentramento. Del resto la Lega è l’ultimo partito ideologico in un’epoca di crollo delle ideologie: ed è per questo che è forte e ottiene consensi, come alle ultime europee, anche dove non è presente sul territorio, che è invece la sua forza altrove.

Detto questo, i sondaggi ci dicono che vincerà, almeno in Veneto. E vincerà nell’urna, non nella campagna elettorale: che pure, nonostante gadget all’americana e cartelloni giganti, appare povera di coinvolgimento e di passione.

Per la Lega si tratta di un’occasione storica, e non a caso ha puntato tutto su di essa. Perché governa, e spesso da diverse legislature, in un’ampia area del nord, e in particolare del lombardo-veneto. Ma non ha mai governato nulla di veramente decisivo e per questo simbolico anche a livello nazionale. La conquista e l’immediata perdita di Milano è stata, in questo senso, una dimostrazione di incapacità e una bruciante umiliazione. Il Veneto potrebbe essere la rivincita.

Vincendo, e governando in prima persona, la Lega dovrà però dimostrare di essere diversa da ciò che sembra. Il che significa che dovrà cambiare: essere di governo e basta, e non di lotta e di governo. Nel concreto, non potrà più limitarsi a sollevare i problemi (citiamo a caso: sicurezza, immigrazione, islam): dovrà risolverli. Dove risolverli significa proporre delle soluzioni praticabili, non delle parole d’ordine generiche: e, per esempio, integrare gli immigrati, non dire che bisogna cacciarli; far pregare i musulmani, non impedirglielo; produrre sicurezza anziché conflitto sulla medesima. Perché governare è appunto sanare o meglio ancora prevenire i conflitti, non evocarli. Una sfida culturale, innanzitutto interna, che è ancora lungi dall’essere affrontata in tutta la sua portata.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), La Lega è messa alla prova, in “Il Mattino”, 27 marzo 2010, p. 3 (anche la Nuova Venezia e la Tribuna di Treviso)

L’appello del cardinal Bagnasco: Un esplicito assist al centro-destra

Il cardinal Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha deciso di entrare in campo. E porge un assist formidabile al centro-destra. Non si può interpretare altrimenti l’intervento di ieri, con cui suggerisce caldamente agli elettori di non votare chi è a favore dell’aborto.

I valori “non negoziabili” indicati dal cardinale all’attenzione dei fedeli, di fronte alla scelta elettorale, sono “la dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna”. Cioè tutto quello che la destra è disposta a dare alla chiesa cattolica, almeno a parole, in cambio della sua dichiarazione di voto.

Già la selezione dei valori ha in sé qualcosa di inquietante, anche se non nuovo nelle dichiarazioni dei vescovi, dato che si sostiene che “è solo su questo fondamento che si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come il diritto al lavoro e alla casa; la libertà di impresa finalizzata al bene comune; l’accoglienza verso gli immigrati, rispettosa delle leggi e volta a favorire l’integrazione; il rispetto del creato; la libertà dalla malavita, in particolare quella organizzata”.

Come dire: tutti gli altri valori derivano dai precedenti. La pace, la giustizia, l’onestà, la carità, il rispetto vengono comunque dopo l’indisponibilità della vita dal concepimento fino alla morte naturale. Cioè sono meno importanti. Sarebbe interessante andarlo a spiegare, per dire, a chi vive ogni giorno sotto il giogo della mafia, che è solo l’ultimo punto della lista.

Alcune premesse sono d’obbligo. Primo: l’aborto non è un qualcosa che vuole introdurre la sinistra. È una legge dello stato, che anche la destra vuole mantenere. Tanto è vero che se occasionalmente paga il tributo di quello che gli anglosassoni chiamano lip service, espressione più elegante dell’equivalente traduzione italiana, alle posizioni della chiesa, nessuno si è mai davvero posto il problema di rivedere e tanto meno abrogare la legge 194. Secondo: gli aborti sono in diminuzione. E i dati in aumento sono tragicamente quelli clandestini, non quelli legali, specie tra alcune popolazioni immigrate.

Ma allora perché tornare ancora su questo tema? Forse perché in gioco c’è soprattutto altro, a cominciare dai temi esplicitati successivamente a quello dell’aborto, che la destra è in grado di meglio garantire.

Ed è così che tutto il resto passa in secondo piano: gli scandali, l’illegalità fatta sistema, la corruzione, la menzogna politica come linguaggio ordinario, il rifiuto del confronto democratico e la preferenza per l’insulto a distanza, tramite telegiornale. Si vota alle elezioni, regionali per giunta, che dovrebbe significare occuparsi del bene comune a livello locale: ma per i vescovi bisogna votare pensando all’aborto. Una scelta anti-federalista per definizione, oltre tutto.

Il centro-destra forse beneficerà qualcosa da questa dichiarazione: almeno in termini di spazio sui giornali. Ma la chiesa pagherà un prezzo alto, ancora una volta. Perché ormai – molti sondaggi lo indicano con chiarezza – le prese di posizione dei vescovi sono sempre più deboli nell’orientare l’elettorato cattolico: che se voterà prevalentemente il centro-destra, come accaduto in questi anni, lo farà per altri motivi, che nulla hanno a che fare con l’aborto. E’ insomma più di una reciproca conferma di vicinanza tra vertici che si tratta, che non di una reale possibilità di orientamento della base. Una scelta tutta e solo politica.

Tuttavia anche tanti altri eventi, a cominciare dal caso Englaro, hanno mostrato con chiarezza che se i vertici sono più o meno compatti, la base cattolica è radicalmente divisa, e quasi esattamente a metà. Segno di un distacco ormai insanabile, che ogni ulteriore presa di posizione di stampo autoritativo rende più difficile da colmare. E che assomiglia molto allo “scisma sommerso” analizzato in un libro di qualche anno fa. Un distacco silenzioso ma netto.

L’elettore cattolico insomma vota come vuole. È il cattolico in quanto tale che soffre per queste esplicite scelte di campo. Tanto valeva dire: votate centro-destra. E, ancora più chiaramente: non votate Emma Bonino. Sarebbe stato più onesto. E, in definitiva, altrettanto inefficace.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), L’appello del cardinal Bagnasco: Un esplicito assist al centro-destra, in “Il Piccolo”, 23 marzo 2010, pp. 1-6 (anche Messaggero veneto)

La chiesa deve ripensare il suo ruolo

Sul Mattino di ieri don Marco Cagol ha proposto delle interessanti riflessioni sul messaggio pre-elettorale del cardinal Bagnasco. Che meritano, per la loro profondità, qualche chiosa.

Egli afferma che è stato consolante vedere come non ci si siano “stracciate le vesti per una presunta ingerenza della Chiesa”. Ovvio che lo schieramento di centro-destra, dominante sui media, non avesse interesse a parlarne in questi termini. Ma è anche vero che le voci dissenzienti, anche interne alla Chiesa, non hanno molti ambiti per manifestarsi, a cominciare dalla stampa cattolica, piuttosto sorda in materia.

Proprio lo spazio dato alle parole di Bagnasco dimostra peraltro che, in positivo o in negativo, strumentalizzazione c’è stata eccome: e abbiamo troppa stima dell’intelligenza del cardinale per pensare che fosse inaspettata. Anche perché, se si fosse davvero voluto mandare un messaggio solo pastorale e non elettorale, lo si sarebbe fatto dopo le elezioni, non prima.

Essendo tra coloro che hanno letto interamente il testo – effettivamente ben più profondo di come lo si è sintetizzato – vorrei sommessamente aggiungere che l’impressione, nel passaggio poi evidenziato dalla stampa, era proprio quella di una precisa indicazione di voto, cui mancava solo l’esplicitazione finale: votate centro-destra. O almeno non votate Emma Bonino e Mercedes Bresso. Prova ne sia che se ne sono accorti tutti, di destra e di sinistra.

La destra è stata lesta nello sfruttare il sostegno che le è stato offerto, mettendo in ombra alcune banali verità, occultate anche nel documento. Ad esempio che l’aborto – il tema di cui soprattutto si è parlato – non è un qualcosa che vuole introdurre la sinistra, ma una legge dello stato, che anche la destra vuole mantenere, tanto è vero che nessuno si è mai davvero posto il problema di abrogare la legge 194. Che gli aborti legali sono in diminuzione. E che in aumento sono tragicamente quelli clandestini, specie tra alcune popolazioni immigrate: e c’entrano molto con la condizione di clandestinità a cui le leggi approvate dalla destra li costringono. E infine che l’aborto non è propriamente tema da elezioni regionali: il bene comune locale avrebbe bisogno di ben altre sottolineature.

“Sostiamo un attimo e proviamo a pensare”, ci dice don Marco Cagol, con le parole di Bagnasco. Magari anche alle conseguenze di questi messaggi. Perché se occorre “approfondire le proprie convinzioni non sulla base di slogan, ma con l’uso accurato della ragione vissuta nella fede”, serve un franco dibattito, nello spirito della correzione fraterna, non dei messaggi sempre e solo calati dall’alto, dove l’ascolto è a senso unico: delle pecore da parte dei pastori, come se i pastori non avessero mai bisogno di ascoltare. Abitudine invalsa anche tra i vescovi, se è vero, come notava Francesco Jori su questo giornale, che chi parla a nome loro ha la singolare abitudine di farlo prima ancora di averli sentiti: come prolusione, non come sintesi finale di un dibattito, che infatti non fa mai notizia.

Una riflessione sulle modalità con cui la chiesa si pone probabilmente gioverebbe anche ad essa. Perché ormai – molti sondaggi lo indicano con chiarezza – le prese di posizione dei vescovi sono sempre più deboli nell’orientare l’elettorato cattolico: che comunque voti lo fa esercitando la sua autonoma riflessione. E certi messaggi aumentano il disagio di chi, pur cattolico, non vi si riconosce, e si rattrista dell’uso elettorale di parole e temi alti, producendo quello che un libro di qualche anno fa chiamava “lo scisma sommerso”. Mentre tra i vertici politici rischiano di far prevalere un clericalismo spesso inversamente proporzionale alla fede, e una attenzione alla Chiesa strumentale, che ne immiserisce il messaggio nella stessa misura in cui ne esalta il ruolo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), La chiesa deve ripensare il suo ruolo, in “Il Mattino”, 15 marzo 2010, p. 1-4

Scandalo pedofilia: L’intoccabilità della chiesa

Lo scandalo della pedofilia si sta rivelando più devastante del previsto per la Chiesa cattolica. Non è più considerabile solo come un fatto occasionale (che riguarda poche persone), localizzato (solo in alcuni paesi), e temporaneo (si rivela anzi una tendenza profonda e di lungo periodo). E viene sempre più percepito, nel dibattito pubblico, con una gravità particolare, che va al di là dell’odiosità del fatto in sé, finendo per toccare almeno tre pilastri fondamentali.

Il primo, quello emerso maggiormente, è forse il meno importante: la questione del celibato ecclesiastico. La società comincia a interrogarsi sul fatto che, pur essendo una libera e autonoma scelta della Chiesa cattolica, non è più considerabile solo un fatto interno ad essa, perché ha conseguenze che la trascendono. Tra pedofilia, preti con prole più o meno nascosta, omosessuali occasionali, o semplici consumatori di pornografia, la cronaca mostra sempre più spesso una verità ben conosciuta all’interno della Chiesa, ma malvolentieri evocata: la frequente fragilità dell’identità sessuale ed emotiva di una parte – minoritaria, va detto, ma significativa – del clero. Tema su cui tuttavia, all’interno, si evita accuratamente di dibattere. Se ne parla, se ne sussurra, ma ci si rifiuta di trarne le conseguenze. Che sono anche più serie e gravi in altri contesti, come in Africa o in America Latina, dove la scelta in sé è spesso malintesa quando non irrisa, e il problema comincia già nei seminari. Del resto, che non sia dogma ma tradizione, peraltro iniziata circa un millennio dopo Cristo (e non condivisa dall’ortodossia e dal protestantesimo) è cosa nota, ed è un aspetto non marginale delle difficoltà del dialogo ecumenico. Anche i laici, e in particolare i laici cristiani, i praticanti, oggi cominciano a chiedersi se non sia lecito, su di essa, aprire un dibattito franco.

Il secondo pilastro è di principio: legato al diritto di controllo dell’opinione pubblica, e al ruolo della legge civile e della giurisprudenza. La Chiesa non ama né la pubblicità né il dibattito interno, specie se coinvolge anche i laici. Basta leggere la stampa cattolica, soprattutto in Italia, per rendersene conto: schiacciata sulle posizioni dei vertici, al punto che quando si alza qualche voce dissonante, ciò che dovrebbe essere normale, fa notizia di per sé. E, quando ha potuto, ha cercato, spesso con successo, di sottrarsi alla legge e alla giurisdizione italiana (chi non ricorda gli scandali dello Ior?). E’ quanto troppo spesso è avvenuto a proposito di pedofilia, con conseguenze gravissime, che ora si ritorcono contro la Chiesa stessa. L’opinione pubblica non accetta più che qualche cittadino voglia considerarsi al di sopra o a parte rispetto alla legge, anche se, e forse tanto più, se si tratta di un ecclesiastico, che dovrebbe essere e comunque si pone anche come esempio morale.

Il terzo è un aspetto più sociologico: l’intangibilità della Chiesa in quanto istituzione. in Italia in particolare, parlare male della Chiesa, nello spazio pubblico, è difficile. Detestata magari in privato, è ossequiata in pubblico, soprattutto dalla politica, spesso al di là del lecito, e non di rado da clericali senza fede, che ne strumentalizzano il messaggio o si prodigano nel compiacerla con l’auspicio di ricavarne consenso. In qualche modo, a seguito di questi scandali, la società sembra aver trovato il modo di poter legittimamente criticare la Chiesa. Al punto che è cominciata una ricerca dello scandalo talvolta pretestuosa, nella misura in cui va a scoperchiare episodi di venti o trent’anni fa usandoli, in questo illegittimamente, come criterio interpretativo della Chiesa di oggi, o della Chiesa in sé. Una conseguenza ingiusta. Che tuttavia è almeno in parte la conseguenza inevitabile e in qualche modo meritata di comportamenti di separatezza e di presunzioni di intoccabilità troppo a lungo praticati. L’auspicio, naturalmente, è che servano da lezione per il domani. Nel riaprire il dibattito, interno in primo luogo, sul ruolo stesso della Chiesa nella società.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Scandalo pedofilia: L’intoccabilità della chiesa, in “Il Piccolo”, 15 marzo 2010, pp. 1-2

Nell’Italia corrotta. La voce debole dell’impresa

Gli scandali che settimanalmente vengono alla luce (ieri gli appalti del G8, oggi l’operazione Carosello, domani vedremo) mettono in evidenza un fenomeno antico: l’intreccio perverso tra politica e affari, magari con l’intervento della criminalità organizzata, coinvolta in entrambi. Ma poi la curiosità pubblica finisce sempre per concentrarsi sulla politica, lasciando in ombra l’altro grande malato: gli affari e i malaffari.

Lo scambio è evidente. Gli imprenditori contrattano con il politico di turno la propria fetta di risorse pubbliche, in cambio di favori in denaro o in natura: una dazione in contanti, una escort per i momenti di relax, l’assunzione di un figlio, un finanziamento (e, quando entra in campo la criminalità organizzata, un pacchetto di voti) per la prossima campagna elettorale. Il quadro è moralmente desolante, e il meccanismo inevitabilmente distruttivo di fiducia e di risorse. Ma Tangentopoli ci ha insegnato, e gli scandali di oggi ci confermano, che dove c’è corruzione c’è concussione: che se spesso è il politico che sollecita una mazzetta in cambio di un appalto pilotato, altrettanto spesso è l’imprenditore che chiede al politico di garantirgli una commessa, di cambiare un piano regolatore, di legiferare su un incentivo, di truccare un concorso, di concedere una consulenza – e questo anche a livello micro, di piccolo paese, non solo nazionale; di assessore, non solo di ministro.

E così il male dilaga. Da un lato il politico ha bisogno di complicità interne, tra i funzionari che fanno le regole e tra quelli che le truccano, tra chi omette controlli e chi, pur sapendo, chiude entrambi gli occhi per non vedere e non perdere il posto, o fare carriera più velocemente. Dall’altro l’imprenditore ha bisogno anch’egli di molte collaborazioni, a tutti i livelli: se per precostituirsi il capitale per un finanziamento illecito deve operare creativamente sui bilanci, con l’aiuto di impiegati e commercialisti, per trasportate un carico inquinato o non autorizzabile in una discarica le complicità arrivano spesso fino agli operai che caricano il materiale, all’autista che lo trasporta, e all’impiegato che non controlla. E si forma così una lunga filiera di illegalità diffusa e di collusioni che coinvolge parti significative della società: non minore nel privato di quella, doverosamente più scandalosa perché si tratta di risorse e posizioni pubbliche, sul lato della politica.

Chi ne fa le spese, l’abbiamo visto, è il mercato – che mai si presenta come viene insegnato nelle facoltà di economia –, il principio di libera concorrenza, la ricchezza collettiva, il bene comune, la fiducia come garanzia e bene anche economico, l’onestà stessa come principio condiviso e praticabile. E, quindi, quella grande parte di imprenditoria pulita, corretta, non assistita, che cerca faticosamente di conquistare fette di mercato e mantenere le proprie posizioni puntando sulla qualità e l’innovazione, non sul mercimonio e sulla truffa; sulla trasparenza e l’eguaglianza delle possibilità, non sull’opacità e le relazioni con gli amici degli amici.

Perché allora lo scandalo pubblico è quasi a senso unico, nei confronti della casta? Perché anche le organizzazioni degli imprenditori prestano così poca indignazione – e troppo poca polemica interna – verso comportamenti che pure minano le basi dei principi cui si ispirano? Forse perché troppi, grandi e piccoli, specie se rappresentativi e organizzati, e quindi più intrecciati alla politica, hanno guadagnato qualcosa da questo sistema, e hanno qualcosa da perdere se cambiasse. Ma anche perché la politica, nonostante la sua protervia e i suoi privilegi, è l’anello più debole, non quello più forte (anche, incidentalmente, nel controllo dei media). Non a caso, persa nel proprio stesso discredito, la politica cerca sempre più spesso la figura salvifica dell’imprenditore per risolvere i suoi problemi. E l’imprenditoria ne approfitta per entrare direttamente nel gioco politico e orientarlo: ma non sempre nel senso dell’interesse collettivo. Più spesso, troppo spesso, per garantirsi rendite di posizione all’interno dei meccanismi dati, anziché per cercare di rovesciarli.

Ma il prezzo di questo immobilismo lo paga il paese, attori economici onesti in primo luogo. E se non saranno loro a levare alta la propria voce, superando interessi e connivenze (come è cominciato ad accadere, ad esempio, nella lotta alla mafia, altro grande distruttore di ricchezza, di fiducia e di imprenditoria onesta), difficilmente riusciranno a farlo altri attori con meno potere, a cominciare dagli elettori.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Nell’Italia corrotta. La voce debole dell’impresa, in “Il Piccolo”, 2 marzo 2010, p. 1

ANCHE

Allievi S. (2010), Imprenditori, ribellione alla politica, in “Il Mattino”, 18 marzo 2010, p. 1-5 (anche la Tribuna di Treviso)

Il frate che seppe rimproverare pubblicamente i potenti (Sant’Antonio)

Pellegrinaggio. Miracolo. Salvezza. Sono le tre parole chiave del ‘fenomeno’ Sant’Antonio. Parole antiche, che rispondono anche a pratiche moderne.

Il pellegrinaggio ha anche modalità laiche: l’andar per mostre, per concerti, per shopping, e poi il turismo di massa, il rito del week-end, gli esodi vacanzieri. Anche lì in coda per ore: ma senza quel perché solido, primordiale, vivo. E lontani mille miglia dall’esperienza del pellegrino, fatta anche, persino in mezzo alla folla, di momenti di silenzio, di solitudine, di introspezione. Il pellegrinaggio offre tutto questo: in più mette in contatto persone, cammini, culture. Dà un senso al disagio, alla difficoltà, alla sofferenza: perché lì anche l’attesa ha uno scopo. Ed è un’esperienza forte perché la si con-divide, e questo aumenta l’emozione del momento. E perché ha una meta: che non è il punto d’arrivo, ma il cammino in sé. Non la risposta alla domanda: ma l’inesausto porsela. Come nel racconto del pellegrino russo.

Il miracolo. Il parallelo laico più evidente, oggi, è forse il cinema: dove il soprannaturale, il misterioso, l’incredibile, il non razionale, il non realistico, il non spiegabile, accadono continuamente. Ed è precisamente per questo che andiamo a vedere i film: per ritrovarci altrove, e possibilmente in un altrove magico. Ma andiamo a cercarlo anche nella vita: inseguendo guaritori, maghi, santoni, strane pratiche new age, che ci danno un assaggio del potere del divino, che entra nella vita e la cambia. Che opera la svolta che vorremmo e che da soli non riusciamo a darle. Mal che vada c’è sempre un terno al lotto, un gratta e vinci, il biglietto vincente di una lotteria, a dare la speranza del cambiamento. E per chi non ce la fa, la fuga: nell’alcol, nella droga, nelle esperienze più disparate, nella mobilità che cerca il cambiamento nello spostarsi, nel fare di continuo cose nuove, perché le altre, le solite, non hanno senso, o non ce lo troviamo.

La salvezza. Quella dell’anima e quella del corpo. Non a caso, in latino, salute e salvezza sono una parola sola: salus. Il “liberaci dal male” che si ripete nel Padre nostro, ma anche il concreto liberarsi dai mali, dalle malattie: o almeno, se ci si riesce, dare loro un senso, riuscire a sopportarle e a sopportarne le conseguenze, a conviverci. Non a caso c’è un grande ritorno, anche nelle religioni, al senso della guarigione. E guarire e curare vanno in parallelo: si può guarire una malattia, ma se non si può, si può sempre prendersi cura del malato. Non a caso in passato il prete si chiamava anche curato. Le religioni che praticano la guarigione sono oggi quelle di maggiore successo. Gesù guariva malati e indemoniati. I suoi discepoli pure. La teologia e le chiese occidentali di oggi, che insistono sulla razionalità della fede, a cominciare da tante dichiarazioni del Papa, l’hanno un po’ troppo messo in ombra. E nel mondo, le religioni che fanno più proseliti sono quelle pentecostali, o i gruppi cattolici, oggi maggioritari rispetto al cattolicesimo occidentale, che nel terzo mondo fanno le stesse cose: guariscono, liberano dai demoni, cambiano la vita. E non sono metafore: sono fatti. Il Santo dei miracoli ce lo ricorda. Non a caso intorno a lui c’è così tanta devozione.

Poi, dietro il fenomeno Sant’Antonio, c’è la sua persona. Che di cose, pochissimo messe in evidenza, ce ne ricorda anche altre.

L’importanza dello studio e del sapere, ad esempio. Antonio legge tantissimo: è uomo di vasta cultura teologica, di solide basi dottrinali. Sa l’importanza di tutto questo, pur in un ordine giovane ed entusiasta, che vive ancora del carisma di Francesco. E fonda, infatti, il primo studentato teologico francescano, a Bologna. Una città universitaria, come Padova, dovrebbe ricordarsene: dopo tutto, se il Santo è il suo primo luogo di attrazione, ma su tempi brevi di permanenza, l’Università è il suo primo polo di richiamo su base stabile, per periodi più lunghi, per intraprendere altri cammini.

Poi il rapporto e il dialogo tra culture. Antonio, portoghese, viaggerà molto. Vuole andare persino a predicare nelle terre dell’islam, e se possibile a convertire i musulmani. Se ne andrà in Marocco, anche se sarà costretto a tornare molto presto, a seguito delle malattie che contrarrà in Africa. Ma per convertire bisogna conoscere, bisogna prendere sul serio, bisogna rapportarsi personalmente, bisogna incontrare, bisogna mettersi in gioco. Più o meno il contrario di quanto troppi stanno facendo nelle nostre città, proprio a proposito di immigrazione, e di musulmani.

Infine: Antonio è molto esplicito e molto netto, anche nel linguaggio. Soprattutto è durissimo con i ricchi, i notabili, i potenti, se agiscono malamente. Li chiama per nome e cognome, quando occorre: e li accusa. Ma assumendosi le sue responsabilità: andandoci lui, di persona, come farà con Ezzelino. E sa che bisogna dire la verità, anche se fa scandalo, anche se il silenzio è più gradito, da costoro. Non c’è ombra di ipocrisia, di acquiescenza al potere. Anche da questo, forse, c’è qualcosa da imparare.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Il frate che seppe rimproverare pubblicamente i potenti (Sant’Antonio), in “Il Mattino”, 19 febbraio 2010, pp. 1-7