Il nuovo Ulivo non basta, serve una via d’uscita

L’opposizione, finalmente, ha battuto un colpo. Di fronte a una evidente crisi politica e prima ancora morale, in cui tra primi ministri, ministri e coordinatori del principale partito di maggioranza, si è visto in questo scorcio d’estate di tutto e di più (avvitamento del sistema di potere su se stesso, invischiamento nel malaffare, sordide clientele, uso delle risorse pubbliche per fini di arricchimento personale), il principale partito di opposizione si è svegliato dal letargo, ricordandosi di non lasciare il mestiere solo a Fini (che dopo tutto vota con la maggioranza) e a Famiglia Cristiana. E di fronte al vecchio che marcisce e va in cancrena, trascinando il Paese nella sua stessa decadenza, il nuovo che avanza ha finalmente partorito la soluzione: il Nuovo Ulivo, con la maiuscola…

La sostanza è giusta, ci mancherebbe: unire le forze di opposizione per uscire dalla deriva plebiscitaria sudamericana verso cui siamo incamminati, fare una decente riforma elettorale che riconsegni il diritto di voto agli elettori, e poi occuparsi finalmente dei problemi del Paese. La formula non potrebbe invece essere più triste e inadeguata. Viene da piangere, più che da sbadigliare, di fronte a tanto politichese, a tanta incapacità comunicativa, a tante formule per addetti ai lavori, che sono la misura esatta di altrettanta distanza dal paese reale. E l’esagerato e spesso finto entusiasmo con cui il messaggio è stato accolto dalla nomenclatura del PD, quasi fosse la parola profetica di un oracolo, o il risveglio del leone addormentato, o la tromba dell’ “arrivano i nostri”, è la conferma di questo distacco, e allo stesso tempo il segnale di come di una parola e di un’azione decisa ci sia un tragico bisogno.

Fa impressione, però, l’immediato avvitarsi del dibattito interno che è scattato, come un riflesso condizionato, intorno alle solite facce. Quelle dei burosauri del partito, che dal Pleistocene si risvegliano per dire la loro a questo o a quel giornale, e come vecchie dive dal glorioso passato conquistano un’altra effimera passerella nell’illusione di ritrovare un ruolo, senza rendersi conto che trasmettono irrimediabilmente la sensazione di una stagione oramai tramontata. Lo stesso richiamo all’Ulivo – una stagione anche esaltante di tentativi riformisti, mai veramente digerita da una parte di quella stessa nomenclatura che oggi la ripropone, e soprattutto miseramente finita nelle faide interne che hanno riconsegnato il Paese a Berlusconi – oggi per lo più fa l’effetto di quei soprammobili che rappresentano un caro ricordo ma di cui, senza avere il coraggio di buttarli via, non si sa bene cosa fare.

Detto questo, è più che urgente rimboccarsi le maniche per costruire una opposizione adeguata alla tragedia – travestita da farsa ma non per questo meno grave – che stiamo vivendo, e una alternativa percorribile all’implosione incontrollata che ci aspetta con l’attuale classe dirigente. Perché c’è il bisogno vitale di dare una svolta al Paese, o almeno il barlume di una speranza: prima che ci si spenga nella rassegnazione, e la palude ci inghiotta. Per cui, per favore, basta discutere: e dateci l’opposizione che ci serve. Perché non è solo la Prima Repubblica che è morta; anche la Seconda è purulenta e agonizzante. E abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia intravedere la Terza. O una via d’uscita purchessia…

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Il nuovo Ulivo non basta, serve una via d’uscita, in “Il Piccolo”, 1 settembre 2010, pp. 1-2

anche come Allievi S. (2010), Nuovo Ulivo: serve la svolta, basta discorsi, in “Il Mattino”, 7 settembre 2010, pp. 1-5 (anche la nuova di venezia e la tribuna di treviso)

Ora di religione e uguaglianza fra i cittadini (con epistolario)

La sentenza del Tribunale di Padova che ha condannato il Ministero dell’Istruzione e la scuola elementare Zanibon a risarcire un’alunna obbligata, in mancanza di corsi alternativi, a frequentare l’ora di religione nonostante avesse chiesto l’esenzione, pone un problema molto serio, frutto di un’anomalia tutta italiana: il fatto che l’insegnamento religioso sia confessionale, e quindi facoltativo, ma parificato, seppure in maniera contorta, alle altre materie.

Altri paesi finanziano l’insegnamento religioso confessionale: ma anche delle minoranze, non solo della confessione maggioritaria. Altri ancora forniscono un insegnamento religioso unico, obbligatorio o opzionale: ma, come per le altre materie, si fanno carico di deciderne i contenuti e di selezionarne i docenti. Da noi invece un obbrobrio legislativo fa sì che lo Stato si assuma l’onere di un insegnamento confessionale, che tuttavia è facoltativo (non potendosi obbligare i cittadini di altra o nessuna confessione religiosa a frequentarlo, anche se nei fatti non sono a disposizione opzioni alternative), lasciando il controllo sugli insegnanti alla Chiesa (che può nominarli e revocarli, anche per motivi che nulla hanno a che fare con il contenuto e le modalità dell’insegnamento, ad esempio per il fatto di essere divorziati), compiendo una evidente discriminazione nei confronti dei suoi cittadini non cattolici.

Da tempo anche in Italia si va manifestando una corrente di opinione che, tenendo conto dei cambiamenti avvenuti nella società (una sempre minore percentuale di cattolici, un sempre maggiore pluralismo religioso, e una progressiva equiparazione dei diritti di tutti), propone non più l’ora di religione cattolica, ma l’ora delle religioni, con programmi costruiti anche in collaborazione con le confessioni religiose (a cominciare da quella cattolica), ma con curricula uguali per tutti, e la selezione degli insegnanti sulla base di concorsi attitudinali, come per qualsiasi altra materia. Questo consentirebbe di dare dignità vera a un insegnamento che ora è già nelle cose di serie B, favorendo una alfabetizzazione religiosa degli italiani che è a livelli drammaticamente bassi, e rispettando le convinzioni di tutti.

I punti di partenza su cui riflettere sono due: uno di efficacia (l’ignoranza religiosa degli italiani) e l’altro di principio (la progressiva maggiore presenza di minoranze religiose e l’uguaglianza dei cittadini).

Il primo punto è testimoniato anche da periodiche inchieste interne al mondo cattolico: Famiglia Cristiana ha rilevato che solo il 7% degli italiani ha letto i quattro vangeli, il che pone un problema sull’utilità persino dell’insegnamento confessionale (dal punto di vista cattolico, se non si insegnano i vangeli, cosa si insegna?). Ma è senso comune constatare che l’ignoranza dei fondamentali biblici rende di fatto incomprensibile ai più, tra le altre cose, il significato di gran parte del nostro patrimonio culturale: dalle chiese ai musei, dalla letteratura ai proverbi.

Il secondo punto è figlio dei tempi. Oggi sempre più italiani si dichiarano di diversa confessione religiosa (almeno 1 milione e 300 mila) o di nessuna (i praticanti cattolici sono tra un quarto e un terzo della popolazione), e gli immigrati ci hanno portato nuove confessioni religiose (non meno di 3 milioni di stranieri non cattolici). Il che significa che anche l’Italia è diventata un paese religiosamente plurale. Su questo, che è un cambiamento epocale, la riflessione intellettuale è in ritardo, anche perché polarizzata non tra laici e credenti, ma tra clericali e giacobini, sanfedisti e atei militanti. E quella politica mostra una costante propensione bipartisan del ceto politico a tenersi buona la Chiesa non per convinzione ma per interesse: ciò che fa sì che nel nostro Parlamento il tasso di clericalismo sia inversamente proporzionale alla fede – un elemento di scambio, non una coerente riflessione sui princìpi, giuridici e religiosi.

Non stupisce che, anche in questo campo, spetti alla magistratura un ruolo di supplenza, in coerenza con numerosi pronunciamenti della corte costituzionale, basati sull’uguaglianza e la pari dignità dei cittadini.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Ora di religione e uguaglianza fra i cittadini (con epistolario), in “Il Mattino”, 11 agosto 2010, pp. 1-7 (anche la nuova di venezia)

Scambio di opinioni con un pastore protestante:

Ora di religione o ora dei problemi?

Bene ha fatto il prof. Allievi a sollevare nuovamente la questione dell’ora di religione a seguito della sentenza del Tribunale di Padova. L'”obbrobrio legislatrivo” esistente esigerebbe grande attenzione per chiunque vorrebbe una società pluralista. La scuola si vuole fare carico di un problema più grande di lei.

Sarebbe forse il caso di allargare la riflessione ad altri aspetti e ad altre componenti delle società. Le perplessità da parte protestante sono ovvie. Un’ora delle religioni sarebbe veramente una soluzione? E’ compito dello Stato curare l’alfabetizzazione in materia religiosa? Ha veramente competenze in materia religiosa? E’ in grado di gestire una pedagogia della religiosità? Non sarebbe meglio arrestarsi sulla soglia della religione per far posto alla laicità?

Sono solo alcune domande che vengono alla mente e che meriterebbero una serrata riflessione.

Pastore Pietro Bolognesi

gentile pastore,

l’ora delle religioni – declinabile in molti modi diversi – è un progetto che va avanti da anni, con la collaborazione di rappresentanti di varie confessioni protestanti, di studiosi cattolici e laici.

L’obiettivo è rimediare all’ignoranza religiosa e dare strumenti e dignità al pluralismo.

E la sua gestione è perfettamente a misura delle scuole, come in altri paesi accade.

La semplice abolizione della religione sarebbe un harakiri culturale: non darebbe spazio al pluralismo aumentando l’ignoranza.

Non credo sarebbe un gran risultato.

Delle due l’una. O crediamo che la religione abbia un senso per l’uomo, oppure no. Se pensiamo possa avercelo, anche solo culturalmente, è giusto che abbia spazio nella scuola, insieme a tante altre cose che spesso ne hanno meno.

Se pensiamo di no, la risposta è diversa. Ma allora perdono di senso molte altre cose, incluso il suo mestiere e le mie idee.

Resto del parere che dare almeno ai cittadini gli strumenti per capire il senso di un quadro esposto in un museo o di una cattedrale, in un paese come il nostro, sia una meritoria operazione culturale. E non farlo una grave responsabilità culturale, che stanno già pagando i nostri concittadini e ancor più pagheranno i nostri figli

cordialmente

Stefano Allievi

Ch.mo prof. Allievi

il suo punto di vista è molto rispettabile e l’assicuro che ce l’ho molto presente.

Lei ha d’altro lato colto il senso delle mie osservazioni.

Mi permetto di sottolineare nuovamente il fatto che, secondo me, lo stato non ha come compito quello di alfabetizzare la popolazione in campo religioso. Le ragioni sarebbero tante, ma come fa lei ad essere così sicuro che lo stato abbia le capacità di decidere cosa sia una religione? Anche con le migliori intenzioni, come farebbe a determinarne i limiti. Quale diruitto avrebbe d’escludere atei ed agnostici da una simile riflessione?

Ho l’impressione che materie come storia della filosofia, dell’arte, dell’architettura, ecc. sarebbero più che sufficienti per dare il senso della cultura preesistente e ad interpretare il passato ed il presente.

Sono d’altro lato profondamente persuaso che la religione abbia un senso per l’uomo in generale. La mia stessa vita è stata trasformata da essa. Penso però con uguale convinzione che debbano essere le chiese stesse a confrontarsi con le loro offerte religiose nella grande agorà del mondo piuttosto che delegare allo stato un compito per il quale non ha strumenti adeguati. La delega allo stato è semplicemente un segno d’impotenza della società civile per cui si finirrà per fare grande fatica ad andare al di là di qualche forma di relativismo.

Ma l’ignoranza religiosa non è anche frutto di una società che ha l’IRC? Perché non osare pensare in maniera più radicale? Non sarebbe megliio rafforzare la declinazione del pluralismo in ambito mediatico?

Capisco che le nostre idee non collimano, ma la ringrazio per aver prestato attenzione al mio punto di vista. E chissà che un giorno non ci si possa confrontare più diffusamente su queste questioni.

Cordialmente

Pietro Bolognesi

gentile pastore,

capisco e conosco le sue obiezioni.

Non continuerò a lungo la discussione, ma mi permetto di rilevare due contraddizioni (servono anche a me per ragionare, ed è questo il senso della discussione).

Certo, l’IRC è fatta male e contraddittoria in sé: uno strumento di potere, ma anche gestito con senso di inferiorità (non parificazione, non validità del giudizio all’esame di maturità, ecc.), perchè si ha la coda di paglia. e quindi è lo strumento sbagliato.

Ma se l’alternativa fosse ‘niente’, sarebbe peggio: i ragazzi non avrebbero alcun confronto con la questione ‘religione’ nel mondo della scuola. Alcuni ce l’hanno poi altrove (ma molti altri no): ma è come dir loro “a scuola si fanno le cose importanti, ma la religione non è considerata tra queste”. Il messaggio è questo. Per questo e altri motivi, piuttosto che niente io stesso, ai miei figli (uno alle medie, uno alle superiori), suggerisco di fare l’IRC: almeno hanno qualcosa con cui confrontarsi, anche criticamente (conoscono le obiezioni del padre, e hanno le loro). Del resto è quello che fanno molti genitori musulmani che conosco, ad esempio.

Limitarsi a dire: “meglio niente (che l’IRC)” ha un po’ il sapore della rivalsa del piccolo che toglie qualcosa al grande. Comprensibile dal punto di vista di una minoranza: in nome di un principio giusto, si applica una modalità che non è la migliore. Qualcuno ci perderebbe, ma la società ci guadagnerebbe?

Le due contraddizioni sono le seguenti:

a) lei chiede più spazio nei media (quelli pubblici, immagino: gli altri perchè dovrebbero se il prodotto non vende? E infatti da nessuna parte esiste, se non con i propri canali, come le tv evangeliche, che vendono il proprio prodotto). A me sembra legittimo: ma in nome di che differenzia il pubblico mediatico e il pubblico scolastico? Se la richiesta ha senso in un ambito, ha senso anche nell’altro. Oppure non ha senso in nessuno;

b) lei cita materie come storia della filosofia, dell’arte, dell’architettura. E’ anche consapevole che in tutte queste materie (come anche in lettere, in storia, in musica, in scienze politiche, in diritto, in medicina…) è possibile laurearsi senza aver fatto mai un esame di simbologia, di storia delle religioni, di arte sacra, ecc.? E quindi senza sapere un’acca di tutto ciò? Insegnando architettura senza nemmeno sapere perché una chiesa è orientata, o la simbologia dell’altare, o il perchè delle cattedrali o dei templi di altre religioni? O arte senza capire un’icona russa o sapere cos’è una deposizione o un’ascensione (tanto vale non entrare in un museo, allora)? O musica senza capire la spiritualità di Bach? O filosofia senza confrontarsi con san Tommaso, o il modernismo, o con il senso stesso dell’ateismo filosofico (le ricordo che in Italia non esistono insegnamenti teologici nelle università laiche: per larga parte per responsabilità della chiesa cattolica, ma ci si è accomodato benissimo il laicismo, e non per caso)? E non capire la simbologia di Dante? O affrontare il senso della morte per un medico? O il perchè del significato dell’idea del potere temporale del Papa o di Calvino? ecc.?

Ha ragione a dire che bisognerebbe affrontare questi temi nelle rispettive materie. Ma siccome non si fa credo che affrontarli sul serio sia molto più nel novero dell’utopia che non dare un’alfabetizzazione di base religiosa alle persone. Tanto più doverosa oggi che le religioni si confrontano continuamente, e se ne discute continuamente, dai banchi di scuola ai media alla politica, per cui la mancanza di un’alfabetizzazione minimale sul pluralismo religioso (così come di un minimo di conoscenza della storia di altri continenti) rende più difficile il semplice vivere insieme.

cordialmente

Stefano Allievi

Stakanovisti del bla bla

Governo tecnico, di salute pubblica, balneare. Eccezionale, di unità nazionale, istituzionale. Di transizione, di emergenza, di responsabilità nazionale. Di larghe intese o di stretti orizzonti. Per cambiare due o tre cose perché nulla cambi, o nessuna tanto fa lo stesso. Patto di legislatura o accordo di programma. E poi il girotondo dei nomi, lanciati nell’aere prima ancora che vengano informati i diretti interessati: Monti, Tremonti o Montezemolo. O altro presunto tecnico di turno. Tanto, anche qui, fa lo stesso: è solo un gioco.

Il primo accenno di crisi è sempre propizio ai dichiarazionisti: tanto più se siamo d’estate e i giornali, gossip, traffico e caldo a parte, hanno poco o nulla da scrivere. Anche il dichiarazionista del resto è animale stagionale. Riposa quando ci sarebbe da lavorare, ma è pronto a scattare con la sua formula magica quando non c’è assolutamente nulla da fare. E soprattutto nulla che possa fare lui, dato che la soluzione è fuori dalla sua portata.

Di solito i dichiarazionisti sono oligarchi, ex-oligarchi o aspiranti oligarchi dei vari partiti: più facilmente di opposizione, o di minoranze insoddisfatte interne alla maggioranza, dato che le maggioranze sono impegnate a tenersi strette carriere e poltrone, vitalizi e prebende, e quindi hanno interesse a non cambiare nulla. Il loro scopo non è dire o tanto meno fare qualcosa, ma far vedere che esistono. Per questo si gingillano a immaginare scenari, che è pur sempre meno faticoso che impegnarsi a costruirli.

L’impegno del dichiarazionista del resto non è gravoso: sa che la decisione non è in mano sua, ma dichiarando a destra e a manca da’ a vedere di contare qualcosa, grazie alla complicità del giornalista, che dando spazio al dichiarazionista a sua volta da’ a vedere di saperne molto di più, quanto a retroscena e complotti, di quanto in realtà non ne sappia. E così, con poca spesa, la dichiarazione da’ una buona resa.

Di concreto, dietro tanto dichiarare, qualcosa c’è: ma ha più a che fare con l’economia domestica che con la politica. Sono i ribaltoni e i cambi di casacche, i traditori e i venditori, i transfughi e i trasformisti. I parlamentari in vendita, in affitto o in leasing, riciclati, dismessi o pronti all’incasso: i camaleonti, insomma. Che cercano di capire cosa lucrare in proprio dallo sfacelo generale.

Il resto sono solo parole. Che, come al solito, mostrano come la situazione sia tragica, ma non seria. Perché, dopo tutto, dichiarazionisti e camaleonti – quando non sono la stessa persona – sanno benissimo che la decisione, per ora, è ancora in mano a una sola persona, o al massimo due o tre: il Cavaliere, forse il Lumbard, e l’imponderabile, il destino, o Dio, se avesse voglia di occuparsi di queste mestizie.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Stakanovisti del bla bla, in “Il Piccolo”, 6 agosto 2010, pp. 1-2 (anche su messaggero veneto Animali di stagione: I dichiarazionisti)

anche come Allievi S. (2010), Crisi politica e camaleonti di stagione, in “Il Mattino”, 24 agosto 2010, pp. 1-4 (anche la nuova di venezia e la tribuna di treviso)

La responsabilità del Vaticano. Pedofilia e sentenza Usa

Lo scandalo non è che vi siano scandali nella Chiesa. Così come gli uomini che la rendono visibile, essa sa bene di essere sancta et peccatrix, casta et meretrix, madre e matrigna: venti secoli di storia testimoniano di questa duplicità innanzitutto a coloro che ne fanno parte. Non occorre infatti essere accecati da una polemica pregiudizialmente anticattolica per vedere, insieme alle grandezze, le meschinità, le debolezze, le fragilità, e le vergogne della Chiesa: la vicinanza fraterna e l’appartenenza filiale le vedono ancora più da vicino.

Lo scandalo è nel volerlo fuggire, nel nasconderlo o nel provarci: tentativo immorale quanto inefficace, nell’era dell’informazione diffusa e della trasparenza planetaria. O fuggire dalle responsabilità che comporta.

La sentenza della corte suprema degli Stati Uniti, che si dice apra a una possibile processabilità dei vertici vaticani e del Papa, e che per ora si è limitata a non prendere in considerazione una petizione vaticana tesa a dimostrare che il sacerdote non è un dipendente della Santa Sede, lasciando che a decidere sia il tribunale di grado inferiore cioè la corte d’appello federale dell’Oregon, pone una serie di problemi notevolmente complessi. Lasciando quelli strettamente giuridici agli specialisti, occorre porsi almeno quelli di principio, che non sono da poco.

Un primo interrogativo è molto reale: la Santa Sede è in qualche modo corresponsabile di aver coperto gli abusi sessuali su minori di alcuni sacerdoti? Può essere capzioso il tentativo degli avvocati statunitensi delle vittime di coinvolgere il Vaticano: probabilmente – è lecito ipotizzare – al solo scopo, non particolarmente morale, di ottenere più denaro per i risarcimenti alle vittime, puntando al pesce più grosso, anziché limitarsi alle diocesi e agli ordini religiosi. Erano questi ultimi soggetti infatti che materialmente operavano i trasferimenti di sacerdoti di cui si conoscevano le tendenze e le condotte, senza denunciarli e consentendo loro di reiterare un reato particolarmente odioso: e per questi motivi sono già stati pesantemente sanzionati e costretti a risarcimenti molto onerosi.

Tuttavia, un problema si pone. La responsabilità penale è personale: di chi ha compiuto gli atti e di chi li ha materialmente coperti. Ma quella morale? E quella storica? Lo scandalo odierno è dopo tutto figlio di una tendenza che è anche una tentazione di lungo periodo: quella a calmare e sopire, a occultare, o almeno a lavare i panni sporchi in famiglia, cercando di salvare la faccia anche quando bisogna invece avere il coraggio di mettercela e di affrontare apertamente i problemi. Su questo c’è una tradizione attestata che non è di questo Papa, ma della Chiesa come istituzione nel suo complesso. Comprensibile, perché tipica di tutti i poteri terreni, ma oggi sempre meno accettabile: tanto meno da parte di una istituzione che si vuole anche morale. In concreto: la Santa Sede che consigli dava? Come suggeriva di muoversi, anche se poi a muoversi erano materialmente altri soggetti?

Tale questione si pone all’interno di una cornice più ampia, che interroga una tendenza secolare, legata al progressivo processo di centralizzazione che il Papato ha prodotto sulla Chiesa cattolica. Tendenza che ha poco a che fare con il messaggio di cui la Chiesa cattolica è portatrice, e peraltro fortemente discussa e osteggiata dentro e fuori di essa, e tuttavia confermata anche nei giorni scorsi con la reprimenda al cardinale Schönborn, reo di aver accusato il cardinal Sodano di aver cercato di insabbiare, da Roma, il caso del predecessore di Schönborn nella diocesi di Vienna, il cardinal Groer, costretto a dimettersi nel 1995 per aver molestato un seminarista minorenne: a cui si è risposto che, “quando si tratta di accuse contro un cardinale, la competenza spetta unicamente al papa”. Se si vuole tutto controllare, tutto sottoporre alla propria giurisdizione, tutto centralizzare e sottomettere alla sovranità romana, si può poi stupirsi di essere tirati in ballo, o limitarsi a dire che la colpa è di servitori infedeli e di istituzioni indipendenti e sovrane? Se si vogliono controllare persino le opinioni dei porporati, e più in generale dei chierici, non si sarà tanto più responsabili dei loro comportamenti?

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), La responsabilità del Vaticano. Pedofilia e sentenza Usa, in “Il Piccolo”, 1 luglio 2010, pp. 1-2

Ma il federalismo non può attendere

Un quartino di niente. Potremmo sintetizzare così la nomina del quarto ministro ad occuparsi dell’obiettivo più evanescente del governo: il federalismo. Un obiettivo che, dato il taglio continuo di risorse proprio agli enti che il federalismo dovrebbero attuare – Comuni e Regioni – rischia in realtà di allontanarsi indefinitamente o di restare a secco di contenuti reali, proprio come una bottiglia con troppi bevitori intorno. Un’etichetta senza prodotto. Un buco con niente intorno, per parafrasare una nota pubblicità, con un riferimento tragicamente diretto al buco nei conti pubblici che la manovra cerca malamente di contenere, caricandolo sugli enti locali e quindi in definitiva sui cittadini.

Tuttavia proprio la caduta dell’obiettivo finale sarebbe una tragedia ulteriore. Il federalismo è necessario non alla Lega, ma all’Italia. La Lega ha il merito storico di avere imposto la consapevolezza della sua necessità a buona parte del quadro politico, e alla pubblica opinione nel suo complesso. E la responsabilità storica di non aver saputo coinvolgere nella sua attuazione le capacità progettuali e tecniche migliori della nazione. E questo perché ha annegato un’istanza di innovazione e modernizzazione profonda, e di apertura, come il federalismo, in una proposta politica complessivamente angusta, arcaica e provinciale, di chiusura. Cercando di guidare e persino di monopolizzare il progetto con un ceto politico ancora non adeguato alla complessità della sfida. Con il risultato paradossale che se la Lega può attribuirsi a giusto titolo il merito di aver sollevato e tenuto alto anche in Parlamento e nel Governo il vessillo federalista, cui il Popolo delle Libertà si è adeguato più all’interno di una logica di scambio che per convinzione, sono spesso parlamentari, sindaci e intellettuali progressisti a suggerire i tecnicismi necessari ad attuarlo, o ad accorgersi delle contraddizioni più macroscopiche nella sua costruzione, e a cercare di correggerle.

Il fatto che però oggi chi nel Pdl tiene i cordoni della borsa, insieme alla destra di Fini, accompagnata anche da parte significativa della sinistra e della sua stampa, ripeta come un mantra che ormai di soldi per attuare il federalismo non ce ne sono più, e quindi non se ne parla proprio, lascia trapelare la malcelata soddisfazione di chi, in fondo, pensa così di aver colpito l’avversario politico di maggiore successo degli ultimi anni. Facendo un altro errore storico. Perché il fallimento di questo obiettivo (lo ripetiamo: l’unica vera grande istanza di modernizzazione sistemica che sia stata avanzata nell’ultimo decennio almeno) sarebbe il fallimento dell’Italia, non solo della Lega: che avrebbe buon gioco nell’attribuirne la responsabilità ai nemici centralisti, lucrandone comunque una rendita elettorale, anche se vedrebbe allontanarsi ulteriormente il suo principale obiettivo politico, ciò che alla lunga stancherebbe la parte più avvertita del suo elettorato.

La Lega ha ingoiato rospi di dimensioni enormi, pur di portare a casa l’obiettivo almeno nominalistico del federalismo, a cominciare da quello fiscale: dalle leggi ad personam agli investimenti a pioggia nel sud, fino a una modalità di governo, avallata anche dalla Lega stessa, che ha configurato quello attuale come probabilmente il governo più centralista dell’intera storia repubblicana, che ha eroso competenze agli enti locali in tutti i settori, a partire dalla stessa imposizione fiscale. Sperare che il processo fallisca in modo da caricarlo sulle spalle della Lega sarebbe tuttavia irresponsabile, per l’alleata destra non leghista come per l’opposizione. Sconfitto il federalismo non avrebbe vinto nessuno: se non la vecchia, inefficiente, immobilista e spendacciona Italia di sempre. Una Italia da cui non solo il nord ha tutto il peggio da temere, e nulla, ma proprio nulla di buono da aspettarsi.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Ma il federalismo non può attendere, in “Il Piccolo”, 26 giugno 2010, pp. 1-2 (anche su Messaggero Veneto, pp.1-2). Anche in Allievi S. (2010), Il federalismo dopo il varo della manovra, in “Il Mattino”, 16 luglio 2010, p. 1 (anche la nuova venezia e la tribuna di treviso, la manovra e il federalismo)

Il Pd si sta berlusconizzando?

Della democrazia interna possono fare a meno i partiti personalistici, carismatici e monoproprietari. Ad essi non servono congressi: e infatti fanno convention, passerelle o meeting tribunizi ad uso delle tv; tanto le decisioni vengono prese altrove. Non così per un partito che si vuole democratico, per ragione sociale e per metodo.

E’ per questo che ha suscitato sorpresa leggere sui giornali che un conclave di autorevoli maggiorenti del PD padovano, che non costituisce tuttavia un organismo formale del partito, avrebbe deciso i prossimi segretari cittadino e provinciale in un logica di compensazione tra correnti, con candidature uniche e nessuna possibilità di discussione (chi vorrà candidarsi potrà farlo, naturalmente, ma senza e contro il partito, la cui macchina lavorerà per altri). Per giunta con una certa fretta, visto che, ignorando le richieste di rinvio che venivano da alcuni circoli di base, Padova e Vicenza, uniche realtà venete, svolgeranno i congressi entro pochi giorni, mentre altrove si faranno in autunno (come chiesto dai due terzi degli iscritti sul sito dello stesso PD veneto).

La miopia di questo metodo sta nel fatto che il PD ha dato il suo meglio, anche in termini di partecipazione e di visibilità dei suoi contenuti e delle sue battaglie, quando ha saputo coinvolgere maggiormente cittadini ed elettori. Qui si tratta di iscritti, che a maggior ragione si dovrebbero coinvolgere nel meccanismo decisionale. E che invece, complici tempi ristrettissimi e un regolamento al limite del delirio burocratico, che ancora una volta impone liste bloccate e non consente di esprimere preferenze, vengono di fatto marginalizzati.

Non è la scelta delle persone, tutte degne, in questione: ma il metodo. Contrariamente a quanto si dice, il fine, anche in politica, non giustifica i mezzi, ma li discrimina. Se l’obiettivo è costruire un partito che sia democratico, possibilmente più ampio e coinvolgente dell’attuale, propositivo e capace di costruire un’alternativa, il metodo non può essere che democratico, propositivo e coinvolgente. Non praticarlo impedisce la discussione e il confronto interni, anche tra vertici e base, che sono fecondi, riducendo tutto a una discussione autoreferenziale tra vertici non sempre rappresentativi, e costringendo il dibattito a spostarsi all’esterno del partito: dai mugugni al bar ai giornali.

Un grande studioso, Albert Hirschman, insegnava che il membro di un’organizzazione, al di là dei momenti di adesione fusionale, ha solo due modi per manifestare la sua critica (e la sua stessa presenza): l’exit e la voice. L’exit è appunto l’andarsene: non comprare più il tal prodotto, non votare più il tal partito. Un gesto chiaro, ma senza spiegazioni. La voice è la critica costruttiva: manifestare le proprie posizioni, motivarle, cercare aggregazione intorno ad esse, proporre soluzioni di miglioramento o ricambi di leadership. Se la voice non è consentita, non resta che la lealtà acritica (che tuttavia è un meccanismo che funziona meglio nei momenti di successo) o l’exit. Ecco perché non consentire alla voice di manifestarsi nell’ambito di un dibattito franco e aperto tra proposte alternative è una logica controproducente, che il PD, e le molte buone energie che lo abitano, non merita.

Una nota a margine. Questa logica dà rappresentanza solo a due gambe del PD: l’ex DS e l’ex Margherita. Riproducendo il passato anziché costruire il futuro, e impedendo la voice dell’altra fondamentale terza gamba: quella degli iscritti avvicinatisi al PD precisamente perché era un progetto nuovo e diverso – molte delle energie migliori e più entusiaste del partito si trovano proprio in quest’area. E non favorisce una discontinuità tra le persone che hanno gestito le diverse fasi, considerata quasi unanimemente una condizione indispensabile al rinnovamento (il candidato segretario provinciale, ad esempio, era un vice del precedente: il che è buona cosa solo quando l’obiettivo è la continuità). Non sembri strano allora che si auspichi una sana concorrenza, che non fa bene solo al mercato. E l’ascolto di persone e aree portatrici di opzioni alternative e di spinte innovative. Servirebbe almeno a non ripetere gli errori di sempre.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Il Pd si sta berlusconizzando?, in “Il Mattino”, 12 giugno 2010, p. 19

Il potere delle leggi e quello del padrone. Capire l’Italia con Rousseau

Rousseau e l’Egoarca: Su intercettazioni e dintorni

“Il più forte non è mai abbastanza forte da esser sempre il padrone, finché non trasforma la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere” (Rousseau). Ecco spiegata l’enfasi sulle leggi ad personam e ad pecuniam. E la necessità di inchiodare un paese travolto da un dissesto economico e finanziario e da una bancarotta morale di cui non abbiamo ancora visto il peggio (e, letteralmente, non lo vedremo, perché non ce lo faranno vedere) alle leggi sulle intercettazioni telefoniche.

Capita, alle volte, di riprendere in mano un autore del passato, e di ritrovarsi immersi nell’attualità più scottante. E’ quello che mi è capitato nei giorni scorsi col vecchio Rousseau: che, duecentocinquant’anni dopo aver scritto i suoi libri più noti, scopro descrivere non la Svizzera o la Francia di allora, ma l’Italia di oggi. L’Italia che nel momento in cui taglia ulteriormente le risorse e i servizi ai cittadini e dunque anche le loro libertà, produce riforme che impediscono a quegli stessi cittadini di sapere cosa fanno coloro che danneggiano e umiliano il paese e le sue regole in nome della privacy di governanti e delinquenti, approfittatori e accaparratori, mafiosi e trafficanti, corrotti e corruttori (quando non sono, se non la stessa persona, lo stesso ceto e lo stesso coacervo di interessi). L’Italia in cui l’Egoarca ci costringe a dibattere di intercettazioni e riprese video, come se fossero la principale urgenza del paese, solo perché è rimasta l’unica via attraverso cui lui e la sua corte sono stati messi in qualche modo alla berlina, o còlti in atti e parole moralmente discutibili o francamente illegali. Questo mentre i cittadini vedono assottigliarsi giorno dopo giorno i servizi cui avrebbero diritto, i comuni affogano in incomprensibili patti di stabilità che ne uccidono la possibilità non solo di spesa, ma di governo: e gli uni e gli altri restano senza parole, anche senza bavaglio alle intercettazioni, senza risorse e con sempre meno libertà.

Sembra di rileggere un’altra memorabile frase del nostro Jean-Jacques: “Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi siete poveri; facciamo dunque un accordo tra di noi. Io permetterò che voi abbiate l’onore di servirmi, a condizione che voi mi diate il poco che vi resta, per la pena che io mi prenderò di comandarvi”. O altrove, ancora più radicalmente: “Di fatto le leggi sono sempre utili a quelli che possiedono e nocive a quelli che non hanno niente” – almeno quando la volontà dell’Egoarca è così radicalmente lontana da quella dei sudditi, e la sua bulimia di potere, e il suo desiderio di sfuggire qualunque controllo, incluso quello della Costituzione, che non a caso gli sta stretta, non conosce limiti.

E’ in questi casi che si scopre come la democrazia – che resta sempre, come diceva Churchill, “il peggiore dei sistemi possibili, ma non ne conosco uno migliore” – possa diventare quel perverso meccanismo per cui detenere il potere politico è detenere il mezzo per travestire un interesse particolare da interesse generale. Ottenendo, nelle parole di Rousseau, questo splendido risultato: “Quanto a voi, popoli moderni, voi non avete schiavi, ma lo siete”. O lo state diventando. Perché “un popolo libero obbedisce ma non serve; ha dei capi, ma non dei padroni; obbedisce alle leggi, ma solo alle leggi; ed è in virtù delle leggi che non diventa servo degli uomini”. Se non c’è, tuttavia, la scellerata collaborazione di chi le leggi le fa (o nemmeno più quello: si limita a votarle) secondo le necessità dell’Egoarca, perché invece che rappresentante del popolo, grazie a un sistema che nessuno stranamente sente l’urgenza di cambiare, è un cortigiano che deve la sua fortuna alle grazie capricciose del sovrano. E dal quale quindi non ci aspettiamo alcun sussulto di dignità.

Stefano Allievi

24 Allievi S. (2010), Il potere delle leggi e quello del padrone. Capire l’Italia con Rousseau, in “Il Piccolo”, 10 giugno 2010, pp. 1-2 (anche su Messaggero Veneto, Italia ad personam. Le urgenze sono altre, pp.1-2). Anche in Allievi S. (2010), Diritto della forza, dovere dell’obbedienza. Quante leggi ad personam e ad pecuniam, in “Il Mattino”, 11 giugno 2010, pp. 1-4 (anche ‘La Nuova di Venezia’ e ‘La Tribuna di Treviso’)

Vanno tagliati i veri costi della politica italiana

“Tagliare i costi della politica” è un bello slogan. Che finora ha prodotto il taglio del numero di consiglieri comunali che prendevano indennità da pochi euro, e poco altro. Allontanando persone che dalla politica non guadagnavano nulla dai meccanismi della partecipazione democratica, senza alcun vantaggio reale per le casse dello stato e dei comuni.

Ora Calderoli propone il taglio al 5% delle indennità di parlamentari e ministri: 4 milioni di euro per i primi, l’equivalente di 7 ore di volo degli aerei blu per i secondi, come hanno calcolato i soliti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Briciole. Che nascondono il vero problema. Che non è nelle indennità, ma nei benefici correlati al ruolo. Per dire, un politico ci costa molto di più in annessi e connessi (dai portaborse alle auto blu alle vacanze a spese dello stato) che in indennità. E, peggio, ci costa molto di più quando smette di esserlo (in pensioni, benefit, e magari scorte inutili) che non mentre lavora per noi.

Un secondo problema sta nell’uso degli strumenti della politica in maniera formalmente legale, ma producendo effetti perversi. Come ricordava Max Weber, c’è chi vive per la politica, e c’è chi vive della politica. I primi sono pochi, i secondi sono molti e famelici. E tengono famiglia, per cui accumulano cariche per i tempi bui (sommando quelle in parlamento o in regione con altri enti e consigli d’amministrazione di nomina pubblica), fanno far carriera alla moglie in un ente o fanno arrivare consulenze pubbliche al fratello. O, da parlamentari, per aggirare il divieto di assumere come segretari i parenti stretti, assumono ciascuno la moglie dell’altro. O ancora, da leader di partito, fanno eleggere il proprio figlio, bocciato tre volte alla maturità, come più giovane consigliere della Lombardia. Tutti esempi che abbiamo preso, non a caso, dallo stesso partito di Calderoli. Certo, così fan tutti, e altri magari fanno peggio. Ma, appunto, come diceva qualcuno: chi è senza peccato… Che almeno, da membri della casta, si abbia il pudore di non usare la retorica dell’anti-casta.

Un terzo problema è dovuto all’arricchimento personale al di fuori della politica. Come diceva Balzac, a dimostrazione del fatto che si tratta di un male antico, “un uomo politico è un uomo che è entrato negli affari, o sta per entrarvi, o ne è uscito e vuole rientrarvi”. E se Tangentopoli ci ha mostrato che, almeno in parte, si rubava per il partito, gli affari della cricca ci mostrano che oggi si ruba solo per se stessi, e senza alcuna vergogna. Non sono casi singoli, mele marce, episodi eccezionali, come si fa finta di dire: ma un sistema ben oliato e organizzato, ordinario e familiare, accettato e condiviso – fisiologia del sistema, non sua patologia. Ma il suo costo, che ricade sulla collettività, è fatto di spese inutili, di appalti gonfiati, di benefici personali (magari con vista sul Colosseo), che incidono ben oltre quel fatidico 5%.

Il quarto e più grave costo della politica è tuttavia un altro: sta negli sprechi, nelle inefficienze, negli enti inutili, negli stipendi non meritati, nella mancanza di pianificazione, nelle spese senza criterio e senza progetto, nei controlli mancati, nell’incompetenza, nella perversione del mercato e nell’umiliazione del merito. E in tutto ciò che uccide la fiducia, l’energia e la volontà di innovazione.

Per cui bene il taglio del 5%. Magari anche del 10. E delle indennità. E della metà dei parlamentari. E della metà delle spese di camera e senato. E degli uffici stampa della regioni. E degli enti. E si promuova la trasparenza dei bilanci e l’anagrafe degli eletti. E non si nominino i propri uomini per fedeltà di partito anziché per merito, applicando un feroce spoil system. Allora forse i cittadini ritroveranno fiducia, e non penseranno di trovarsi di fronte all’ennesima trovata pubblicitaria.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Vanno tagliati i veri costi della politica italiana, in “Il Mattino”, 19 maggio 2010, pp. 1-5 (anche ‘La Nuova di Venezia’ e ‘La Tribuna di Treviso’)

Parabola Fini, da sdoganato a isolato

La campagna di diffamazione di cui Fini è oggetto da parte del ‘fuoco amico’ dei giornali del Cavaliere, e il suo accerchiamento nel PDL, dimostrano la pericolosità della sfida da lui lanciata, più che a Berlusconi come persona, al berlusconismo come sistema e come stile politico.

Berlusconi è riuscito a costruire un partito, un governo e, in buona misura, un Paese a sua immagine e somiglianza. In cui, come nel sistema eliocentrico, lui è il sole, e tutto il resto – leggi, carriere, notizie, priorità nazionali e destini personali – si misura dalla vicinanza o dalla distanza delle orbite di coloro che ruotano intorno a lui.

Fini persegue un obiettivo diverso, e non da oggi: politico, non solo personalistico.

Per questo, da leader di un partito, l’MSI, che ha avuto il ruolo di traghettatore dell’eredità e dei valori del fascismo nella democrazia repubblicana, destinandosi all’opposizione, ha voluto fondare nel 1994 Alleanza Nazionale, nata precisamente per sfuggire all’isolamento politico e proporsi come forza di governo. Ci è riuscito, e con rapidità. Troppa, forse, e con sospetto unanimismo, che lasciava trasparire, nei colonnelli del partito, un’evoluzione più di convenienza che di convinzione. Una coppa amara che bisognava bere per entrare finalmente, dopo un lungo digiuno, nelle sfere del potere. E infatti oggi i colonnelli al potere rimangono, lasciando il leader al suo progetto.

Il Popolo della Libertà, nato lo scorso anno non con un congresso, ma con una passerella di notabili, non è stato infatti che l’ultima tappa di quella evoluzione: la manifestazione visibile di un potere acquisito, saldo, ostentato, disinteressato alla discussione perché la sua ragion d’essere era ormai acquisita. Ma oggi i nodi vengono al pettine.

Fini deve molto a Berlusconi. Per averlo “sdoganato” – parola dallo stesso Berlusconi utilizzata ai tempi della corsa di Fini per il Campidoglio – e per avergli fatto ottenere il ruolo un decennio fa impensabile di presidente della Camera. Ma ha sempre avuto un obiettivo politico proprio.

Vanno letti in questa chiave i gesti e le parole d’autocritica: l’abbandono dei riferimenti a Mussolini e al fascismo, il richiamo ai padri nobili della patria repubblicana, da Einaudi a De Gasperi, le visite ai campi di concentramento e in Israele, le condanne ferme dell’antisemistismo, le parole di riconoscimento del ruolo storico della Resistenza, fino alle prese di posizione sui diritti fondamentali, sull’immigrazione, sulla laicità.

Tutte tappe della costruzione di un progetto politico di lungo periodo incentrato su una immagine di sé come leader innovatore, sopra le parti e fuori dagli schemi: istituzionale, da statista. Passata attraverso i discorsi alti, le frequentazioni trasversali, la progettualità culturale della Fondazione “Fare futuro”, il suo personale think tank. Un percorso non senza contraddizioni, se pensiamo che il suo nome resta legato a due leggi tra le più culturalmente conservatrici e retrodatate nell’impianto, la cui conseguenza più evidente è stata di riempire inutilmente le carceri italiane senza alcun miglioramento della sicurezza reale o percepita: la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi sulla droga.

In questo quadro la sua frettolosa accettazione della proposta di co-fondare, in un ruolo inevitabilmente subordinato, il Popolo della Libertà, dopo aver irriso il discorso del predellino, si rivela come una scommessa non riuscita. Nell’illusione, probabilmente, di diventarne il leader (dopo aver provveduto, con l’instaurazione di un sistema presidenziale, a portare Berlusconi stesso alla presidenza della Repubblica, o in caso di sua sempre possibile disgrazia giudiziaria, tuttavia sempre più lontana man mano che si estende il suo potere) se ne è ritrovato ai margini.

Probabilmente il suo gesto peggio calcolato, di cui oggi sta pagando il prezzo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Parabola Fini, da sdoganato a isolato, in “Il Mattino”, 12 maggio 2010, pp. 1-11

L’autoreferenzialità del PD

In un articolo recente – alla luce della sconfitta elettorale, e nel contesto del rinnovo degli organismi locali del Partito Democratico – ho svolto alcune considerazioni su una “una gestione verticistica delle candidature” padovane, e “un eccesso di padovacentrismo”. Critiche peraltro diffuse, di cui mi sono fatto voce senza pretendere di esserne portavoce. Fatte non per appioppare la sconfitta a chicchessia, ma per evitare di ripetere gli errori del passato.

Rispetto a queste osservazioni – oneste perché aperte e dirette – sul modo di condurre il PD, potevo aspettarmi una risposta politica. E’ arrivato invece un attacco personale che lascia trapelare il fastidio per l’impertinenza di chi si permette di disturbare il manovratore.

Nella sua replica infatti Gianluca Gaudenzio esibisce sarcasmo e supponenza: “ho letto con il sorriso sulle labbra l’intervento di Stefano Allievi…”. Con ciò mostrando una tragica incapacità di ascoltare le voci in dissenso, che fa tanto vecchia politica, e dispiace vedere in un dirigente ancora giovane.

L’accusa di verticismo si riferiva a un dato preciso. La segreteria provinciale si è spesa esplicitamente a favore di un solo candidato. Questo candidato è stato battuto: terzo in città, a grande distanza dai primi due, quarto nella bassa padovana, sesto nell’alta. Ed è risultato eletto solo grazie al gioco dei resti. E’ il segno evidente di una non capacità di governo, e soprattutto di una drammatica carenza di ascolto della base e del territorio. Quanto al padovacentrismo, non è questione di opinioni, ma di fatti: gli eletti in regione sono tutti di Padova città (e tutti uomini, in violazione delle norme del partito: si è lasciato alla provincia di designare delle donne, peraltro uscite benissimo dalla competizione), così come erano di Padova città gli eletti in consiglio provinciale – anche quelli eletti in provincia. E se il PD vorrà tornare a contare qualcosa fuori dal fortino padovano, e non fare la fine del generale Custer, questo è sicuramente un problema.

Gaudenzio si trincera burocraticamente dietro l’affermazione che i candidati sono stati scelti dopo un’ampia consultazione democratica con i circoli. Già. Peccato che le telefonate a sostegno del candidato della segreteria, indirizzate anche alla provincia, e la preparazione della sua campagna elettorale, fossero partite ben prima di quella consultazione. E arriva ad accusare inelegantemente gli esponenti della provincia di non essersi candidati perché non avevano il posto garantito. Peccato che a loro la proposta fosse stata fatta all’ultimo, a giochi fatti, e quando era difficile anche organizzarla, una campagna elettorale. E peccato che l’argomento possa valere per chiunque altro, incluso il candidato della segreteria: avrebbe corso, senza la garanzia di quel sostegno, che altri non hanno avuto?

Il tono complessivo mostra il rifiuto dell’idea che un partito è un soggetto collettivo, in cui tutti hanno diritto di parola, e l’arroganza miope di chi pensa che sia cosa dell’apparato, autoreferenziale: che è precisamente una delle attitudini che hanno fatto perdere consensi al PD. Quegli stessi consensi che invece aumentano quando si dà voce a tutti, e tutti si ascoltano, come nelle primarie e in altre occasioni.

Gli elettori e i militanti del PD – quelli interessati al suo futuro e non solo al suo passato – vogliono un partito aperto, propositivo, innovativo, presente nel territorio, che non ha paura delle critiche e anzi ne fa tesoro: per sbagliare meno in futuro. E in nome della speranza che incarna, del progetto di società che (faticosamente) delinea, hanno il diritto di dire la loro (a meno che non si pensi che sono i cittadini ad essere al servizio della politica e non viceversa). Dopo tutto è un partito che nasce da una domanda di presa di parola da parte di soggetti nuovi, di pezzi di società che non si sentono rappresentati, e sull’offerta di farlo, sull’incoraggiamento a partecipare a un progetto nuovo. E’ bene che questa lezione non si perda. Pena una inevitabile agonia.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), L’autoreferenzialità del PD, in “Il Mattino”, 28 aprile 2010, p. 25