Oltre la religione (Sanaa, Hina e le altre)

Un’altra ragazza uccisa. Un’altra storia di paternalismo e tradizionalismo opprimente finita in tragedia. Un abisso culturale che sfocia nel crimine, nell’efferatezza. E, puntuali, i parassiti della strumentalizzazione.

Cominciamo dai fatti. Sanaa, 18 anni, è stata uccisa dal padre, un marocchino di 45 anni, che non approvava la sua relazione con un italiano di tredici anni più vecchio. Inconcepibile. Inaccettabile. Disumano. Ma, invece di fare i finti ingenui, chiediamocelo: così raro? Così strano? Così assente dalle cronache giornalistiche, anche a prescindere dall’immigrazione? Purtroppo no. Ma allora questo dovrebbe indurci a una seconda, onesta domanda: cosa c’entra la religione? Cosa c’entra l’islam? Siamo davvero sicuri che sia questa la variabile esplicativa principale?

Come per ogni religione, anche per l’islam l’assassinio di una figlia da parte di un padre è un atto aberrante, deviante, inaccettabile, immorale, indifendibile. Qualsiasi musulmano, qualsiasi imam, potrà confermarlo. Ma inaccettabile e indifendibile non significa purtroppo incomprensibile. Solo che la variabile interpretativa principale, per capire cosa è successo, non è la religione. Certo, c’entra la cultura. Ma quale cultura? Se si trattasse di un fatto religioso, dovremmo aspettarci che tutti i musulmani si comportino allo stesso modo (o magari lo desiderino, ma ne siano impediti controvoglia dalle nostre leggi, come immagina qualcuno). Se si trattasse di un fatto etnico dovremmo immaginarci tutti i padri marocchini come potenziali assassini delle proprie figlie. Ma allora perché non succede? E gli altri fattori? Classe sociale, livello di istruzione, provenienza da ambiente rurale o urbano, siamo davvero convinti che non contino niente? E i rapporti di genere, molto al di là della religione? E, per finire, la psicologia individuale?

La ‘religionizzazione’ della nostra interpretazione di questi fatti non è casuale. E’ figlia dei tempi, di diffuse campagne politiche e giornalistiche, di semplificazione pregiudiziale. E’ una costruzione sociale, non un dato. Non tiravamo in ballo la religione cattolica, ai tempi dei delitti d’onore e del ‘divorzio all’italiana’; né lo facciamo quando un padre padrone si sente in diritto di sterminare la propria famiglia prima di suicidarsi per un proprio fallimento individuale. E non tiriamo in ballo l’ortodossia quando cose simili accadono, ad esempio, nelle comunità immigrate dall’est. Del resto in Gran Bretagna, dove problemi analoghi li hanno anche tra gli hindu e i sikh, parlano volentieri di culture ‘asiatiche’: forse altrettanto a torto.

La religione tuttavia può servire come alibi, e come complicità. Qui le comunità islamiche e i loro responsabili possono avere grandi responsabilità: in positivo (educative, di mediazione costruttiva tra genitori e figli, come spesso già succede) o in negativo (una sorta di omertosa condiscendenza, un silente consenso nei confronti delle posizioni più retrive). Perché sia la prima posizione a prevalere, è fondamentale, certo, la maturità delle organizzazioni, ma anche il ruolo del contesto. In Gran Bretagna esistono commissioni governative sui temi dei matrimoni forzati e correlati, che coinvolgono i responsabili di comunità in programmi di prevenzione. In Olanda come in Francia esistono strutture di mediazione anche nei casi di crisi (ad esempio ragazzi che scappano di casa) in cui mediatori culturali provenienti dall’immigrazione svolgono un ruolo decisivo. In Italia, per lo più, prevale in questi casi la strumentalizzazione parassitaria: utilizzare la cosa per tuonare un po’ contro l’islam, e poi finita lì, fino al prossimo assassinio.

Per tutti, l’interesse è invece quello di contribuire a risolvere il problema: urlando di meno, e agendo di più. I musulmani devono imparare che lottare contro l’uso barbaro della religione per giustificare comportamenti barbari è un loro interesse e un loro dovere, perché si ritorce contro i musulmani tutti. Essi hanno tutto l’interesse a purificare la religione dalle scorie che i costumi e le tradizioni talvolta le appiccicano addosso, finendo per nasconderla. I non musulmani dovrebbero capire che la demonizzazione dell’islam in quanto tale non ha a che fare e non aiuta la causa della scomparsa di questi comportamenti. Per certi versi è anzi controproducente, spingendo i musulmani a chiudersi in un ghetto. E non aiuta quindi le Sanaa di oggi e di domani. Parlare di “guerra di religione” è inutile e controproducente, e probabilmente irresponsabile. Produce un po’ di spazio sui giornali e nulla più.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 17 settembre 2009, p. 1-5

Anziché spremere gli studenti, Padova li consideri una risorsa

Anziché spremere gli studenti, Padova li consideri una risorsa

Quello degli affitti in nero agli studenti è uno scandalo fittizio: tutti hanno sempre saputo tutto, da sempre. Semmai bisogna ringraziare la Guardia di Finanza per aver finalmente sollevato il caso. Una prova che non sempre il federalismo fa bene. Qualche volta solo un organismo centrale ha l’interesse e la forza per scoperchiare certi verminai.

La tempistica è più che opportuna: tra pochi giorni inaugureremo con orgoglio il 788° anno accademico dell’università di Padova. Ragione di più per porre qualche interrogativo di fondo sul rapporto tra l’università e la città.

Padova ha 210.000 abitanti (dati 2006) e 95.000 studenti iscritti (dati 2008): una proporzione che da sola dice tutto. Di questi solo 28.000 sono padovani (quindi con casa e famiglia d’appoggio). 78.000 sono complessivamente i veneti, di cui una parte significativa è pendolare, mentre altri si padovanizzano temporaneamente. E 17.000 vengono da altre regioni o paesi, per una parte importante trasferendosi in città. A questi occorre aggiungere 2.400 docenti, in buona parte anch’essi neo-cittadini.

L’indotto economico dell’università è gigantesco, e meriterebbe un approfondimento di suo. Ma anche limitandoci all’essenziale, studenti (e professori) abitano, mangiano, e vivono i loro minuti bisogni quotidiani in città, arricchendo i suoi abitanti e le sue attività. La arricchiscono culturalmente: senza l’università e gli studenti è difficile dire quale sarebbe la produzione culturale della città, e l’utenza della sua ancora troppo scarsa offerta. E la arricchiscono economicamente: argomento cui gran parte della città sembra decisamente più sensibile.

Questa città, tuttavia, da’ la sensazione di sopportarli a malapena i suoi studenti: buoni finché consumano, ma importuni se vogliono anche divertirsi e cercare spazi di aggregazione, peraltro assolutamente indispensabili per chi non ha una casa e una famiglia, e vecchi amici da incontrare. Si vorrebbero negozi pieni e piazze vuote, ché la gente e il rumore danno fastidio. Ma si sono offerte alternative? E’ sintomatico che gli studenti vengano visti sempre e solo come un problema: il problema piazze, il problema spritz… E, magari, che un banale alterco tra studenti, o qualche grida di troppo, diano luogo a titoli allarmati e vertici in Prefettura.

E’ chiaro, gli studenti sono un’utenza particolare: con bisogni specifici, e non sempre facilmente normalizzabile. Ma la città deve decidere. O considera l’università e gli studenti una risorsa, e offre anche qualcosa in cambio, in termini di spazi, di attività, di servizi, di animazione, di orari (non si può pretendere che gli studenti smettano di esistere alle otto di sera), o gli studenti avranno tutto il diritto di considerarla un mero fondale: non una città viva e vitale, ma dei muri, che non danno senso di appartenenza, e a cui dunque non si appartiene volentieri. A essere considerati corpo estraneo di solito si viene ripagati allo stesso modo: e se non si dà rispetto e considerazione, nemmeno li si riceve. Non crediamo che questo faccia bene alla città. Nemmeno ai suoi attori economici.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 11 settembre 2009, p. 1-12

Gli assalti dell’unto del Signore (il caso Boffo)

Gli assalti dell’unto del Signore (il caso Boffo)

“Affrontare la stampa è più difficile che lavare un lebbroso”, diceva Madre Teresa di Calcutta. E forse la citazione potrà servire di consolazione a Dino Boffo, direttore dimissionario di Avvenire, che, dopo aver a lungo fatto il capofila di quella cattolica, si è ritrovato contro quella notoriamente elegante e anglosassone incarnata da Vittorio Feltri. Uno che ha preso molto sul serio l’indicazione di Rivarol che “la stampa è l’artiglieria del pensiero”, e che la usa volentieri nella forma dell’attacco personale, insidioso e calunniatore.

Il reato di lesa maestà di Boffo è in sé modestissimo. Avere, dopo molto tempo, quando proprio non si poteva più stare zitti, dato voce a un dissenso peraltro morbido ed educato rispetto a posizioni e comportamenti del capo del governo esibizioniste e pacchiane e, dal punto di vista cattolico, moralmente discutibili. Ma tanto è bastato per innescare la reazione di un giornale che non è solo alleato e sostenitore del capo del governo, ma proprietà di famiglia. Impossibile immaginare che abbia agito senza il suo assenso.

La reazione, a suo modo grandiosa, come è nello stile del personaggio, è a tutto campo: l’attacco ad Avvenire, le querele contro Repubblica e L’Unità, i contratti Rai dei giornalisti scomodi che non si rinnovano, persino le intimidazioni ai portavoce dell’Unione Europea. Ma non è precisamente una novità: è in linea con l’editto bulgaro che a suo tempo spedì Enzo Biagi, praticamente la storia del giornalismo italiano, in accelerato pensionamento. La reazione di chi, abituato al consenso plaudente e adulatore dei dipendenti, non riesce proprio ad accettare, e forse persino a comprendere, come intorno alla sua persona vi possa essere dissenso. Di tutte le critiche, tuttavia, quella che veniva dal giornale cattolico era la più fastidiosa, per chi non ha perso occasione, con frequenti battute che tradiscono la convinzione, per paragonarsi a Cristo, avvicinare la sua onnipotenza a quella di Dio, e ritenersi “l’unto del Signore”. Che proprio Avvenire lo bacchettasse, che denunciasse la plateale distanza tra vizi privati e pubbliche virtù, che chiedesse un po’ di morigeratezza di stile, denunciando implicitamente uno stile che non la conosce, e a chi si vantava di avere eccellenti rapporti con la Chiesa cattolica – cosa verissima – dicesse in sostanza che, da troppi punti di vista, la contraddizione diventava insostenibile, questo non si poteva tollerare. Ed è partito il killeraggio degli amici.

Che ha funzionato. “La calunnnia è un venticello”, come canta l’aria di Basilio nel ‘Barbiere di Siviglia’ di Rossini. Che all’inizio è “insensibile, sottile”, ma “alla fin trabocca e scoppia, si propaga, si raddoppia, e produce un’esplosione come un colpo di cannone. E il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte ha da crepar”.

C’è da sperare, almeno, che la vicenda faccia scattare, agli occhi della pubblica opinione cattolica, qualche interrogativo etico: non solo sulle devastazioni di certo giornalismo, ma sul più generale problema del rapporto, finora troppo conciliante e interessato, con questo centro-destra e il suo ingombrante leader.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 4 settembre 2009, p. 1-5

Contraddizioni catto-padane

Contraddizioni catto-padane

La Lega, nel suo rapporto con il cattolicesimo, si trova a vivere un’ambivalenza profonda. Il contrasto, una sorta di volontà di rivincita, e persino di concorrenza sui valori, da un lato. E l’eredità del voto cattolico dall’altro.

I dirigenti leghisti hanno lanciato in questi giorni un affondo molto duro nei confronti della Chiesa. Ma si tratta più di una continuità che di una novità, nella storia della Lega. Sarebbe sufficiente sfogliare gli albori di ‘Lombardia autonomista’, organo dell’allora neonata Lega Lombarda, per ritrovare le stesse polemiche di oggi, e persino la proposta di far passare il Nord, in toto, al protestantesimo.

Il partito che forse più di tutti insiste retoricamente sull’identità cristiana del Paese, specie se c’è da prendersela con i musulmani, è anche quello che meno la frequenta e la conosce. Chi scrive ‘Padania cristiana’ a caratteri cubitali sui muri del Nordest di solito, dicono i parroci, in parrocchia non si è mai visto. E chi rivendica crocefissi in ogni aula, scolastica e municipale, spesso a casa sua non ce l’ha e non lo prega. Del resto la dirigenza storica leghista è lontana anni luce dalla pratica cattolica. Bossi non ha mai fatto mistero della sua felice ignoranza in materia, ministri ed ex-ministri come Calderoli e Castelli preferiscono, a quello cattolico, il matrimonio celtico (dopo un primo divorzio), che consente tra le altre cose più rapide separazioni, celtiche anch’esse. E, per dire, un dirigente come l’europarlamentare Borghezio, che non perde occasione per ergersi a paladino della cristianità italiana contro l’invasione islamica, l’unica croce con cui ha realmente dimestichezza, fin dal suo passato politico pre-leghista, è quella celtica. L’unico momento di visibilità cattolica all’interno della Lega è stato quando un’oscura e giovanissima militante delle Acli milanesi, avendo inviato al senatur un documento sul voto cattolico, si vide chiamata a fondare la consulta cattolica della Lega, e in pochissimo tempo fu catapultata al vertice della terza carica dello Stato: ci riferiamo alla presidente della Camera, Irene Pivetti, poi finita a percorrere una triste parabola da modesta presentatrice di programmi di intrattenimento sulle tv Mediaset, contenutisticamente assai poco cattolici. Per non parlare delle politiche che si pongono in conflitto diretto con il cuore del messaggio cattolico: e non si tratta solo di quelle sull’immigrazione. L’antisolidarismo militante, l’enfasi sulla separazione e sulla divisione dalle aree più povere (l’egoismo dei ricchi), il rifiuto di logiche minime di riconoscimento universale dei diritti, la critica alla difesa della costituzione propugnata dal cattolicesimo democratico, per non parlare della polemica diretta con i ‘vescovoni’ (che ha in Milano la sua punta di diamante, ieri contro il card. Martini e oggi contro il card. Tettamanzi), le finanze della Chiesa, le contraddizioni tra il predicare bene e un presunto razzolare male (che li accolgano in Vaticano, gli immigrati…), o il card. Ruini ‘ruina d’Italia’, secondo una nota battuta bossiana, sono la regola, nella Lega, non l’eccezione.

C’è, dunque, un’estraneità diffusa tra il sentire leghista e quello cattolico. Che, tuttavia, non ha impedito che, in particolare nelle bianche province della Lombardia e del Nordest, il voto cattolico, una volta scomparsa la Democrazia Cristiana, si sia riversato volentieri nel contenitore leghista, apparentemente senza soffrire alcuna particolare contraddizione. Anche perché il prodotto piace. Piace perché propone un cattolicesimo di pura etichetta, poco esigente sul piano morale e religioso, riducibile a pochi elementi (identitari, appunto), familiari ma non invasivi, nostalgici ma innocui. E piace anche per l’elemento di critica allo strapotere vaticano (parte anch’esso di ‘Roma ladrona’), in nome magari delle care vecchie parrocchie in cui si parlava dialetto, che anche in ambienti cattolici è significativamente diffuso.

Su questo, più che la Lega, è la Chiesa a trovarsi in difficoltà e in contraddizione. La difesa dell’identità, un pilastro della politica culturale leghista, non può non piacere, laddove l’identità è supposta essere cattolica. Sulla base di questo presupposto non poco clero, ma soprattutto moltissima base cattolica, si sono fatti felicemente sedurre dalla sirena identitaria leghista, talvolta flirtando con essa laddove sembrava rafforzare una identificazione con la chiesa che, secondo tutti gli indicatori (pratica religiosa, frequentazione dei sacramenti, aumento di matrimoni civili e divorzi), è in realtà in calo. Ma il problema è che questa identità cattolica non lo è affatto: e non solo per i richiami al folklore celtico e al dio Po. E questo dalle origini. Oggi quei nodi vengono nuovamente al pettine. Ma è probabile che resteranno, come per il passato, ambiguamente sospesi, e irrisolti. Perché il problema vero non è quanto è cattolica la Lega: ma quanto sono cambiati i cattolici, e quanto sono disposti a mettere in mora le loro convinzioni, in politica. La crescita della Lega ci dice che lo sono, e molto.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 27 agosto 2009, p. 1

Ma il dialetto non deve essere un ghetto

Ma il dialetto non deve essere un ghetto

Un dialetto è una lingua che ha perso sul piano storico. E una lingua è un dialetto che ha vinto. Basta questa osservazione generale a dirci che il dialetto di una regione ha tutta la dignità di una lingua. Anche di più, in un certo senso. La sua forza la mostra precisamente nel fatto che, nonostante non sia insegnato a scuola, e spesso non abbia una tradizione scritta diffusa, continua ad essere parlato. Laddove è parlato…

E qui sta il punto. Un dialetto è vivo se è vivo tra la gente che lo parla. Il Veneto è un esempio abbastanza significativo, in questo senso. Il dialetto è parlato un po’ ovunque, e comprensibile ai più, nelle campagne come nelle città. E non è solo lingua dei ceti popolari, residuale, destinata a scomparire perché le élite non la usano: è parlato anche dalle classi dirigenti, nel mondo dell’economia, della politica, persino dell’università. Quasi un vezzo, talvolta: segno comunque di vitalità.

La Lombardia – e molte altre regioni – è invece un significativo contro esempio. Perché una lingua comune, il lombardo appunto, nemmeno esiste. A Milano la stragrande maggioranza delle persone non capisce il milanese, per l’ottima ragione che non è nemmeno di Milano, ed è sempre più internazionalizzata e multilingue, come una metropoli non può non essere. Dal basso, via migrazioni. E dall’alto, grazie alla mobilità, percentualmente molto maggiore, delle élite, tanto più nei settori trainanti e trendy, economicamente floridi, del terziario. A Bergamo invece il dialetto esiste ed è forte, ma è un altro, del tutto incomprensibile a un milanese tanto quanto una lingua straniera. Che dialetto si dovrebbe insegnare, allora? E, di fondo, perché? Se è già forte e diffuso di suo, non ne ha bisogno: basterebbe qualche corso di supporto per chi lo richiede (e non obbligatorio). Se è quasi morto, perché resuscitarlo in via forzosa, operazione che del resto non funzionerebbe?

Il problema è che le proposte di questi giorni – occasionalmente reiterate come un mantra ideologico, più che veramente perseguite come obiettivo strategico – tradiscono un paradosso culturale più ampio, descrivendo una società che non esiste più. Omogenea culturalmente, mentre non lo è: viviamo in una società plurale, culturalmente, religiosamente, socialmente, per preferenze sessuali e modelli familiari – e questo a prescindere dalla presenza degli stranieri, che questa pluralità la rende semplicemente più visibile, ma ne è una conseguenza, più che una causa. Omogenea per obiettivi anche politico-culturali, mentre non lo è: c’è chi vuole conoscere meglio il proprio dialetto e le proprie tradizioni, e chi invece – probabilmente molti di più – per ottimi e comunque legittimi motivi vuole dimenticare il primo e fuggire le seconde, o semplicemente non sono mai state le sue, perché viene d’altrove, e sono queste invece che vorrebbe mantenere. E in questi casi non servono a nulla gli assessorati all’identità, un frutto anch’esso di speculazione politica, la cui attività principale sembra essere quella di sprecare un po’ di denaro pubblico per rinverdire sagre paesane, libri di ricette locali, antiche tradizioni storiche e rievocazioni folcloristiche che, il più delle volte, non sono più vecchie di un quindicennio…

Ecco, il problema del dibattito attuale sul dialetto, come quello correlato sulle bandiere e gli inni – risibile nei contenuti, ma che mostra precisamente che si tratta di tradizioni inventate, tutto fuorché ataviche – è che, lungi dal voler salvaguardare ciò che esiste e ha bisogno di tutela, intende invece inventare ciò che non c’è, e imporlo anche a coloro a cui non appartiene. Uno scopo di chiusura, non di apertura. Imperialista, non liberatorio. Totalitario, non democratico. Che chiude alle culture, anziché aprire alle medesime. Stessa logica – e tema assai più inquietante – delle preferenze regionali o locali per l’assegnazione di alloggi o la possibilità di lavorare o utilizzare i servizi sul territorio. Tutto ciò mostra che si tratta di una operazione tutta e solo politica. Ben riuscita, perché si legittima di argomenti alti. Ma, chiediamocelo, quanto utile?

I dialetti, come le lingue, dovrebbero servire ad aprirci la mente, a scoprire nuove culture e territori ideali: inclusa quella da cui proveniamo. Ed è per questo che è utile conoscerle e studiarle. Non per chiudersi in un ghetto. Per lo stesso motivo, per gli immigrati, è spesso utile la salvaguardia della lingua d’origine, la Lingua 1, come la chiamano i glottologi, anche come strumento per apprendere meglio la lingua del paese di residenza, la Lingua 2. Ma che lo scopo del dibattito odierno non sia questo lo dimostra il fatto che chi vorrebbe il dialetto obbligatorio è contro la lingua d’origine facoltativa. Un peccato, perché in generale i ragazzi non fanno difficoltà nel costruirsi mondi linguistici diversi e paralleli: il dialetto, per chi lo parla in famiglia senza studiarlo a scuola; una lingua straniera, per chi magari frequenta la scuola inglese, o per i figli chi di emigra; o ancora la lingua di entrambi i genitori per i figli di coppie miste. Ed ecco perché sarebbe utile e importante investire anche, e molto, nello studio delle lingue straniere, l’inglese su tutte, ma anche le altre, dallo spagnolo al cinese: sulla cui conoscenza il Veneto è di un’arretratezza spaventosa, e paga un prezzo misurabile ovunque, dall’economia ai banchi dell’università. Una carenza drammatica, di cui sarebbe utile dibattere e su cui sarebbe indispensabile investire. Ma di questo non si parla. Forse perché troppi ne portano la responsabilità. E perché elettoralmente non paga.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 13 agosto 2009, p. 1-30

Un’anomalia tutta italiana (l’ora di religione)

Un’anomalia tutta italiana (l’ora di religione)

La sentenza del Tar del Lazio che ha accolto il ricorso delle principali minoranze religiose italiane, tutte riconosciute da Intesa con lo stato (ebrei, valdesi, luterani, oltre a diverse associazioni laiche), pone un problema che va molto al di là del merito, già significativo di suo: il fatto che la frequenza all’ora di religione cattolica non concorra ad attribuire credito formativo per gli esami di maturità, e che di conseguenza gli insegnanti di religione cattolica non partecipino a pieno titolo agli scrutini degli studenti.

Questo pasticcio è frutto di un’anomalia tutta italiana: che l’insegnamento religioso sia confessionale, che la selezione degli insegnanti e la decisione sui contenuti sia ecclesiale, ma che gli insegnanti siano pagati dallo stato e di fatto parificati agli altri, che sono tuttavia selezionati dallo stato sulla base di contenuti da questo predisposti.

Altri paesi finanziano l’insegnamento religioso confessionale: ma non solo della confessione maggioritaria, che sia quella cattolica, quella luterana o altra. Altri ancora forniscono un insegnamento religioso diretto, unico o opzionale: ma, come per le altre materie, si fanno carico di deciderne i contenuti e di selezionarne i docenti. Da noi invece lo stato ha deciso di assumersi l’onere di un insegnamento confessionale, che tuttavia è facoltativo (non potendosi obbligare i cittadini di altra o nessuna confessione religiosa a frequentarlo, anche se nei fatti non sono a disposizione opzioni alternative), lasciando il controllo sugli insegnanti a un ente esterno (che può nominarli e revocarli, anche per motivi che nulla hanno a che fare con il contenuto e le modalità dell’insegnamento, ad esempio per motivi morali), e compiendo una evidente discriminazione nei confronti dei suoi cittadini non cattolici.

Da tempo anche in Italia si va manifestando una corrente di opinione che, tenendo conto dei cambiamenti avvenuti nella società (una sempre minore percentuale di cattolici, un sempre maggiore pluralismo religioso, e una progressiva equiparazione dei diritti di tutti), propone non più l’ora di religione cattolica, ma l’ora delle religioni, con programmi costruiti anche in collaborazione con le confessioni religiose (a cominciare da quella cattolica), ma con curricula uguali per tutti, e la selezione degli insegnanti sulla base di concorsi attitudinali, come per qualsiasi altra materia. Questo consentirebbe di dare dignità vera a un insegnamento che ora è già nelle cose di serie B, favorendo una alfabetizzazione religiosa degli italiani ora a livelli drammaticamente bassi, e rispettando le convinzioni di tutti.

I punti di partenza su cui riflettere sono infatti due, uno di efficacia (l’ignoranza religiosa degli italiani) e l’altro di principio (la progressiva maggiore presenza di minoranze religiose e l’uguaglianza dei cittadini).

Il primo punto è testimoniato anche da periodiche inchieste interne: Famiglia Cristiana ha rilevato che solo il 7% degli italiani ha letto i quattro vangeli, il che pone un problema sull’utilità persino dell’insegnamento confessionale (dal punto di vista cattolico, se non si insegnano i vangeli, cosa si insegna?). Ma è senso comune constatare che l’ignoranza dei fondamentali biblici rende di fatto incomprensibile ai più, tra le altre cose, il significato di gran parte del nostro patrimonio artistico, dalle chiese alle pinacoteche, come della cultura popolare.

Il secondo punto è figlio dei tempi. Oggi sempre più italiani si dichiarano di diversa confessione religiosa (almeno 1 milione e 300 mila) o di nessuna (i praticanti cattolici sono tra un quarto e un terzo della popolazione), e gli immigrati ci hanno portato nuove confessioni religiose (non meno di 3 milioni di stranieri non cattolici). Il che significa che anche l’Italia è diventata un paese religiosamente plurale. Su questo, che è un cambiamento epocale, la riflessione intellettuale è in ritardo, anche perché polarizzata non tra laici e credenti, ma tra clericali e giacobini, sanfedisti e atei militanti. E quella politica mostra una costante propensione bipartisan del ceto politico a tenersi buona la Chiesa non per convinzione ma per interesse: ciò che fa sì che nel nostro Parlamento il tasso di clericalismo sia inversamente proporzionale alla fede – un elemento di scambio, non una coerente riflessione sui princìpi, giuridici e religiosi.

Non stupisce che, anche in questo campo, spetti alla magistratura un ruolo di supplenza, in coerenza con numerosi pronunciamenti della corte costituzionale, basati sull’uguaglianza e la pari dignità dei cittadini.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 13 agosto 2009, p. 1

Il potere e il denaro. Il rapporto tra ricchezza ed élites

Il potere e il denaro. Il rapporto tra ricchezza ed élites

IL POTERE E IL DENARO

Il rapporto tra ricchezza ed élites

Che “gli ultimi saranno i primi”, da citazione evangelica è divenuta locuzione proverbiale. Non sappiamo però quanto esprima una effettiva certezza, seppure escatologica, di chi la ripete, e quanto invece una speranza sempre più fievole e sempre meno convinta.

Riguarda il dopo, in ogni caso, il non ancora. Mentre nell’oggi, nell’ora, nella logica del mondo non è così. E dunque, poiché nonostante tutto viviamo nel mondo, anche se ci è stato insegnato a non essere del mondo, è difficile crederci. Chi sta bene, i bene-stanti appunto, chi sta sopra gli altri (ci inventiamo un provvisorio ‘soprastanti’) si gode i suoi privilegi apparentemente senza troppi scrupoli di coscienza. E i sottostanti, quando guardano ‘lassù’, vedono una facciata lucente seppure spesso vacua, fatta di esaudimento di tutti i desideri, e di uso e sperpero del denaro come mezzo per farlo. Tuttavia non è primariamente un richiamo morale quello che vorremmo fare. Se anche questo non guasta, ci sembra più urgente una riflessione fredda, agnostica, se possibile oggettiva.

L’associazione tra il potere del denaro, e ancora prima dell’oro o di ciò che nelle varie culture ha potuto farne le veci, e il potere tout court, appare intuitiva e originaria. E’ sempre stato così. Chi conta ha il potere di contare, di acquisire e di sprecare: il denaro così come gli uomini e le cose che con il denaro si può comprare. Ci sono quelli che contano; e quelli che, al massimo, possono essere solo contati e contabilizzati: degli accidenti statistici, quando va bene.

Non è una novità che chi è ricco abbia potere, e inversamente chi ha potere, per esempio politico, diventi ricco. Già Balzac diceva sarcasticamente: “Un uomo politico è un uomo che è entrato negli affari, o sta per entrarvi, o ne è uscito e vuole rientrarvi”. Le carriere della casta odierna sono lì a dimostrarlo, con dovizia di esempi.

La riflessione sul denaro è centrale soprattutto, e non può sorprendere, in economia. Dove però, abbandonati i classici, si è abbandonata anche una riflessione sui suoi fondamenti, e l’analisi è in definitiva strumentale, legata a grandezze di cui è arduo trovare la radice, l’origine: le risorse e i vincoli, il prezzo e il costo, il salario e il profitto, la produzione e il consumo, il valore e il plusvalore, e naturalmente su tutti il mercato – e in quello finanziario è ancora peggio: i titoli, l’interesse, il rendimento… Si tratta di un ‘mondo dato per scontato’, con una buona dose di artificialità e financo di fiction, le cui leggi sono date per certe ma la cui solidità è ancora meno scontata dei suoi fondamenti. E la crisi odierna ne è la prova più evidente.

Potremmo sintetizzare la voluta mancanza di riflessione sul ruolo del denaro con un noto motto di spirito: il variamente declinato pecunia non olet. Che, per la cronaca, anzi per la storia (ce la tramanda Svetonio), è la giustamente celebre risposta dell’imperatore Vespasiano al figlio Tito che gli rimproverava d’aver messo una tassa sui gabinetti. Ma se “l’argent n’a pas d’odeur”, chiosava Jaques Brel, “pas d’odeur vous monte a nez”: salta al naso lo stesso, il suo odore – a volerlo sentire.

Per una filosofia del denaro

Del denaro si può dire che il suo mistero principale è la sua stessa esistenza; questo ruolo vagamente misterioso del denaro simbolizza e ‘trasporta’, per così dire, la società stessa: “una terza istanza s’inserisce tra le due parti con la sostituzione delle transazioni in moneta al baratto: si tratta della società nel suo complesso che attribuisce al denaro un valore reale corrispondente”, come scrive Georg Simmel nella sua monumentale Filosofia del denaro, pubblicata nel 1900. Si tratta di un valore e di un ruolo che è anche marcatamente religioso: “Presso i Greci questo rapporto era originariamente sostenuto non dall’unità statale, ma dall’unità religiosa. La moneta ellenica era in origine di natura sacrale, emanazione anch’essa del ceto sacerdotale come tutti gli altri strumenti di misura universalmente validi di peso, di lunghezza e di tempo”. Quest’aura sacrale, del resto, è sostanzialmente rimasta al denaro anche oggi e, seppure per altri motivi, si spiega facilmente: il denaro è un niente in quanto a valore intrinseco (la carta su cui è stampato) che può tutto o comunque molto, e questo a prescindere da chi ce l’ha in mano – è un potere suo proprio, verrebbe da dire interiore, e verrebbe da dire anche originario se non fosse che si fonda su una convenzione che è anteriore alla sua stessa esistenza.

Simmel nota che, col passare del tempo, il denaro è sempre più slegato da un qualsiasi rapporto con un valore concreto, quale poteva essere l’oro. Il suo significato si è fatto immateriale: “Si potrebbe definire questo processo nei termini di una crescente spiritualizzazione del denaro; l’essenza dello spirito è infatti di dare alla molteplicità la forma dell’unità”.

Da mezzo il denaro diventa fine, e fine sintetico, ultimo; come sa e sperimenta chiunque lo possieda: il senso di sicurezza astratto, di potere astratto, perfino di piacere astratto, sebbene declinabile nel concreto, che dà. Non più la vertigine concreta, immortalata dalla piscina piena di banconote e monete in cui tuffarsi impersonata da Paperon de’ Paperoni, che appartiene ormai ad un’altra epoca e a un’altra fase del capitalismo. Oggi che il denaro è diventato virtuale, una grandezza letteralmente meta-fisica, si è fatto un passo ulteriore e qualitativamente decisivo, ma sempre nella medesima direzione già individuata da Simmel: “La velocità di circolazione abitua a spendere ed incassare, rende ogni singola quantità di denaro psicologicamente sempre più indifferente e priva di valore, mentre il denaro di per sé acquista sempre più importanza, dato che le transazioni monetarie toccano il singolo con molta più intensità ed estensione che non in una forma di vita meno movimentata”.

Simmel scriveva queste cose riflettendo sull’espansione dell’economia monetaria; espansione che, all’epoca, era essenzialmente quantitativa, dovuta all’aumento esponenziale della massa monetaria circolante, ma che pure di per sé produceva una modificazione qualitativa. Oggi queste parole assumono un valore fortemente potenziato alla luce del diffondersi del denaro elettronico, della moneta virtuale, dai bancomat alle carte di credito, ma passando anche per tutte quelle operazioni appena meno quotidiane come l’acquisto di azioni a termine, con denaro che non ho ma che prendo solo virtualmente in prestito: operazioni che costituiscono l’abc dell’attività bancaria e borsistica, ma che complessivamente costituiscono un edificio di dimensioni mostruose e nello stesso tempo puramente artificiale. L’invenzione di ingegnosi grovigli finanziari basati sul nulla che è all’origine della crisi attuale ha fatto il resto: titoli che garantiscono titoli che assicurano titoli che rimandano a titoli che sono una media di titoli che speculano su titoli del tutto privi di riferimento a grandezze reali, che hanno finito per essere chiamati, non a caso, ‘tossici’.

Avere come essere

Del resto, tornando al piccolo, è sufficiente vedere le modificazioni psicologiche che induce il fatto che lo stesso stipendio ci venga consegnato personalmente, concretamente, in mano, oppure venga versato direttamente in banca, e venga da noi speso mediante carta di credito e bancomat. Dietro questo fatto banale si nasconde una mutazione antropologica, che cambia il nostro rapporto con le cose oltre che con il denaro, e persino la nostra percezione e la nostra idea delle stesse. Una mutazione che, incidentalmente, produce una modificazione economica di non minore importanza: il fatto che la propensione al risparmio, nonostante l’aumentata ricchezza individuale e sociale complessiva, sia in costante diminuzione sia in Europa sia, in misura molto maggiore, negli Stati Uniti, ne è la prova.

Il denaro però, dice ancora Simmel, ha anche delle qualità di sublimazione, essendo divenuto “l’esempio più puro di strumento”. E come lo spirito, come le qualità estetiche, persino come le virtù, si accorge davvero del loro valore qualitativo, non solo di quello quantitativo solo chi ne possiede in quantità significativa, in maniera eminente. E’ in questa condizione che meglio se ne sperimenta la qualità di strumento ‘potente’ e spesso invincibile. “L’oro ha un potere proprio, incommensurabile”, ha scritto un testimone del secolo come Ernst Jünger; e, a causa di questo, sue proprie leggi.

L’antiquata e in definitiva falsa antinomia tra avere e essere, su cui hanno costruito le proprie fortune intellettuali in molti, ultimo Erich Fromm, e che Simmel non avrebbe mai accettato né condiviso, non ha più ragione …d’essere: perché l’essere dà un senso all’avere, e nello stesso tempo l’avere è una qualità e un’estensione dell’essere, e in certa misura persino una sua pre-condizione, da cui non ci si può nemmeno, per così dire, dimettere. Diceva Cesbron a questo proposito: “Credo sinceramente che non si possa naturalizzarsi poveri quando si è ricchi di nascita. Non è tanto del denaro che parlo ma di tutto ciò che rompe l’uguaglianza profonda degli uomini: ricco di relazioni, di cultura, di sicurezza”. E ancora: è “più facile anche essere santi, e riconosciuti per tali, se ricchi. Si può lasciare il denaro: da ricco che era, ma il resto…”. Anche rispetto al denaro, è più facile essere elegantemente indifferenti se non si è costretti a essere ‘differenti’. E in certe situazioni avere è la pre-condizione dell’essere, o almeno dell’essere decentemente. Almeno qui sulla terra. Della Gerusalemme celeste, che rientra nell’orizzonte delle nostre speranze ma è fuori dalla nostra portata, anche cognitivamente, non sappiamo quale sia la banca centrale né quale sia la moneta corrente.

Ecco perché è ancora di importanza decisiva, nella prospettiva dell’emancipazione umana, sostenere i diritti all’acquisizione e anche al consumo delle classi che hanno meno potere di farlo, degli esclusi. Senza fare dell’acquisizione e del consumo un nuovo feticismo, naturalmente. Questo lo fa già, e con successo, l’economia di mercato…

I lussi dei ricchi

Appena un anno prima del libro di Simmel faceva la sua comparsa sull’altra sponda dell’Atlantico un caustico pamphlet: La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen.

In esso si sostiene che la classe agiata svolge un “ufficio quasi sacerdotale”: “Tocca a questa classe stabilire in sintesi generale quale schema di vita la comunità deve accettare come conveniente e onorifico; ed è suo ufficio mostrare col precetto e l’esempio questo schema di salvezza sociale nella sua forma più alta, ideale”. Solo che la classe agiata della civiltà finanziaria (che per Veblen viene subito dopo la civiltà predatoria e ne è in certo modo una forma più raffinata) ha come legge fondamentale non quella della produzione, e nemmeno quella di svolgere un’attività comunque produttiva ma, contrariamente al mito corrente, quella dello sciupio vistoso, dell’improduttività esibita ed esibizionistica come stile di vita.

Veblen dimostra la sua tesi, che non ha perso di originalità e di forza dirompente, rileggendo in questa chiave ostentatoria spezzoni vari di storia sociale: la storia dei costumi femminili, dell’utilizzazione della servitù, come anche dei costumi ecclesiali, in quello che viene definito ‘consumo devoto’. “Fatta ogni riserva, appare pur sempre chiaro che direttamente o indirettamente i canoni della rispettabilità finanziaria influenzano materialmente le nozioni che noi abbiamo degli attributi divini, come pure le nostre nozioni di quelle che sono le circostanze e la maniera giuste e convenienti di comunicare col divino”: basti pensare alle innumerevoli immagini sacre dell’arte gotica e rinascimentale, con le loro ricche vesti e l’ambientazione nobiliare.

Veblen va anche oltre, introducendo un ironico ma sottile parallelo tra il significato dei costumi femminili e di quelli clericali. “L’abbigliamento delle donne va anche più lontano di quello degli uomini nel dimostrare l’astensione da ogni occupazione produttiva” (cappellini, busto, tacco alto, ecc.). Ma questa caratteristica l’hanno in maniera evidente anche le livree e, incidentalmente, i lunghi e scomodi abiti sacerdotali, palesemente e volutamente inadatti al lavoro profano. Questo ragionare solleva un interrogativo interessante, perché la Chiesa ha sempre vissuto in materia una certa ambivalenza. Da un lato il gusto della pompa, del fasto sacerdotale, ereditato da altre tradizioni religiose ma portato a vertici di perfezione, anche artistica, e perché no spirituale, inarrivabili (si pensi all’architettura, all’arte, alla musica sacra); dall’altro una ricerca di autenticità e di sobrietà, di semplicità e di povertà (si pensi al ruolo degli ordini mendicanti), forse più consone alla figura del fondatore, in ogni caso al suo esempio direttamente ispirate, che percorre come un fiume carsico tutta la storia della Chiesa, alternando momenti di dimenticanza completa ad altri di consapevolezza profetica forte. E questa ambivalenza sussiste ancora, per lo più inconsapevole, in ogni caso non risolta: nelle polemiche sulle pantofole e sugli ermellini papali, nelle frequentazioni salottiere di certi alti prelati, e magari in una difesa un po’ gretta e acritica dell’otto per mille, da un lato, e nel dovere-bisogno di costituire fondi per sostenere le famiglie più colpite dalla crisi, e nella vicinanza ai più deboli e nella condivisione del loro destino, nell’opzione preferenziale per i poveri, di molti altri testimoni della fede, dall’altro.

C’è un legame tra lusso e capitalismo?

Pochi anni dopo, nel 1913, con maggiore perspicuità storica e non minore verve, Werner Sombart affronta il medesimo nucleo tematico da una diversa angolazione. In un suo testo minore e dimenticato, in chiave antiweberiana (in sostanziale implicita polemica con l’immagine di sobrietà e per certi tratti di ascesi che il capitalismo assume nella più parafrasata delle opere sociologiche, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, pubblicata per la prima volta nel 1905) Sombart dimostra, o per lo meno mostra, quanto Lusso e capitalismo – questo il titolo del libro – siano inestricabilmente legati, e negli aspetti più ‘deleteri’ in maniera più visibile e chiara.

Sombart parte da considerazioni storiche sulla vita di corte e in particolare sulle sue regine, le cortigiane appunto, dames de moyenne vertu, cocottes, le varie Pompadour, che hanno giocato un ruolo decisivo nello sviluppo di consumi e costumi di ostentazione e di spreco. Una delle conseguenze dell’ascesa sociale e persino politica di queste dame, alla corte francese e altrove, e delle mode sociali conseguenti, sarebbe stata, per imitazione, e attraverso i consumi, una paradossale ascesa del ruolo delle donne in genere, ma più in generale una ricerca del lusso sempre più spasmodica che avrebbe portato a casi non rari di nobili e ricchi che, nel XVII secolo, spendevano un terzo e financo metà delle loro rendite in vestiti e carrozze: “nei secoli successivi al Medioevo, ha dominato un lusso grandioso che crebbe a dismisura verso la fine del XVIII secolo”.

Per Sombart il lusso diventa così un moltiplicatore del consumo e degli investimenti. Al di là di una diffusa retorica, egli individua un fondamentale e fondativo carattere irrazionale del capitalismo, e una sua sudditanza a logiche che con il calcolo razionale di costi e benefici hanno poco a che fare. Ma più ancora che un moltiplicatore, il lusso è all’origine, è la genesi stessa del capitalismo: Sombart sottolinea “l’influenza che la formazione di un forte consumo di lusso esercita sull’organizzazione della produzione industriale”, e arriva a dire che con esso “in numerosi casi (non in tutti!), [si] apre la porta al capitalismo”. L’economia del lusso di oggi, il suo ruolo culturale e il suo peso economico, sembrerebbero esserne la continuazione.

Conclusioni

La riflessione fin qui evocata ci dice qualcosa sul rapporto tra denaro e potere, e sul ruolo di coloro che li posseggono, di cui solitamente si parla assai poco. Per lo più nel dibattito sociale ci si limita da un lato alla rivendicazione di un diritto o di un merito sostanzialmente inesistente, avanzata dalla élites le rare volte in cui i loro privilegi e i loro costumi sono messi in questione; e dall’altro alla critica, motivata politicamente o religiosamente, dei privilegi stessi. Una critica volta, se in chiave politica, a rivendicare in qualche misura il godimento dei medesimi diritti e magari privilegi a più grandi masse di individui (la rivendicazione di giustizia ed equità redistributiva è in fondo questo); e, se motivata religiosamente, a leggere tale realtà in chiave spirituale, traendone motivo di consolazione per gli uni, che non hanno, e di insegnamento morale e occasionalmente di minaccia di un castigo per gli altri, che hanno troppo. Entrambe comunque, in molti casi, spinte a cercare sul piano della realtà storica di lenire in qualche misura i mali del mondo e le sue ingiustizie.

Il problema non è di per sé il denaro. “Ciò che va messo in discussione è il dominio del denaro al di fuori della sua sfera”, come ha scritto Walzer. Solo che, alla luce di Simmel, oggi non c’è più una sua sfera, perché la sua sfera, grazie anche al processo di ‘spiritualizzazione’ di cui si è parlato, è tutte le sfere. Il che pone dei problemi di ‘tracimazione’, di pervasività eccessiva, invadente. Ora, “tutto ciò che ha un prezzo, ha poco valore”, come ha scritto Nietzsche nello Zarathustra. L’effetto di questa confusione delle sfere è che quasi non ci accorgiamo di vivere in una società che tende a dare un prezzo a tutto: anche ai valori. Persino a ciò che rientra nella sfera dell’intimità: le relazioni personali e sociali, il lavoro domestico e di cura, il volontariato, la bontà premiata con una mancia, ma anche, in campo sociale, le giustificazioni puramente economiche, diciamo così funzionaliste, dell’accoglienza agli immigrati, e persino dell’etica negli affari, della lotta alla corruzione o dell’onestà nella pubblica amministrazione – perseguite non come beni in sé, ma perché danneggerebbero il mercato e i princìpi di libera concorrenza…

E’ vero, c’è qualcosa di antico in questo, e di sapiente. Prendiamo il caso del ‘prezzo del sangue’ nelle società primitive, una riparazione economica che riusciva a metter fine alla catena insanguinata delle vendette; ma pensiamo anche all’ammenda per una trasgressione o un reato commessi. E’ leggibile qui la funzione educativa, e anche la finalizzazione sociale, in termini di salvaguardia di un ordine prezioso e altrimenti minacciato. Il problema è di cogliere il limite della possibilità di monetizzazione. L’amore mercenario, per dirne uno, non è un’invenzione odierna, trattandosi come noto del mestiere più antico del mondo; ma c’è un limite oltre il quale l’incremento quantitativo della tendenza alla mercenarizzazione (dell’amore – praticato o solo visto al cinema o in televisione, o trasformato in pubblicità, o magari telefonico – come di qualsiasi altra cosa) si trasforma in soglia qualitativa.

C’è dunque forse un cambiamento quanti-qualitativo in atto. Che comporta il rischio di dover ammettere che, sul denaro, lo spirito (in senso forte) del capitalismo potrebbe vincere su tutta la linea: al punto che l’idolatria del capitale investe anche chi il capitale non ce l’ha. Lo dimostra forse il fenomeno Berlusconi in quanto mito popolare, ma più in generale il successo della retorica dell’“uno su mille ce la fa” e la speranza nelle lotterie.

Il rischio, che è sociale oltre che morale, è che si perda in parte la sensibilità: che, come per le droghe, si abbia un effetto di progressiva desensibilizzazione, e dunque di assuefazione. “Non ce l’ho coi miei simili per i loro privilegi, ma per il fatto che li trovano naturali”, ha scritto Gilbert Cesbron. E questa tendenza, come quella correlata a considerare normale la trasmissione ereditaria non solo delle ricchezze ma anche dei ruoli di potere in tutti gli ambiti (economia, politica, giornalismo, cinema…), ce ne pare una prova. Così come l’aumento spropositato dei tassi di disuguaglianza sociale che ha coinvolto e travolto le società non solo occidentali negli ultimi due decenni (e l’Italia, tra i paesi dell’Ocse, è tra quelli che ha visto aumentare in percentuali maggiori le disuguaglianze interne), e ancor più il fatto che ciò sia accettato persino dalle vittime del meccanismo.

Una delle conseguenze possibili di questi processi è che si perda il senso della differenza tra il possedere del denaro e l’esserne posseduti; che non ci si accorga che in mancanza di distanza critica il denaro può comprare chi lo maneggia più di quanto questi compri col denaro qualcosa. Sono i casi in cui il denaro da mezzo diviene fine. E sono anche ciò che spiega perché, di norma, le religioni insegnino il distacco dal denaro, pur arrivando raramente a condannarlo in sé; e propongano modelli di ascesi individuale che prevedono una progressiva spogliazione dalle sue logiche (“usatene come se non ne usaste”), se non dalla sua proprietà.

Una prima diagnosi l’aveva già proposta uno dei pochi grandi economisti che non ha mai dimenticato la riflessione a partire da presupposti altri da quelli della propria disciplina, John M. Keynes – ridiventato di moda dopo decenni di oblio e irrisione da parte degli stessi che oggi chiedono aiuti per le banche e le industrie dicendo di ispirarsi, a torto o a ragione, alle sue idee – che nelle sue Prospettive economiche per i nostri nipoti scriveva: “L’amore per il denaro come possesso – da distinguere dall’amore per il denaro come mezzo per ottenere le gioie e sperimentare la realtà della vita – sarà riconosciuto per ciò che è: un fatto morboso leggermente ripugnante, una di quelle propensioni per metà criminali, per metà patologiche di cui si affida la cura agli specialisti di malattie mentali”. Ma una diagnosi non è ancora una terapia; che, in quanto tale, e tanto più nella sua forma sociale, è ancora tutta da inventare.

Stefano Allievi

“Servitium”, n.184, luglio-agosto 2009, pp. 45-53

“Morte a Venezia” il ritratto ante litteram di Silvio Berlusconi

“Morte a Venezia” il ritratto ante litteram di Silvio Berlusconi

“Uno, in particolare, vestito d’un abito estivo color giallino all’ultima moda, con una cravatta rossa e un panama dal risvolto baldanzoso, si segnalava tra tutti per la voce berciante e la lepidezza di cui dava prova. Appena l’ebbe osservato un po’ più attentamente, Aschenbach constatò, con una sorta di raccapriccio, che si trattava di un finto giovinotto. Era vecchio, senz’ombra di dubbio. Grosse rughe circondavano i suoi occhi e la sua bocca, lo smorto incarnato delle guance era belletto, una parrucca i capelli castani sotto il copricapo di paglia adorno di un nastro variopinto; il collo appariva flaccido e segnato dai tendini, i baffetti volti all’insù e la mosca sul mento erano tinti; la fitta rastrelliera di denti gialli, ch’egli scopriva ridendo, era una meschina mistificazione, e le due mani, adorne di grandi anelli agli indici, erano mani senili. Non sapevano, non si accorgevano i suoi amici che colui era un vecchio, che indossava indebitamente quelle garrule vesti da ganimede, che indebitamente si atteggiava a uno della loro età? Con tutta naturalezza e dimestichezza (così sembrava) essi lo ammettevano in mezzo a loro, lo trattavano da pari a pari, ricambiavano senza disgusto le sue gioviali manate nei fianchi. Com’era possibile?”

E’, questo, un famoso passo della Morte a Venezia di Thomas Mann, che Luchino Visconti rese nel suo film una scena indimenticabile: con il trucco del vecchio che si scioglieva al sole, denunciando al contempo la falsità e l’inanità del suo travestimento.

Ed è a questo che ci fanno pensare le trascrizioni man mano rese pubbliche delle chiacchiere private di Silvio Berlusconi, e le rivelazioni vecchie e nuove sulle sue giornate e nottate gaudenti, tra un blitz in discoteca a Milano e una Noemi che lo chiama ‘papi’ da festeggiare a Casoria, con gli intermezzi teatrali – giovinette tra le braccia e finti matrimoni – di Villa Certosa. Un vecchio che desidera disperatamente rimanere giovane. E ci riesce. Non solo per le prodezze del suo medico personale, le cure rigeneranti, i lifting e i ritocchi. Ma anche perché emana un potere suo proprio, datogli dal belletto più potente che esista: il potere, di cui il denaro del quale è fortunato possessore (essendo tra i primi 100 uomini più ricchi al mondo) è la forma più eminente.

Interessano meno le prodezze sessuali, reali o mancate. Colpisce molto di più il bisogno assurdo – molto da bauscia, si direbbe a Milano – di piacere, di spandere, di fronte a un pubblico evidentemente di ‘inferiori’: ragazzine imberbi e inesperte di politica, da impressionare con i filmati del prode insieme ai grandi della terra, le vanterie sul proprio ruolo internazionale e la propria indispensabilità, il riferimento al cane di Bush o al letto di Putin. Misere cose – che gettano una luce tra l’inquietante e il pietoso sul bisogno di essere adulato di un uomo che non ne avrebbe bisogno – ma luccicanti, che sono la traduzione in termini di potere dell’auto o della moto sportive, e della vanteria maschile sulla lunghezza dei propri genitali: non più eleganti e non più profonde di queste.

E’ ridotto a questo l’uomo più potente d’Italia, uno dei grandi del mondo: quello che, come riporta anche il sito della BBC, si autodefinisce “il miglior leader politico in Europa e nel mondo”? Così è, se vi pare.

Vi è, in questa che non sappiamo se sia una metaformosi o una caricatura del potere, una sorta di grandezza da personaggio shakespeariano. Ma anche un indubitabile côBagaglino. E così, tra la tragedia e l’operetta, tra la solitudine del potere e le meschinità del medesimo, si consuma il declino di chi, nel bene e nel male, ha governato l’Italia caratterizzandola al punto che questo periodo di storia politica e di costume del nostro Paese verrà ricordato come l’era berlusconiana.

Come per Thomas Mann, la domanda però è sempre la stessa: come era possibile? Come è stato possibile che l’Italia si sia affidata a questo tipo umano, al suo spessore? Probabilmente perché metà dell’Italia gli assomiglia, si identifica con lui, e si limita ad invidiarlo per non poter essere come lui.

In questo senso aveva davvero ragione il vecchio Indro Montanelli, il più autorevole giornalista italiano, vero conservatore, vero moderato e vero liberale, e per questo motivo fieramente anti-berlusconiano, che sul finire della sua vita si è ritrovato, contro tutta la sua storia, a votare per il centro-sinistra, pur di non sostenere una destra di questo tipo: “Solo lasciandolo governare, gli italiani si vaccineranno contro il berlusconismo”. L’abbiamo fatto. Lo stiamo facendo. E occorre che la parabola si compia interamente.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 5 agosto 2009, p. 33

Il declino del capo e quello del paese

Il declino del capo e quello del paese

L’imbarazzante sequenza di rivelazioni più o meno piccanti sulla vita privata di Berlusconi si fa sempre più serrata. L’aspetto moralistico è quello su cui maggiormente è focalizzata l’attenzione pubblica, ma ci sembra il meno interessante.

Ai tempi dello scandalo Lewinski, dopo tutto, a molti era sembrato più squallido lo spettacolo dei persecutori politici di Clinton, i Newt Gingrich e gli altri inquisitori della destra fondamentalista cristiana, che passavano il tempo a rovistare con evidente piacere tra pantaloni sbottonati e tracce di sperma, presentandosi tutti i giorni al Congresso con la Bibbia in mano, che non il comportamento, pur scorretto, dello stesso Bill Clinton, che è rimasto comunque un presidente assai migliore, sul piano della morale pubblica e politica, di quelli, repubblicani, che l’hanno preceduto e seguito, anche se questi forse avevano una morale privata più spendibile.

Oggi, semmai, può essere ironico constatare che il gioco avviene a parti invertite: ad essere sotto attacco è un difensore della famiglia come istituzione, non un liberal miscredente e libertino, fino a ieri difeso a sua volta dagli alti rappresentanti ecclesiastici di cui è stato buon amico e campione politico, godendo del loro ampio ed esplicito sostegno. E gli inquisitori, che non brandiscono principi cristiani, in mano tengono al massimo L’Espresso, con l’orecchio sul sito su cui sono finite le intercettazioni.

Più che sui fatti personali può dunque essere interessante trarre qualche conclusione sugli effetti pubblici della discutibile morale privata su cui si fonda questa vicenda, in ogni caso triste per gli effetti a valanga che ha ed avrà sul livello di tensione morale, già scarso, e sulla reputazione internazionale del Paese.

Non è tanto la questione della menzogna, su cui ipocritamente stanno insistendo molti, a colpire. La menzogna fa parte della politica, e lo sappiamo benissimo tutti. Come occultamento o sviamento interpretativo, nei casi migliori. O come falsità vera e propria, nei casi peggiori, peraltro frequenti. I partiti del resto sono, per definizione, parte: la verità sta solo nel tutto. Figuriamoci se la menzogna non può servire a tenere separati i vizi privati e le pubbliche virtù: non solo in politica, del resto.

Sul piano del decadimento morale del paese, le conseguenze sono ovvie, anche se questo scandalo ne è solo un esempio tra tanti, non l’origine. Tra le altre, l’accettazione e la diffusione dei capricci del capo come norma e come esempio – in altre parole, il servilismo come prassi e modo per fare carriera, riuscendoci. O la ‘velinizzazione’ della politica. Non solo sul piano estetico – più donne e più belle in politica – ma sul piano dei contenuti: fare ciò che dice chi paga, qualunque cosa sia, anche lo scambio più volgare, purchè si salvino le apparenze. In questo senso ci pare che questa morale sia molto meglio interpretata dagli uomini che circondano il capo, le cui carriere sono state legate all’unico merito della fedeltà cieca e assoluta al capo e all’asservimento ai suoi voleri, che non dai ministri Carfagna e Brambilla. La predisposizione e il voto delle leggi ad personam per difendere Berlusconi dalla magistratura, cedendo senza fiatare il proprio onore e la propria anima, sono forme di prostituzione assai più gravi della cessione del proprio corpo, vera o presunta, di una escort che non ha responsabilità pubbliche. E proporre carriere politiche alle animatrici dei festini del capo – e accettarle, da parte dei maggiorenti del partito (memorabile in questa chiave la frase di un coordinatore del Pdl a un escluso eccellente che si lamentava di non essere ricandidato: “tu c’hai le poppe?”)– è assai più grave che sperarci, da parte delle animatrici in questione.

Sul piano internazionale, le conseguenze sono ovvie. Nonostante gli indubbi successi diplomatici, e tra questi la gestione dell’ultimo G8, la considerazione di cui godono il Paese e il suo leader sono in continua discesa, e siamo lontani dal livello più basso, che toccheranno in seguito. Un fatto che dovrebbe stare a cuore anche alle nostre imprese, così premurose nel loro sostegno al leader.

Sul piano interno, non è altro che l’ennesimo vortice di una spirale discendente che non accenna ad arrestarsi. E che le denunce della casta non riescono a far diventare un circolo virtuoso: quasi ci si fosse assuefatti al peggio.

Ma il declino sarà tanto inesorabile quanto lento. I sondaggi, è vero, sono in calo: ma il genio politico di Berlusconi, e le sue indubbie capacità, mostrate ultimamente tanto in occasione del terremoto in Abruzzo quanto in occasione del G8, sapranno trovare qualche coup de théâtre per ribaltare tendenze peraltro ondivaghe ed emozionali, legate a fattori occasionali e instabili per definizione. Del resto, metà del paese è con lui, e non pronuncerà alcuna condanna: anche perché non desidererebbe altro che essere al suo posto.

Il controllo assoluto del destino politico dei suoi, e l’assenza completa di democrazia nel partito di cui è leader, fa di Berlusconi un leader di partito e di governo solidissimo. La sua corte non avrà il coraggio, come non l’ha avuto finora, di contraddirlo. Il bisogno di mantenere il potere da parte di Berlusconi, per continuare a posporre i suoi guai giudiziari, per controllare l’informazione pubblica, e anche, molto umanamente, per darsi l’illusione di controllare lui gli eventi, anziché essere succube di essi, è quasi assoluto. E allora, a meno di fatti imprevedibili, è facile ipotizzare una legislatura lunga e umiliante, segnata da uno stillicidio di rivelazioni, sempre più infime e tristi – che possiamo immaginare più frequenti man mano che si accelereranno le tappe di un divorzio che non potrà certo rimanere vicenda privata – con un potere sempre solido e tuttavia fortemente indebolito, che lascerà alla fine l’Italia, sempre che regga economicamente, in pietose condizioni politiche e in una devastante situazione della morale pubblica, più bassa ancora rispetto ai tempi di Tangentopoli.

Un paese che avrà ulteriormente perduto il suo rango, depresso economicamente e moralmente, e retrocesso agli occhi della pubblica opinione internazionale. In condizioni più difficili, quindi, e comparativamente peggiori, di quando Berlusconi l’ha preso in mano.

L’era berlusconiana, nata in un tripudio di speranze e ottimismo, finirà male, dunque. Ma dovremo assaporarla fino alla fine. Come l’era Bush, del resto. Sperando che capiti anche a noi, alla fine, un Obama di cui non si vedono per ora le tracce. Ma senza avere le risorse che all’America sono venute dall’essere la prima potenza mondiale.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 24 luglio 2009, pp. 1-13

Né Pedro né Pedrocchi. Dieci suggerimenti a Zanonato

Né Pedro né Pedrocchi. Dieci suggerimenti a Zanonato (versione integrale)

Consigli non abbiamo titolo per darne. Proponiamo, semplicemente, dieci punti. Quel che ci piacerebbe accadesse. O che faremmo forse noi, al posto suo.

Primo. Se gli elettori hanno dato un consenso più basso di quello atteso, un motivo c’è sempre. Può essere in errori compiuti, in problemi di comunicazione, o semplicemente nella voglia di cambiare. In ogni caso, sarebbe bene ascoltarli. I politici non sono amati perché sono arroganti e troppo sicuri di sé, o fanno finta di esserlo. Sarebbe un bel colpo di scena chiedere scusa, umilmente: per quello che non si è riusciti a fare, per quando non si è stati ad ascoltare.

Secondo. Zanonato ha l’handicap di non incarnare il cambiamento. Far credere ed entusiasmare alla continuità è più difficile, anche se non impossibile. Imbellettarsi non sarebbe nel suo stile, ed è bene. Ma può fare l’atto di coraggio di circondarsi di giovani, di tecnici, di donne, di volti nuovi che non appartengano alla passata stagione. Qualcuno da salvare c’è. I migliori. Pochi. Gli altri li lasci perdere, senza rimpianti. Scarichi la zavorra. Faccia vedere i nuovi. E dica perché. Facendo vedere che ci crede.

Terzo. Passi all’attacco. Diretto, franco, duro. Faccia vedere tutte le debolezze dell’avversario. Faccia vedere che ha un’idea di città, che il suo avversario non ha e non farà in tempo a costruirsi. Dica con durezza che la città dell’avversario, in mancanza di idee, sarà quella dei poteri forti, dei costruttori, degli interessi di sempre: il bis della giunta Destro, così impresentabile nella sua pochezza che i padovani di destra, che l’avevano votata, l’hanno mandata a casa nell’ignominia, senza un bis, sapendo di aver buttato via molti soldi e molto tempo prezioso.

Quarto. C’è in città una destra più avanzata di chi la rappresenta. Più dinamica e più intelligente. Faccia appello a questi valori: al dinamismo, all’intelligenza, alla creatività. E a questa destra. Non insegua la destra più becera, invece, sul suo terreno. Su sicurezza e controllo Zanonato ha fatto abbastanza, e difficilmente altri avrebbero fatto di più e meglio. Non insista su questo. Chi doveva capire, ha già capito. E infatti la Lega va meno bene che altrove: perché il da fare si è fatto. Lasci i discorsi torvi e gli accenti bui sulla tolleranza zero a Marin. L’elettorato d’ordine, che ne vuole di più senza sapere cosa significa, resterà comunque con lui.

Quinto. Parli alla gente, non alle nomenklature. I padovani, pragmaticamente, hanno puntato sui due contendenti maggiori, lasciando che gli altri contassero meno del due di picche. Lasci perdere il mercato delle vacche, che tanto andranno dal miglior offerente, e chi può offrire di più è la destra, disposta a tutto pur di vincere. Li lasci a Marin, che li prenderà, perché tanto, senza un progetto, va bene tutto: contano solo i voti. Anche pochi e maledetti, ma subito. Non pensi ai partiti e ai dirigenti, che è un riflesso condizionato da prima repubblica. Parli ai loro elettorati. E alla gente: conta molto di più il 20% di chi non ha votato che le briciole di chi ha votato i partitini.

Sesto. Faccia sognare. Per esempio con un grande slancio culturale. La cultura è movimento, invenzione, un’idea del mondo, la voglia di sperimentarlo e di rappresentarlo. Vanti ciò che ha fatto. Ma sia capace di lanciare il cuore più lontano, di far immaginare una Padova che si muove, che non sta ferma come una morta gora. Proponga, inventi, lanci idee, o lanci un concorso per riceverle. Apra ai giovani, ai gruppi, all’attivismo: offra spazi, risorse, obiettivi. Va bene le grandi istituzioni culturali, che ci sono, ed è un merito. Come il San Gaetano, il castello carrarese, ed altro ancora. Ma ci vuole anima, in quei muri. L’errore è già stato fatto: pensare l’involucro senza sapere cosa ci si voleva mettere dentro. Lo si ammetta, e ci si butti molto ma molto più in là: il Beaubourg padovano è ancora lontano… E poi, ci vogliono gli eventi, le serate in piazza, la cultura diffusa, i festival. Bisogna spendere: sapendo dire ai padovani che è un guadagno. Economico, persino, visto che altrimenti il turismo cala. Innanzitutto per quei commercianti e operatori che votano a destra. La destra non ha né le idee né le competenze, in questo campo. O almeno non si sono ancora viste.

Settimo. Dica chiaro e forte che Padova vuole essere una città aperta, che se continua a chiudersi, a immeschinirsi, è una città che va a morire. Pensiamo ai giovani, agli studenti. Non si può non dire che questa città vive sugli studenti, li sfrutta, li spolpa, e poi, dopo le otto di sera, vorrebbe ramazzarli verso casa, per avere piazze pulite e felicemente vuote. Si dica che questa parte di città, provinciale e senza idee, è anche progettualmente ed economicamente inetta. La stessa che ha votato contro il tram per poi capire che era necessario, e farlo spendendo di più e realizzandolo peggio. Si faccia appello agli altri. Non è vero che non ci siano: è che non hanno voce, poteri forti, ceti parlanti, qualcuno che li ascolti. Si faccia appello agli astenuti, agli stufi, quelli per cui Zanonato o Marin pari sono, se nessuno dei due dice che vorrebbe una città dove si possa trovare almeno una pizzeria aperta dopo mezzanotte, per l’indigeno come per il turista, che altrimenti se ne va altrove. Ma una città aperta a tutti davvero, non privatizzata, nemmeno dai giovani. Con luoghi differenziati, con offerte culturali miste, capaci di mischiare anche pubblici e fruitori. Una città che non escluda nessuno. Giovani e anziani, amanti del rock, della classica e del jazz. Per animare le piazze, aprirle a tutti, anziché chiuderle, come vuole la mentalità di destra.

Ottavo. Dica ai padovani la necessità dell’integrazione, le opportunità della pluralità culturale. Cosa farne, degli immigrati che ormai ci sono. Cosa proporre. Che città auspicare. In cui le culture convivano. In cui ci si parli anziché chiudersi. In cui si costruiscano ponti anziché muri. Dica che gli stranieri comprano, pagano, affittano, puliscono e fanno compagnia ai vecchi delle famiglie del centro e delle periferie che poi firmano e votano per liberarsene. E dica anche, come ha dimostrato, che chi invece delinque ed è parassitario è giusto sia colpito: ma col bastone della legge, non con quello delle ronde. Dica onestamente che l’immigrazione porta anche problemi, oltre a risorse volentieri dimenticate, ma che i problemi vanno gestiti, non agitati come fa la destra: con delle soluzioni, non con volgarità ed esagerazioni che producono problemi ulteriori. Che l’integrazione è un investimento e un vantaggio: più intelligente e redditizio della criminalizzazione e del rifiuto. Si lascino le pulsioni xenofobe e le ottusità islamofobe a chi ne ha fatto una ragione di vita. E anche l’insistenza sullo sceriffo, la si lasci in un canto: Zanonato non ne ha il phisyque du rôle, dopo tutto. Ed è bene così. C’è una parte significativa di città che tutto questo l’ha capito.

Nono. Proponga un patto vero con l’Università., docenti e studenti Che è piena di risorse, di idee, di capacità, che ha al suo interno sacche di eccellenza importanti. Che potrebbero essere usate e non lo sono, a tutti i livelli, per progettare la nuova Padova: dalle tecnologie innovative al sociale, dalla cultura all’ambiente. La colpa di questo insufficiente incontro è per metà dell’Università. Ma le risorse, i docenti e gli studenti che non vedono l’ora di essere chiamati, e non per denaro, a lavorare per progettare il futuro della città, sono lì a disposizione, colpevolmente ignorati. La destra invece ha un complesso di rivalsa, con l’Università. Vuole umiliarla, anziché utilizzarla. E’ tempo di cambiare rotta. Anche a sinistra.

Decimo. Basta con il casino fine a se stesso. Ma basta anche con il perbenismo, bigotto e senza fede, dei vizi privati e delle pubbliche virtù. Per usare una metafora, che va al di là dei simboli evocati: né Pedro né Pedrocchi. Né le agitazioni senza prospettive, i furori anarcoidi, l’ego sproporzionatamente smisurato della protesta senza proposta (di cui sono esempio anche certi furori viscerali leghisti, comitateschi o bottegai), né una città bene educata e falsa, misera e vuota nei suoi finti splendori, più fumo che arrosto, più buone maniere che attenzione all’altro. Marin sembra incarnare il Pedrocchi, del cui simbolo probabilmente si farebbe vanto. Zanonato è lontano anni luce dal Pedro. In posizione migliore, dunque, per farsi interprete di quella gran parte di città che sta nel mezzo.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 13 giugno 2009, pp. 1-17