"Immigrazione. Cambiare tutto", intervista Il Piccolo

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Stefano Allievi «Dobbiamo investire sulle migrazioni»

Il sociologo interviene oggi nel primo giorno del festival di Gorizia con una conferenza-spettacolodi ALEX PESSOTTO

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18 maggio 2018

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Di fronte ai tanti interrogativi che si avvertono al solo sentir parlare di richiedenti asilo, rifugiati, profughi e di tante altre categorie che definiscono chi percorre le strade della mobilità, l’ultimo libro di Stefano Allievi sembra avere più di una certezza: “Immigrazione: cambiare tutto” (Laterza, pagg. 145, euro 14) è il suo titolo. èStoria 2018 non poteva trascurarlo: “Migrazioni”, infatti, è il tema dell’edizione quattordici della kermesse goriziana di cui il sociologo, docente all’università di Padova, sarà ospite oggi, alle 16.30, alla Fondazione Carigo, per presentare (in collaborazione con vicino/lontano-Premio Terzani) la sua ultima fatica in una lezione-spettacolo, e alle 19, alla tenda Erodoto dei Giardini pubblici per dialogare con il candidato al Nobel per la letteratura Boualem Sansal in un incontro dal titolo “Totalitarismo islamista e migrazioni”, coordinato da Andrea Bellavite.
Cos’è, prima di tutto, che va cambiato?
«Due fattori – risponde Allievi -: lo sguardo che poniamo sulle migrazioni e le soluzioni che adottiamo, o che non adottiamo, per i problemi ai fenomeni migratori legati».
Cominciamo dal primo: lo sguardo.
«In molti non sanno né le cause né le conseguenze delle migrazioni, ad esempio a livello demografico: l’Europa si sta svuotando. Il nostro Paese, dati Istat recenti, perde popolazione italiana e straniera. E la nostra unica preoccupazione è data solo dai fenomeni migratori».
È una preoccupazione infondata?
«Certo che no: gli arrivi non dovrebbero avvenire così come avvengono, ma noi siamo preoccupati del fenomeno in sé e ciò è riduttivo. Da noi, come in Francia e, ancora di più, come in Spagna, ci sono più emigranti che immigrati. Se non arrivasse nemmeno un immigrato, non cambierebbe il nostro numero di emigranti. Il massimo della disoccupazione in Italia è al Sud, ma il massimo numero di immigrati è al Nord. In Friuli Venezia Giulia, dal 2015, per ogni cittadino sotto i 15 anni ce ne sono due sopra i 65. Quindi, gli anziani sono in numero superiore ai cittadini produttivi. E noi diamo la colpa alle migrazioni. Non cambiando sguardo continueremo a non capire».
Occorre allora adottare soluzioni diverse…
«Cambiando politica. Le immigrazioni sono irregolari perché noi, come gli altri Paesi europei, abbiamo chiuso i canali di ingresso regolari. Trent’anni fa non c’era il numero di richiedenti asilo di oggi perché in un Paese si entrava regolarmente».
Quali possibili strategie attuare?
«Aprire i canali regolari. E superare la distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici. I migranti, infatti, sono essenzialmente economici, come i nostri che, l’anno scorso, in quasi 200mila sono andati via dall’Italia. Poi, occorre cominciare a fare non accoglienza ma integrazione».
Perché finora non si sono presi provvedimenti in questo senso?
«Perché non si è capito quello che sta succedendo. Non è stato capito dai politici, che guadagnano consenso non risolvendo il problema ma evocandolo: a risolverlo non hanno interesse, perché perderebbero il consenso. Inoltre, una gran parte dei politici non sa costruire un ragionamento sulla questione: sta cominciando ora a proporlo a livello europeo, ma non è ancora sufficiente. Inoltre, i fenomeni migratori non sono stati compresi dal giornalismo che troppo spesso è un megafono della politica. Molte volte, la presenza dei migranti è solo un modo per rendere evidente che il Paese non funziona. La verità è che non funzionerebbe comunque ma è sempre meglio scaricare le colpe su altri piuttosto che riconoscere i propri errori».
A non comprendere il problema, a non voler cambiare cosa si rischia?
«Un default traumatico, rapido. Come si può pensare di mantenere in piedi questo sistema pensionistico? E come possiamo pensare di mantenere la nostra civiltà senza un cambiamento di rotta? Non sono gli anziani a produrre innovazione. Non è un caso, allora, che i fenomeni migratori sono stati compresi meglio dall’Inps e dalle altre realtà che si occupano del sistema pensionistico. Come si può pensare che un calo demografico non porti alla chiusura delle scuole e alla recessione? Nel mondo, le aree con il più alto sviluppo economico coincidono con quelle dove l’immigrazione è più alta e con quelle in cui la presenza di giovani è maggiore. Allo stesso modo, più bassa è l’immigrazione, più bassa è la presenza di giovani, minore è lo sviluppo economico».
Le politiche dell’Italia sull’immigrazione sono in linea con quelle degli altri Paesi europei?
«Le logiche sono simili. Il problema è che l’Italia sta peggio di altri Paesi dell’Ue, ma non per le politiche migratorie: ha meno soldi della Germania, meno innovazione della Scandinavia, meno investimenti nell’istruzione della Francia. Ed è messa meno bene di altri Stati anche per quanto riguarda la sua struttura demografica. Relativamente a quest’ultima, i due Paesi messi peggio eravamo noi e la Germania la quale, tuttavia, nel 2015, ha assorbito più di un milione di richiedenti asilo che stavano nei Balcani e ora ha una struttura demografica più equilibrata dell’Italia. Poi, certo, l’integrazione è una spesa ma, come la scuola, è produttiva».
Un investimento?
«Certo. Se oltre a fornire gli alimenti compio un lavoro di formazione lavorativa, di conoscenza della lingua e della cultura del Paese ospitante, creo cittadini nuovi con una spesa che, alla lunga, sarà inferiore. Considerando lo straniero come colui che ci porta via il lavoro, se non come il delinquente, pagheremo un prezzo immenso».
Ma per più di qualcuno integrare significa costringere i giovani ad andare all’estero…
«Io all’estero ho cinque nipoti su undici, due figli su tre: anche se non ci fossero gli immigrati non sarebbero rimasti in Italia. Metà delle province del Veneto ha un tasso di disoccupazione più basso di quello della Baviera. Non diciamo che è sempre colpa degli immigrati: non è vero. I fenomeni migratori vanno prima di tutto compresi. Non ne faccio un discorso politico».
A èStoria parlerà anche di totalitarismo islamista e migrazioni. Esiste un legame tra i due fenomeni?
«Direi di no. Il totalitarismo islamista c’è ma è legato a una frangia di popolazione contestata, ripudiata dalla maggior parte dei musulmani nel metodo e anche nel merito. I musulmani arrivano in Italia soprattutto per avere una vita migliore, non per diffondere l’Islam. In un certo senso, che vengano da noi è la prova che da noi si sta meglio. E non è vero che l’Islam non è compatibile con la democrazia: nei Paesi musulmani ci sono Stati democratici e non democratici un po’ come nei Paesi non musulmani».
Le religioni hanno inasprito i fenomeni migratori?
«Non molto: non si emigra per motivi religiosi. Semmai, le religioni hanno aiutato a comprendere i fenomeni migratori: quindi, hanno fornito un contributo positivo. Penso in particolare al mondo cattolico che cerca di risolvere i problemi anche di popoli di religioni diverse».
Non
c’è però solo il mondo cattolico…
«Per quel che riguarda le identità religiose degli immigrati, vanno comprese, applicando le leggi dei Paesi ospitanti senza distinzioni ma anche senza aprire guerre di religione preventive».
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