L'imam, la cittadinanza e la parità di genere

La costituzione italiana sancisce la parità tra uomo e donna in maniera forte. Come recita l’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Gli articoli 37, 51 e 117 specificano ulteriormente: sostenendo l’accesso al lavoro con “gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni” (art 37);  e promuovendo l’accesso “agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza”, favorendo “le pari opportunità tra donne e uomini” (art 51 e 117).
Questo principio in Italia è universalmente applicato? Con tutta evidenza, no: non avremmo differenze salariali e non si porrebbe il bisogno di promuovere quote rosa, come si dice con espressione in fondo sessista, se fosse così. E’ condiviso da tutti i cittadini? Purtroppo no: non avremmo femminicidi, stupri e violenze domestiche, ma nemmeno barzellette o retropensieri sull’inferiorità femminile, e certo machismo e virilismo, diffusi in molti settori, dallo sport alla politica, dal turismo (sessuale) all’obbligo di firma di dimissioni in bianco in caso di maternità in alcuni settori del mondo del lavoro, se fosse così.
Basterebbero delle affermazioni sull’inferiorità femminile e la contrarietà alla parità per espellere chi le esprime dal patto sociale? In un certo senso ci piacerebbe pensarlo: vorrebbe dire che la parità sarebbe finalmente acquisita per tutti. Dall’altro significherebbe una coartazione potenziale di alcune libertà fondamentali, a cominciare da quelle di pensiero e di espressione, anche se relative a opinioni che non condividiamo o che aborriamo.
L’espulsione di un responsabile religioso musulmano in Veneto a seguito del suo rifiuto di giurare sulla costituzione italiana – dopo che lui stesso aveva presentato richiesta di cittadinanza, finalmente giunta al suo compimento – perché in contrasto con la sua interpretazione rigorista salafita del credo religioso islamico, in quanto sancisce la parità di genere, si pone sul crinale che abbiamo delineato. La sicurezza in questo caso non c’entra: semmai, è in gioco una questione ancora più importante – valoriale, di principio. Da un lato esprime chiaramente un segnale che il governo, nella persona del ministro dell’interno Alfano, vuole mandare ai responsabili musulmani: non sono considerati tollerabili messaggi culturali discriminanti sulle questioni di genere, tanto più se espressi a livello di leadership religiosa. Dall’altro, in termini di cultura liberale, cui il nostro diritto si ispira, qualche problema si pone: perché significa punire un’opinione, non un comportamento, una credenza, non una fattispecie di reato. Per capirci: un italiano con le stesse opinioni e pratiche sociali, appartenente ad altro contesto (religioso o meno), non sarebbe perseguibile.
Crediamo che il messaggio sia anche indiretto: colpire una corrente di pensiero organizzata, il salafismo, che sta facendo fare passi da gigante – indietro – alla cultura religiosa islamica, in particolare proprio sulle questioni di genere: promuovendo, come tratto identificativo della propria religiosità, il niqab (il velo che copre anche parte del viso), una rigorosa separazione di genere nello spazio pubblico, e comportamenti oggettivamente discriminatori nei confronti delle donne (per esempio rispetto all’istruzione e al lavoro). La loro presenza ai vertici di talune associazioni islamiche locali pone dei significativi ostacoli ai processi di integrazione dei musulmani – che si trovano talvolta a subirli, più che a seguirli – favorendo la chiusura intracomunitaria e producendo anche significativi conflitti interni.
Tra le comunità islamiche è probabile che la lettura sia duplice: il sollievo di chi non è d’accordo con costoro, e sono la grande maggioranza (per non parlare di chi chiede la cittadinanza, di solito in nome di principi di maggiore libertà e tutela dei diritti); e la preoccupazione per quello che può essere letto come un trattamento differenziato, non più relativamente al genere, ma alla diversità religiosa e di opinioni, anch’essa tutelata dall’art 3.
Non sarà l’espulsione di un imam a chiudere la questione. Semmai potrà aprirla: in termini culturali, prima ancora che giuridici – di discussione fuori e dentro le comunità islamiche del nostro paese. E, possibilmente, insieme.
Il crinale tra diritti e religione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 settembre 2016, editoriale, p.1