Il suicidio involontario dei partiti

Non è un assassinio: nessuno li ha uccisi, anche se è un sogno ricorrente di molti. Non è eutanasia: nessuno ha accelerato la loro morte, anche se molti vorrebbero farlo. Non è un suicidio assistito: nessuno li ha aiutati a compiere l’autonoma volontà di porre fine alla propria vita, anche se molti ci spererebbero. No, è proprio un suicidio, quello che i partiti della prima e della seconda repubblica stanno compiendo: un pubblico, insopportabile, infinito e per giunta inconsapevole hara-kiri.
Un suicidio non programmato, di cui forse nemmeno si stanno rendendo conto: il che la dice lunga sulla capacità e lungimiranza di chi li guida. In un momento drammatico per il Paese, con una crisi che non solo impone a tutti sacrifici spesso enormi – al punto che produce le vittime sacrificali di chi davvero si suicida a causa di essa – e che tutti sappiamo durerà ancora a lungo, sono ancora attaccati come cozze più o meno pelose ai propri privilegi, al proprio ruolo, alla propria presupposta importanza, alla propria logorrea, al proprio ego.
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Se la morte è uno spettacolo

La morte in diretta di Piermario Morosini, ma ancor più la pubblicazione della sua foto morente, ha aperto un dibattito importante, e toccato una corda sensibile (per fortuna, ancora sensibile) in molti. Che c’entra con l’humana pietas per un giovane sfortunato, con il dovuto rispetto per la sua storia e la sua persona, con la deontologia professionale del giornalismo. Ma che riguarda anche una società che da un lato spettacolarizza tutto, e dall’altro si indigna della spettacolarizzazione; che mostra un voyeurismo spietato e morboso (specie nei confronti dei cosiddetti vip e del sottobosco televisivo dei giornali di gossip), ma che poi, quando si trova dall’altra parte e non ha più da guadagnarci in visibilità da monetizzare, ma solo da perderci in privacy, vorrebbe sfuggire a questo ossessivo insinuarsi.
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Una nuova stagione per i partiti

Il terremoto al vertice della Lega si sta rivelando un colpo micidiale al sistema dei partiti nel suo complesso. Per il quale potrebbe essere il colpo di grazia, ma anche l’inizio di una nuova stagione.
Per un paradosso significativo, la Lega Nord rappresenta il più vecchio dei partiti presenti in parlamento: tutti gli altri hanno cambiato almeno il nome, anche se non sempre i dirigenti, svariate volte, in processi complessi di frattura e ricomposizione. La Lega è rimasta se stessa, apparentemente granitica, più a lungo di tutti gli altri. Il crollo odierno mostra che neanch’essa può resistere a un cambiamento che è di stagione politica e forse di epoca storica, non solo di leaders.
La Lega crolla su se stessa: agitare il complotto esterno appare più che mai un patetico rituale. Crolla sul familismo amorale, crolla sotto il peso degli scandali, crolla ancora di più sotto il peso di una leadership che si è mostrata del tutto inadeguata al compito. Il senatur perché per troppo tempo avvitato al potere, e anche il potere ha le sue stagioni, e col tempo si appanna e affievolisce. Le persone a lui più vicine, che tenevano sotto controllo la Lega – dai suoi familiari al cosiddetto ‘cerchio magico’ – per una palesemente inadeguata caratura umana e politica, un misto di carrierismo, servilismo e incompetenza. Le colpe tuttavia sono anche di un personale politico diffuso che, nel caso del leader, si era umiliato in un imbarazzante culto della personalità, mentre famiglia e carrieristi li ha accettati fino a ieri senza proferir parola.
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Serve un ricambio radicale

Le disavventure recenti incorse ai tesorieri di partito, prima, e ai leader di partito che li hanno promossi alle loro cariche, mantenuti e utilizzati (e ai loro famigli) poi, rimandano ad altro: non è in questione la disonestà di alcuni, ma l’insostenibilità di un sistema che ha assunto la disonestà a metodo.
Lusi sta a Rutelli come Belsito sta a Bossi. Ma il problema vero è che il sistema attuale di finanziamento della politica sta ai partiti come il formaggio sta ai topi. Troppi soldi troppo facili. Troppo pochi controlli. Troppo pochi piccoli uomini impreparati a resistere alle tentazioni offerte in maniera troppo forte da quelle grandi piscine piene di denaro, come quella in cui si tuffa con gioiosa irresponsabilità Paperon de’ Paperoni, che sono le casse dei partiti. Con l’aggravante che si tratta di denaro pubblico, malgestito e sperperato senza controlli. E, soprattutto, troppa abitudine a gestire il potere senza controlli, da troppo tempo, stando nello stesso ruolo, da parte di chi ha scelto i tesorieri, senza mai farsi troppe domande sull’entità, e sulla stessa ragione e liceità, del tesoro accumulato: anche, persino, quando non si è toccati dallo scandalo.
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Oltre il conservatorismo. Il paese si può riformare

La notizia è la riforma. Se ne potranno discutere in dettaglio i vari aspetti. Si potrà dire – e lo si dirà – che si poteva fare di più, che il governo ha ceduto alla pressione delle parti sociali o dei partiti su questo o quel punto. Ma il dato inequivocabile – che va al di là della stessa riforma del mercato del lavoro – è la dimostrazione che riformare si può: persino sui fondamentali del patto sociale. Il processo era già cominciato. Con la riforma delle pensioni, con le (ancora moderate) liberalizzazioni, ma quello del mercato del lavoro era lo scoglio più duro, e si sapeva, anche per il peso delle parti sociali coinvolte.
Bene, il segnale che ci si aspettava è arrivato: anche in questo Paese drammaticamente ingessato, dove dettano legge le caste e le corporazioni con le relative chiusure, dove il conservatorismo condito di cinica rassegnazione è diventato abito mentale, dove lo schieramento per opposte tifoserie fa ancora aggio sul dibattito sui contenuti, si può proporre e finalmente portare a termine una riforma, anche radicale, dei meccanismi regolatori della vita dei cittadini e dell’economia, troppo spesso considerati qualcosa di immemoriale e dunque di intoccabile. L’autorità dell’eterno ieri, come la chiamava Max Weber, è stata per una volta finalmente sconfitta. Il che ci fa sperare che sia possibile sconfiggerla di nuovo.
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La punta dell’iceberg (la strage di Tolosa)

L’agguato alla scuola ebraica di Tolosa riapre domande dolorose, non tutte scontate.
La prima, sull’identità dell’autore, la lasciamo in bianco. Al momento in cui scriviamo, non ne sappiamo più delle fonti giornalistiche, che sono ancora vaghe. E ci è ancora troppo fresco il ricordo delle prime notizie diffuse dopo la strage di Utoya, che davano per assodato un attentato islamico poi rivelatosi di opposta matrice.
Le ragioni, se di ragioni ha senso parlare, o diciamo meglio i moventi, potranno essere diversi. L’antisemitismo è il primo e il più intuitivo. Ma di quale matrice, è arduo dire, dato che l’Europa, e la Francia in specifico, li ha conosciuti e ospitati tutti, anche di recente: quello di estrema destra, quello di sinistra, quello laico, quello elitario delle istituzioni, quello islamico (che ha recenti precedenti nelle scuole del Paese), quello cattolico. Con aspre polemiche e una rumorosa produzione di libelli, dovuta al fatto, in sé positivo, che anche la caccia all’antisemitismo ha una forte tradizione pubblica.
Il neonazismo è un altro, e del primo è figlio. Ma figlio vigoroso, e questo è un interrogativo in più. Le organizzazioni, i gruppi, i siti neonazisti, vivono una stagione rigogliosa, attrattiva, seduttiva persino, dal tifo calcistico di alcune curve anche italiche al neo-radicalismo politico di alcuni paesi dell’est Europa. E qui una domanda sul perché, sulle ragioni di questo fascino e di questa pervasività, a settant’anni dalla fine delle carneficine europee, che nel massacro degli ebrei hanno trovato un mito fondatore e un obiettivo comune, ce la si deve pur fare.
Il razzismo è un terzo, ed è bestia diffusa, e ben nutrita, nell’Europa odierna. Se, come pare, le vittime precedenti dell’assassino di Tolosa erano soldati francesi, sì, ma di colore, anche questo movente sembra rafforzato. E inquieta, perché di successo. Il neo-populismo xenofobo dell’est e dell’ovest (la cui ispirazione e il cui pubblico sono assai più ampi di quello neo-nazista), è un fenomeno in netta crescita elettorale, come dimostrano le recenti elezioni europee e quelle nazionali, e soprattutto culturale. E il razzismo è fenomeno cumulativo, non distintivo: se odio i negri, anche gli zingari, gli ebrei, gli omosessuali, e altri secondo occasione, in qualunque ordine si vogliano mettere, diventeranno facilmente oggetto di odio e di rifiuto. Nel razzismo si sa, e non sempre, dove si comincia, quasi mai dove si va a finire. E la sua forza, diremmo la sua legittimità anche nel discorso pubblico e politico, non può non far riflettere. Dopo Oslo, ancora di più.
E poi c’è sempre la pista della follia individuale, del disadattato marginale, del lupo solitario alla Anders Behring Breivik, il killer di Oslo e Utoya. Solitario, però, fino a un certo punto, per i motivi di cui sopra: la sua follia si ricollegava a un mondo di persone, partiti, gruppuscoli, e produzioni culturali assai diffuse, come testimonia il suo lungo memoriale. Probabilmente scopriremo lo stesso anche del killer di Tolosa, chissà.
Sono moventi che possono incrociarsi, sovrapporsi, e non ne escludono altri ancora.
Una domanda, però, resta sospesa: perché ancora, perché sempre gli ebrei. E di risposte vere, soddisfacenti, non ne abbiamo. Ma di indizi, sul fatto che sia malattia diffusa, male del nostro corpo collettivo, metastasi profonda, comodo capro espiatorio per troppi, ne abbiamo invece tanti. Le lezioni della storia non insegnano abbastanza, e noi lasciamo in fondo che questo accada, con un misto di stupore e rassegnazione, e un pizzico di complicità, non sempre incolpevole.
Lo si coglie ancora nelle battute da bar, nelle freddure vecchie e nuove che si tramandano a scuola, negli insulti usati nelle buone compagnie, nella satira che anche dopo la strage di Tolosa fa dell’orrido spirito ripescando i peggiori stereotipi antiebraici (e internet, con lo schermo dell’anonimato, ne favorisce l’amplificarsi). L’antisemitismo, l’antiebraismo, ancora non è morto. E’ una pulsione profonda, viscerale: che di tanto in tanto emerge, ma che resta latente. L’astio populista non lo ha cancellato, scaricandolo su un diverso oggetto: lo ha inglobato in qualcosa di più ampio e indistinto (che può chiamarsi islamofobia, omofobia o odio per i Rom, secondo l’occasione), ma mantiene viva la sua specificità. E non è un bel segnale, dalla civile Europa.
La punta dell’iceberg (la strage di Tolosa), in “Il Piccolo”, 20 marzo 2012, p. 1

L’idea di città che non si vede

Le vicende dell’auditorium, dell’ospedale, del centro congressi, pongono un interrogativo forte, a chi si interessa ai destini della città. Che non è quale di questi progetti, preso singolarmente, sia migliore o peggiore. Ma in quale idea di città si inseriscono. Si affronta infatti sempre un singolo problema, con i suoi favorevoli e i suoi contrari, in un clima più da tifo calcistico (lo ricordo, una malattia: da typhos, febbre, offuscamento) che da programmazione urbanistica, e raramente ci si confronta sulla città nel suo complesso.
La città non è l’ospedale, non è l’auditorium, non è i ponti e le strade. La città sono gli uomini e le donne che ci abitano, i bisogni che hanno, i problemi che manifestano, i desideri che potrebbero esaudire: le relazioni tra le persone, ciò che le aiuta e ciò che le ostacola. Se di questo parlassimo, forse vedremmo con un occhio diverso l’ospedale, l’auditorium, e anche altro. Penso alla questione della ‘Casa delle genti’. Qualcuno l’ha proposta, qualcun altro non la vuole, e la cosa finisce lì. Ma può una città permettersi il lusso di gettare a mare un investimento nel sociale, con i chiari di luna attuali, per svolgere un servizio che alla città serve? Che idea di città c’è, dietro? Penso alle discussioni che ogni tanto si riaccendono sui giovani: ogni tanto succede qualcosa, si chiude un locale, o si propone di portare i giovani a Foro Boario, per dire (e in entrambi i casi: in nome di quale idea di città?), ma poi tutto finisce lì.
Non credo sia giusto mettere tutti nello stesso calderone. Chi governa ha la responsabilità di governare, e forse perché dedica tutto il tempo a questo, non dedica abbastanza tempo alla comunicazione (ma quella vera, con i cittadini, non il marketing da due soldi): per cui, nella fatica di fare e di progettare, si dimentica di ricordarci (e forse di ricordare a se stesso) perché, sulla base di quali valori, di quale visione della città. Chi fa opposizione, fa opposizione sulle singole scelte, troppo spesso dando l’impressione di voler solo disturbare il manovratore: ma senza dirci in base a quale idea alternativa di città, a quali valori. Visione è parola espunta dal vocabolario politico, eppure dovrebbe essere centrale, per chi si candida a governare la città al posto di qualcun altro. Perché dovremmo votare qualcuno in nome della città (delle singole iniziative) che non vuole, se non sappiamo quale città vuole, dove ci vuole portare?
Ecco, è questo che ci sembra di non vedere, nel dibattito attuale: l’idea di città. E l’idea che si ha delle persone che ci abitano. Troppo spesso ridotte ai soli bisogni e alle sole funzionalità di base (dormire, lavorare, circolare), dimenticando che quello che ci fa umani è anche e soprattutto altro: vedere qualcosa di bello (e non solo di utile: una cosa non esclude l’altra, ma su questo dibattito non ce n’è) mentre si cammina per strada; riposare in un posto ameno; sedersi su una panchina all’ombra di un albero; potere far giocare i bambini, e guardarli; riuscire ad attraversare o a prendere un mezzo pubblico se si è anziani, genitori con bambini, disabili; avere qualche posto dove incontrarsi se si è studenti; godersi in condizioni decenti qualche buon spettacolo,  e così via. Forse è di questo che dovremmo ricominciare a parlare: non per bloccare di nuovo e con un’altra scusa i singoli progetti, ma per aiutarci a collocarli all’interno di qualcosa che dà loro significato. E che darebbe quindi senso ai pro e ai contro. Fatica indispensabile per chi si propone di governare la città. Fatica necessaria per chi già la governa, e a cui non fa male ridomandarsi perché.
Stefano Allievi
Allievi S. (2012), L’idea di città che non si vede, in “Il Mattino”, 7 febbraio 2012, p.14
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Quando l’amico Stefano Allievi, lui milanese sociologo e da qualche tempo osservatore della nostra città, scrive che dietro l’auditorium, il centro congressi o il nuovo ospedale “quello che manca è un’idea di città”, credo voglia in realtà prenderci in giro per l’inconcludenza di tanti interminabili dibattiti.
Gli antichi romani, quelli sì avevano le idee chiare quando fondavano una città: sceglievano il posto giusto, intrecciavano perpendicolarmente il cardo con il decumano come nel nostro Canton del Gallo, predisponevano subito il sistema fognario, mettevano qui il Tempio là il Foro, con tanto di Arena perché gli spettacoli erano già allora il sale della convivenza, et voilà eccoti la città. Anche nel Rinascimento nacquero così, da menti illuminate, città come Sabbioneta o Pienza. Era la fortuna di agire ex novo, in una scala controllabile, sposata a idee chiare e alla univocità del potere politico.
Dopo il fallimento di tante utopie e il disimpegno di tanti intellettuali che per decenni hanno glorificato la programmazione per poi dimenticarla del tutto, per disegnare qualcosa di così complesso intervenendo in corso d’opera in organismi ereditati dalla storia e dallo stratificarsi di volontà, esperienze e fasi spesso contrastanti, oltre ad avere in testa una visione, occorre – piaccia o non piaccia – fare i conti con la realtà data. Attraversare passaggi decisionali (che rispondono a logiche diversissime e spesso condizionate da contrapposizioni politiche che impediscono quella naturale e obbligata collaborazione tra Regione, Provincia – quando sarà abolita? – e Comune) è purtroppo obbligatorio per dare un senso a qualsiasi vera scelta urbanistica. A Padova tutto potrebbe essere forse migliore. Ma Padova, negli ultimi anni, tra compatibilità economiche, eredità e compromessi obbligati, un disegno lo ha dispiegato: lo si è visto con il tram, con le grandi infrastrutture viarie che erano rimaste troppo a lungo nei cassetti, con una diversa attenzione per le periferie, per il verde e per i servizi. Troppo poco? Può darsi, ma a fronte dei tanti conservatorismi, degli interessi corporativi e dell’ostruzionismo fine a se stesso si è trattato, per un padovano di lunga memoria come me, quasi di una rivoluzione copernicana. Invocare i disegni di grande respiro è sempre utile e necessario per non affogare nell’ordinaria amministrazione, ma insieme alla capacità di visione guai al non sapersi misurare con le condizioni oggettive. Non è forse quello che ci ricorda il Calvino delle “Città Invisibili”, quando racconta della città di Perinzia, fondata dagli astronomi all’insegna della massima saggezza e capacità di previsione e, ciò nonostante, rivelatasi più che un luogo rispecchiante l’armonia del firmamento una città di mostri…?
Parliamo pure dell’area ex Boschetti e del cosiddetto PP1, non dimenticando il Gasometro con le sue montagne di nero carbone, sporcizia e vero pericolo nel secolo scorso contro la Cappella degli Scrovegni; area poi divenuta e per decenni provvisoria sede della stazione delle autocorriere. Questo “non luogo” dotrebbe finalmente trovare una sua diversa e nuova dignità, sposando funzioni pubbliche e culturali ad un assetto nuovo più vivo e definitivo dell’abbandono e dello squallore attuali. Ciò con un “disegno” che c’è già dai tempi della Giunta Destro e dove sono già impegnate da anni non lievi risorse economiche private, ormai incancellabili. Continuare a parlare di disegni da rifare avrebbe un’unica conseguenza, quella non di fermare un treno in corsa nella sua parte privata, ma solo quello di colpire il vagone dell’Auditorium, l’unica comprovata urgenza di interesse pubblico. Altro che verde pubblico, cancellato da Galan nel 1999!
Ancora sull’ottuso rifiuto dell’Auditorium, infine, tre cose precise vanno dette. La prima, quella più clamorosa: è che la città continua ad essere davanti al ricatto tutto politico che intende sabotare ad ogni costo qualsiasi proposta dell’Amministrazione in carica indipendentemente dal merito. La seconda: si assiste all’incofessato rifiuto culturale della contemporaneità, che dimentica che le città così come le viviamo sono il frutto di un continuo portato storico, la somma del sedimentarsi di interventi diversi. Si pensi a Palladio in quel di Venezia, niente – quando vi costruì le sue chiese – appariva più stonato rispetto al preesistente. Lo stesso dicasi per la Torre Eiffel a Parigi e, sempre nella capitale dello “charme” urbano, per il Beaubourg di Renzo Piano. Un limite purtroppo tutto italiano, lo stesso che ha ostacolato a Roma il progetto di Richard Meier per L’Ara Pacis o il rifiuto opposto ad Arata Isozaki per l’ingresso posteriore degli Uffizi a Firenze.
La terza: l’altrettanta inconfessata convinzione che le arti, la cultura e la “musica forte” siano un lusso per pochi privilegiati. Una ottusa convinzione che salta a piè pari l’italianissimo volano economico fondato sull’arte e, se pensiamo a Padova, che ignora volutamente i clamorosi successi del Pala Geox, una struttura precaria privata, perché non esiste un’alternativa pubblica, che solo con i concerti leggeri – una parte dei quali potrebbe svolgersi all’Auditorium – sta in piedi, introita tanti denari e paga l’affitto per il suolo pubblico e in un’area non proprio attraente davanti al cimitero.


La risposta di Elio Armano, uscita il 10 febbraio sul ‘Mattino’, con il titolo Città ideale grande scusa per non fare
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La discussione è tanto più vera se fatta di passione, di anima. Lo scontro di opinioni fa emergere le idee, le chiarisce esibendole. Pazienza se ogni tanto ci scappa il disaccordo formale laddove c’è accordo sostanziale. Come nell’articolo di Elio Armano ospitato ieri, che prende spunto da un mio intervento sulla ‘idea di città che non si vede’: in cui si chiedeva alla politica di uscire dal braccio di ferro sulle singole iniziative per raccontarci in nome di quale visione della città si è pro o contro.
Un invito tuttora necessario. Si perde, nella discussione sui singoli progetti, l’idea complessiva di città: o almeno non si vede. Gli amministratori hanno bisogno di ricordarsela e ricordarla a noi, amministrati. Questo convince e spiega molto più delle polemiche tra istituzioni. Avere il coraggio di dire: vogliamo (o meno) l’auditorium qui perché rende viva la città, l’ospedale là perché possiamo davvero migliorare la condizione dei malati, la casa delle genti perché dobbiamo pensare a una popolazione troppo trascurata, dei luoghi dove i giovani si possano incontrare – senza periferizzarli per toglierceli dai piedi – perché in questo incontro maturano i legami sociali e si progetta il futuro, la moschea perché nell’incontro religioso si producono relazioni forti, buone anche per altri usi, i festival perché producono cultura e aggregazione sana, un centro vitale e vissuto, sociale e socializzante anche nelle ore serali e al di là delle attività commerciali, perché in esso si esprime l’anima e la faccia della città. E perché sono un volano economico. E perché una città più vivibile e vissuta è più sicura. E vogliamo tutto questo anche in edifici architettonicamente belli (su questo, dibattito quasi zero), perché l’estetica è la madre dell’etica, e un ambiente gentile fa persone più gentili. Gli oppositori, che si candidano al futuro governo della città, devono inventarla, questa visione: non ce n’è traccia. Non è un caso che le polemiche siano più interne al campo, diciamo così, progressista. E’ assordante il silenzio del centro-destra (che non vuol dire i conservatori: quelli ci sono anche a sinistra), dal quale arrivano solo i no ai singoli progetti, non la visione alternativa di città. Con il rischio di ripetere le ridicole capriole sul tram, da cui sarebbe utile trarre invece una lezione: perché sull’opposizione ad esso, nel breve periodo, ci si è vinta un’elezione, ma sul lungo periodo ci si è persa la faccia.
Il centro dell’intervento di Armano è comunque l’auditorium, che io citavo solo tangenzialmente. E’ certo necessario un contenitore adeguato per musica, danza e altro ancora. La notizia in più è che gli eventi culturali funzionano. Che la gente ne ha bisogno e che le iniziative buone hanno successo, anche economico. Che hanno bisogno di una degna cornice, di per sé attrattiva (per dire, è triste che eventi artistici significativi siano ospitati al Palageox, una struttura esteticamente brutta, dall’acustica opinabile, scomoda, non servita da mezzi pubblici. Meno male che c’è, in mancanza d’altro. Ma, appunto, serve altro). Dopodiché, il luogo non è tutto (San Gaetano docet): occorre anche chi sa cosa farne, inventare una programmazione che crea fiducia e rapporto continuativo con il pubblico, come avviene in altri più modesti luoghi di produzione culturale della città, dall’Mpx a certi circoli musicali. E’ così che un luogo si trasforma in elemento di una cultura sedimentata e condivisa: e un edificio, nello snodo di una rete.
Stefano Allievi
Allievi S. (2012), in “Il Mattino”, 11 febbraio, Fare le cose in funzione di una idea di città, p. 14

Non credo sia giusto mettere tutti nello stesso calderone. Chi governa ha la responsabilità di governare, e forse perché dedica tutto il tempo a questo, non dedica abbastanza tempo alla comunicazione (ma quella vera, con i cittadini, non il marketing da due soldi): per cui, nella fatica di fare e di progettare, si dimentica di ricordarci (e forse di ricordare a se stesso) perché, sulla base di quali valori, di quale visione della città. Chi fa opposizione, fa opposizione sulle singole scelte, troppo spesso dando l’impressione di voler solo disturbare il manovratore: ma senza dirci in base a quale idea alternativa di città, a quali valori. Visione è parola espunta dal vocabolario politico, eppure dovrebbe essere centrale, per chi si candida a governare la città al posto di qualcun altro. Perché dovremmo votare qualcuno in nome della città (delle singole iniziative) che non vuole, se non sappiamo quale città vuole, dove ci vuole portare?
Ecco, è questo che ci sembra di non vedere, nel dibattito attuale: l’idea di città. E l’idea che si ha delle persone che ci abitano. Troppo spesso ridotte ai soli bisogni e alle sole funzionalità di base (dormire, lavorare, circolare), dimenticando che quello che ci fa umani è anche e soprattutto altro: vedere qualcosa di bello (e non solo di utile: una cosa non esclude l’altra, ma su questo dibattito non ce n’è) mentre si cammina per strada; riposare in un posto ameno; sedersi su una panchina all’ombra di un albero; potere far giocare i bambini, e guardarli; riuscire ad attraversare o a prendere un mezzo pubblico se si è anziani, genitori con bambini, disabili; avere qualche posto dove incontrarsi se si è studenti; godersi in condizioni decenti qualche buon spettacolo,  e così via. Forse è di questo che dovremmo ricominciare a parlare: non per bloccare di nuovo e con un’altra scusa i singoli progetti, ma per aiutarci a collocarli all’interno di qualcosa che dà loro significato. E che darebbe quindi senso ai pro e ai contro. Fatica indispensabile per chi si propone di governare la città. Fatica necessaria per chi già la governa, e a cui non fa male ridomandarsi perché.
Stefano Allievi

La politica degli amici degli amici (sul caso Brentan, Lusi ed altro)

La cronaca politica non ci dà tregua, e ci riporta continuamente al rapporto incestuoso del sistema dei partiti con il denaro.
Se i campioni della Padania investono opacamente in Tanzania, il tesoriere della Margherita investiva privatamente in Canada, usando come roba propria i soldi di un partito peraltro morto, il cui rappresentante legale, Rutelli, è transitato nel frattempo in un altro partito (altro rapporto incestuoso che meriterebbe qualche riflessione). Ormai i tesorieri di partito sono diventati una figura idealtipica della convergenza di interessi tra il malaffare e la mala politica. Ma incarnano un problema che viene da lontano. A cominciare dal fatto che, se i partiti hanno tutti quei soldi, è perché hanno aggirato un referendum stravinto che ne aboliva il finanziamento pubblico, chiamando i finanziamenti rimborsi elettorali, anche se ammontano al quintuplo dei soldi che i partiti dichiarano di aver speso, e sono aumentati del 1.110 per cento in dieci anni.
Laddove di mezzo non ci sono le casse dei partiti, c’è comunque il rapporto dei politici con gli enti pubblici o parapubblici che gestiscono denaro non proprio e fuori dalle logiche del mercato, o con l’imprenditoria parassitaria che vive di buone relazioni con la politica anziché di concorrenza. Un senatore del Pdl, Riccardo Conti, ha guadagnato in un sol giorno, senza sborsare un centesimo, la bellezza di 18 milioni di euro, per la semplice transazione di un immobile da un ente all’altro, sfruttando le sue conoscenze nel sottobosco degli enti romani. E a livello locale c’è l’arresto ai domiciliari per corruzione di Lino Brentan, amministratore delegato della Società autostrade Venezia-Padova, esponente del Pci prima e ora del Pd, per aver incassato tangenti dalle imprese cui dava appalti (e a proposito, possibile che in questa regione gli appalti li prendano sempre le stesse poche aziende, dai cognomi noti e dalle relazioni bipartisan? E Confindustria, a tutela degli altri suoi membri, possibile non abbia nulla da dire su questa flagrante violazione del libero mercato?). Del caso Brentan sorprende la cautela di tutto il sistema partitocratico veneto, che sul lucroso consiglio di amministrazione ci ha mangiato, visto che a presiederlo erano seduti Giustina Destro prima e Vittorio Casarin poi, e tanti altri ne ha creati. Al di là del caso singolo, su cui si pronuncerà la magistratura, è il sistema che va posto sotto accusa. Uno dei veri e gravi costi della politica, ben più degli stipendi dei parlamentari, è infatti la proliferazione di enti pubblici e parapubblici, con consigli d’amministrazione elefantiaci e inutilmente strapagati per gestire società spesso inefficienti e con funzione sociale quanto meno dubbia, le cui nomine sono sempre e solo politiche, in cui l’appartenenza è tutto e il merito è nulla.
Bisogna cominciare da lì. La politica, tutta, senza eccezioni, e a tutti i livelli (comune, provincia, regione, ministeri) ha ritenuto fino ad ora suo diritto procedere all’invenzione di società e alla gestione delle relative nomine in maniera del tutto non trasparente: mai che si parli di confrontare curricula, percorsi formativi, risultati di gestione; ovunque si è nominati perché amici del sindaco o dell’assessore, del presidente o del segretario, del ministro o del capo corrente, accontentando le tante fameliche microlobby che stanno all’interno dei partiti, e non solo questi ultimi. Ma non sta scritto da nessuna parte che debba essere così. Occorrerebbero commissioni di valutazione, stop alle scelte discrezionali, ma anche una anagrafe degli enti e delle loro performance, per arrivare a una loro razionalizzazione e soppressione dei doppioni e di quelli inutili, nonché alla diminuzione radicale delle cariche di nomina politica. Così si fa pulizia. Così si uscirebbe da questa specie di feudalesimo partitocratico, e dalla concezione patrimonialista dello stato e delle pubbliche risorse che la politica ha di fatto assunto. Un tema che si incrocia con quello del rinnovamento radicale del ceto politico. Perché non è pensabile che facciano una nuova politica le persone che, anche senza personalmente guadagnarci sopra, hanno praticato quella vecchia fino ad ora. E’ il sistema che è marcio, non suoi singoli membri. Per questo non è dalla vecchia politica che vediamo emergere le nuove regole, né la ferma condanna delle vecchie pratiche, né tanto meno il ricambio delle persone, che hanno carriere politiche o manageriali infinite, accumulando cariche e mandati. Un altro argomento che la nuova politica sottopone a quella vecchia, per ora senza successo.
Stefano Allievi
Allievi S. (2012), La politica degli amici degli amici (sul caso Brentan, Lusi ed altro), in “Il Mattino”, 2 febbraio 2012, pp.1-10 (anche “La Nuova Venezia” e “La Tribuna di Treviso”)

Sicurezza, operazione elettorale (sul sondaggio della provincia)

Leggo sulle pagine del Mattino del sondaggio della Provincia sulla sicurezza a Padova. Non ne commento i risultati. Commento il sondaggio: una operazione politica, metodologicamente opinabile, scientificamente implausibile.
La sicurezza è nel titolo, ma si parla solo di immigrazione. E accoppiare le due cose è già dare la tesi. Dimenticando tutte le altre cause di insicurezza: dalla crisi economica alla criminalità organizzata, dalla mancanza di servizi ai reati finanziari (che minano alla radice la fiducia collettiva), dalla mafia alla corruzione e all’incompetenza della politica, dalla mancanza di prospettive all’aumento del costo della vita, dal precariato diffuso alle catastrofi climatiche e ambientali, dal crollo delle borse alla perdita di fiducia nelle istituzioni (cominciando dalla Provincia, magari: si chieda in giro, con o senza questionario), dalle povertà relazionali che ci rendono più fragili al ruolo dei media che enfatizzano le paure che la politica mette all’ordine del giorno. Tutto questo, chissà perché, con l’insicurezza non c’entra.
Ecco perché si tratta di un’operazione elettorale, niente di più. Per vendere ai cittadini il proprio prodotto, secondo uno sperimentato meccanismo: 1) induciamo paura e insicurezza; 2) diciamo che serve più legge e ordine; 3) diciamo che noi glielo daremmo e gli altri no; 4) chiediamo il voto per noi; 5) per poi non risolvere il problema, perché non è alla nostra portata, avendo offerto la soluzione sbagliata (un capro espiatorio) ma comoda per noi: cosa che peraltro ci conviene perché potremo sempre dire che occorre più legge e ordine di quella che ci hanno dato; 6) finché l’elettore non si accorge di essere stato preso per i fondelli…
E’ così che, nelle domande, i fattori che contribuiscono a creare una percezione di insicurezza sono solo la presenza di immigrati clandestini, i furti nelle abitazioni, lo spaccio e le rapine. E’ così che, alla domanda su cosa dovrebbero fare gli enti locali, si può scegliere solo tra: costruire nuove caserme; pretendere più Forze dell’Ordine; promuovere gruppi di volontari; sostenere l’utilizzo della Forze Armate; armare i corpi di Polizia Municipale; promuovere la realizzazione di un CIE per clandestini – praticamente, il programma elettorale delle forze politiche di centro-destra che governano la Provincia, con cui si può solo essere d’accordo.
Significativa anche la domanda sulle zone della città maggiormente a rischio: nell’ordine la zona della stazione, le piazze, il Portello e l’Arcella, le altre non sono nemmeno nominate, dando già una precisa indicazione e gerarchia di importanza.
Si passa poi alle domande sugli immigrati e sul loro livello di (mancata) integrazione, a causa di: diverse abitudini; problemi linguistici; differenze religiose; mancanza di lavoro; considerazione del ruolo della donna. Mischiando a caso problemi etnici, sociali, religiosi, e dimenticando del tutto l’altra metà del processo di integrazione, che è sempre un rapporto a due: il ruolo e il comportamento della società, delle istituzioni, dei partiti. Per dire, provate voi a integrarvi in un posto dove vi dicono tutti i giorni che non vi vogliono, anche con apposito questionario dove si dice che siete voi il problema…
Infine, un questionario con risposte volontarie non è rappresentativo per definizione, e non ha alcun valore statistico. Basta orchestrare un po’ le risposte, far rispondere agli amici e agli iscritti da parte delle forze politiche che hanno interesse nel sondaggio, per orientarne i risultati. Niente di serio. Niente di utile.
Stefano Allievi
Allievi S. (2012), Sicurezza, operazione elettorale (sul sondaggio della provincia), in “Il Mattino”, 31 gennaio 2012, pp.1-31

Se la vita eterna è sui social network

Si dice che le nuove tecnologie della comunicazione schiaccino i loro utilizzatori sulla dimensione del presente. Che sia in corso una presentificazione degli orizzonti. Che si dimentichi il passato, e ci si immagini sempre meno il futuro. C’è del vero, e lo sappiamo da vari indicatori.
Ma le cose non sono così semplici né così univoche. Il presente vuole durare. La storia, la mia storia, cerca una continuazione, anche quando la storia è finita. Sempre più si ha voglia di narrarsi, di dare una senso alla propria storia, di raccontarla. E le tecnologie comunicative aiutano anche in questo. Nell’universo digitale, si può pianificare il proprio futuro anche dopo la morte. E si cristallizza, si rivive, o si cambia, il passato. In un auspicio o un’anticipazione di eternità facilmente realizzabili.
Sarà capitato a molti, ed è esperienza straniante, di digitare su Google il nome di una persona conosciuta, magari un amico o un collega, che si sa morta. E vedere che lì è ancora viva. Che l’universo della rete mantiene le sue tracce: quello che ha fatto, ha detto, ha scritto, spesso oltre tutto coniugato al presente, in una contemporaneità illusoria ma infinita.
Ma la durata, la sopravvivenza almeno nel ricordo, in rete si manifesta in molti modi. Sempre più diffusi sono i cimiteri online, in cui è possibile inserire (da soli e in anticipo, o post mortem da parte di qualche parente o amico) le nostre foto, i nostri scritti, i video, le canzoni o i film preferiti, la cronologia della nostra vita, reinterpretandola, per ‘rifarsi una vita’ almeno virtuale, magari assai diversa da come è stata quella reale. Anche i cimiteri virtuali, come quelli reali, hanno le loro tariffe (una tantum per l’occupazione dello spazio e costo di gestione annuo), e non mancano quelli per animali. Molti sembrano tuttavia solo un servizio in più offerto dalle agenzie di pompe funebri: certe pagine con foto per lo più di anziani che magari non usavano nemmeno il computer, data di nascita e di morte, pubblicità dell’agenzia di pompe funebri e nient’altro trasmettono una tristezza infinita; ma fanno dopo tutto il paio con i loculi in serie, le frasi fatte e i messaggi stereotipati, i fiori in plastica e la fisicità fredda del marmo. Una modalità più vivace e ‘vitale’ di esistere in rete post mortem è quella delle pagine facebook, continuate o create dopo la morte di qualcuno (spesso dopo una morte drammatica), per tenere vivo il ricordo, continuare a mandare messaggi, pensieri, preghiere, fiori virtuali persino, e consolare i rimasti. Ce ne sono molti, di questi profili, che contrastano singolarmente con l’origine di questo social network, nato per favorire incontri vivaci tra vivi, e ne sanciscono la trasformazione e il radicamento.
Questo della morte su facebook è anche un modo per integrare la morte nel quotidiano. La nostra società giovanilista, che si vuole e si crede amortale, ha espulso la morte, ma anche la vecchiaia e la malattia, dall’orizzonte del dicibile e del visibile: bisogna fingere, o avere l’apparenza, di essere giovani, sani, e immortali. La morte è spesso un tabù: la nascondiamo, nemmeno ne pronunciamo il nome,  la cancelliamo dall’orizzonte domestico ospedalizzandola, e non la facciamo guardare in faccia dai bambini. Che poi ne vedono centinaia al giorno, nei programmi a loro dedicati, dai cartoni alla fiction, nei videogames, o nei telegiornali che guardiamo insieme a loro. E quasi sempre si tratta di morti con una causa precisa: disgrazie, omicidi, quasi mai comunque morti naturali, dando così l’idea che la morte stessa è innaturale.
Ecco, la ‘vitalità’ della morte su facebook non è solo il modo di assicurarsi una vita eterna digitale e virtuale. E’ anche un modo di riappropriarsi del discorso sulla morte, occultato dalla cultura mainstream. E’ una reazione della stessa famiglia delle necroculture giovanili, del dark rock, dei fumetti alla Dylan Dog o di certi manga giapponesi, della necrofilia gentile della famiglia Addams, ma anche degli splatter, dei ‘b movie’ hollywoodiani, dell’horror più intellettuale alla Stephen King, del filone catastrofico degli aerei in avaria o degli uragani, o quello futuribile delle catastrofi climatiche a venire, ma anche degli scherzi di halloween e della diffusione di teschi e ossa come gadget, incluso per bambini. Che assume il ruolo di riflessione proprio là dove la riflessione e la verbalizzazione era stata espunta, e di risposta forse non del tutto inconsapevole a una rimozione che si percepisce falsa e ipocrita, e forse pericolosa – mortale, appunto.
Stefano Allievi
Allievi S. (2012), Se la vita eterna è sui social network, in “Il Piccolo”, 15 gennaio 2012, pp.1-4