Se la cultura passa all'agricoltura…
Di tutti gli aspetti del cosiddetto “decreto dignità” che hanno fatto discutere, suscitando plauso quasi corale (come le restrizioni alla pubblicità per il gioco d’azzardo) o forti polemiche (come gli irrigidimenti al mercato del lavoro, contestati dall’imprenditoria veneta ma apprezzati dal sindacato), ce n’è uno che è passato quasi sotto silenzio, ma che dovrebbe invece far riflettere, e molto: il passaggio delle competenze sul turismo dal ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Mibact, che ora perde la T – al ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali – Paaf.
Sarà che molti non se ne sono quasi accorti, occupati ad analizzare il resto. Sarà che effettivamente c’è una parentela etimologica, che tuttavia pochi conosceranno: cultura deriva dal latino colere, coltivare – perché, anche se pochi lo fanno, pure la mente andrebbe coltivata di continuo, e la riflessione è frutto di un’opera di scavo, che chi predilige la superficie non conosce. Ma la scelta, strategica per il paese, e proprio perché tale, meriterebbe ben altra attenzione. Mentre si ha la sensazione che la decisione abbia carattere essenzialmente tattico: di lottizzazione interna al governo per riequilibrare i pesi dei rispettivi partiti (passando competenze dai pentastellati ai leghisti), e di corrispondere ai desiderata del ministro dell’agricoltura Centinaio, alfiere di questa idea.
Siamo perfettamente d’accordo che l’agricoltura, e con essa il paesaggio, siano parte fondamentale – e, è vero, sottovalutata – del patrimonio culturale del nostro paese. Siamo altresì convinti che nuove forme di turismo, più legate di quanto accada ora al repertorio enogastronomico italiano e alle sue tipicità, vadano supportate, e rappresentino un cespite importante e incrementabile. Siamo molto più dubbiosi, invece, nello slegare il turismo dalla promozione del gigantesco patrimonio storico-culturale italiano, che rischia così di essere ulteriormente marginalizzato, e diventare una sempre più irrilevante cenerentola.
Diciamo spesso che proprio il nostro patrimonio culturale è il nostro petrolio, la nostra vera ricchezza: l’arte, l’architettura, la storia, la religione… Ed è vero. Forse vale la pena di ricordare che è esso, insieme al paesaggio (mare, lago, montagna), a spingere i turisti da noi: che poi mangiano e bevono – anche. Non è il contrario.
Semmai, se proprio si vuole investire – come si dovrebbe – sul turismo, occorrerebbe un ministero ad hoc. O, se deve diventare un ministero del made in Italy (“un ministero di marketing importantissimo”, nelle parole di Centinaio, prima ancora che il trasferimento di competenze avvenisse), dovrebbe stare tra le competenze del ministero dello sviluppo economico, come suo settore privilegiato. Ci inquieta, invece – e non per snobismo, ma proprio per consapevolezza delle diverse specificità della produzione culturale, del passato e di oggi – che la promozione turistica italiana si basi su prodotti e ristoranti (se va bene, sul paesaggio). E che passino in secondo piano cattedrali e musei, castelli e biblioteche, storie e tradizioni, patrimonio archeologico e folklore, e pure la produzione di arte contemporanea (musica, teatro, cinema, letteratura, arti plastiche e figurative) rispetto all’incoraggiamento del consumo di prosecco e asiago, di radicchio o di vialone nano: per farla breve, anche ciò che non si commercia al Vinitaly e non si vende da Eataly. Tutto il resto, infatti, è “solo” la storia e la cultura d’Italia, spesso ignorata dagli stessi italiani: “prodotti”, per stare al Veneto, come Palladio o Piranesi, Mantegna o Tiepolo, Ruzante o Goldoni, Vivaldi o Albinoni, Marco Polo o Casanova, ma anche le espressioni contemporanee della creatività artistica, o semplicemente i luoghi storici e le città d’arte, a cominciare naturalmente da Venezia – dove si può persino fare qualche altra cosa, oltre che mangiare in un bacaro e bere uno spritz.
Cultura che si mangia. Se per decreto la cultura passa all’agricoltura, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 luglio 2018, editoriale, p.1