La radicalizzazione jihadista in Italia
Il primo settembre la presidenza del consiglio dei ministri ha insediato una commissione sulla radicalizzazione jihadista in Italia, di cui fa parte il prof. Stefano Allievi, editorialista del nostro giornale. Gli abbiamo chiesto una riflessione sul suo ruolo e il fenomeno che deve analizzare.
L’intelligence non basta. Serve, ovviamente. Ma per cercare di limitare al massimo i danni del terrorismo jihadista (sconfiggerlo del tutto, sul breve termine, non sarà possibile) e per prevenirne ulteriori sviluppi, occorre anche una risposta d’altro genere: conoscitiva, interpretativa, culturale. E’ questo il mandato che ha ricevuto la Commissione sulla radicalizzazione jihadista in Italia, voluta dal premier Renzi. L’ha spiegato lui stesso al suo insediamento. Indagini, follow the money, informazioni: ma anche investimento educativo, attenzione alle periferie, battaglia culturale.
I 19 esperti nominati dal governo hanno un compito preciso e circostanziato: mettere a disposizione le proprie competenze, metterle in rete con studiosi di altri settori (all’interno ci sono sociologi, politologi, islamologi, esperti di sicurezza, ma anche psicologi, giuristi e giornalisti, essendo anche quella della comunicazione e del web una parte importante della questione) e produrre nel giro di 120 giorni un report con una analisi dettagliata e raccomandazioni operative chiare, da mettere a disposizione del governo stesso, dell’opinione pubblica, e del parlamento, che in questo periodo dovrà affrontare un progetto di legge proprio sulla prevenzione della radicalizzazione nel paese.
I fattori in gioco sono molti: le variabili geopolitiche, i diversi contesti nazionali (di provenienza e di arrivo), i tratti psicologici di militanti e simpatizzanti, il quadro politico, il tipo di migrazione e il suo radicamento, il periodo di arrivo, il passaggio generazionale. Ma alcune peculiarità del jihadismo made in Italy sono già individuabili.
Intanto, nonostante le continue minacce di Dabiq, la rivista di Daesh – che nell’ultimo numero vede in copertina un miliziano che abbatte la croce di una chiesa ed esplicite minacce a Papa Francesco – Italia e Vaticano non hanno ancora subito attentati particolarmente gravi, e il numero di foreign fighters partiti per il cosiddetto Stato islamico è molto inferiore ad altri paesi europei. Senza crogiolarci in facili ottimismi (potremmo essere smentiti domani…), alcune ragioni sono già probabilmente individuabili. Una presenza islamica più recente, e una minore presenza di seconde generazioni in situazione di disagio e marginalità sociale; la mancanza di una immigrazione in cui alligni risentimento post-coloniale (da ex-colonie non abbiamo praticamente immigrati); una maggiore dispersione sul territorio, e l’inesistenza di banlieues di diseredati o di ‘Molenbeek italiane’; una forte presenza nelle città medie e piccole, dove è più facile conoscersi personalmente, e quindi di un livello di integrazione accettabile; un buon livello di collaborazione con le leadership islamiche; la stessa esistenza di un islam politico organizzato tradizionale (legato ai Fratelli Musulmani o a certo neosalafismo), che può creare problemi d’altro genere, ma incanala lo scontento di potenziali esaltati altrove rispetto al terrorismo; infine l’efficacia di prevenzione e repressione, che ci sono state e hanno avuto un ruolo. I pericoli tuttavia ci sono. In passato sono venuti soprattutto da taluni predicatori itineranti (su cui oggi c’è maggiore vigilanza anche dall’interno dell’islam), ma continuano a venire dal web, da alcune frange di scontento giovanile, dalle carceri, e dagli stessi foreign fighters partiti in questi anni, che fungono da catalizzatori e da potenziale minaccia di ritorno.
E’ su tutte queste cose che lavorerà la commissione. Il fatto che nasca non sull’onda dell’emotività a seguito di un attentato, e nemmeno per la pressione dell’opinione pubblica o delle forze politiche, ma a seguito di una precisa esigenza di governo, e con un mandato definito e a tempo (si tratti di persone che non svolgono alcun ruolo istituzionale, e non retribuite, a garanzia di un lavoro indipendente e senza secondi fini), dovrebbe essere un ulteriore fattore di garanzia e serietà.
Una commissione sul radicalismo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 settembre 2016, editoriale, p.1