Il sindaco Bitonci e la polemica contro l'islam
Il sindaco Bitonci, in un’ampia intervista “natalizia” (ma per molti non è stato un bel regalo…), è intervenuto ancora una volta sul tema a lui prediletto del suo rapporto con l’islam: e forse vale la pena di sottolineare il ruolo del pronome possessivo, e non per un vezzo grammaticale, ma perché in quanto afferma vi è molto di personale e assai poco di oggettivo.
Non sono musulmano, e non scrivo quindi per fatto personale. Ma, da sociologo, mi occupo di musulmani da un quarto di secolo; presso l’università di Padova, la stessa città che Bitonci provvisoriamente governa, dirigo un master sull’islam in Europa e ho co-progettato un corso di laurea magistrale, dove insegno, che ha al suo centro il rapporto tra culture; e di queste cose ho provato a fare professione, in Italia e fuori: con qualcosa di personale, probabilmente, ma tentando di metterci anche molto di oggettivo.
Provo dunque a fare un tentativo di esegesi delle parole del sindaco. Non prima di aver notato che è molto interessante conoscere le idee di un sindaco su questo o quel problema: ma il mestiere del sindaco è governare una città – che, può piacere o meno, include alcune migliaia di musulmani, una parte dei quali cittadini italiani e padovani per nascita (e sempre di più saranno tali in futuro). Che hanno bisogno e diritto, anch’essi, di essere governati: alla pari di tutti i cittadini. E veniamo all’analisi delle parole del sindaco.
“Il tema di questa società non è la battaglia dei veneti contro i rumeni, il tema è il Cristianesimo contro l’Islam. Adesso c’è l’Europa contro l’Islam”. Ne siamo sicuri? Davvero siamo in guerra senza che ce l’avessero detto? O questa guerra è nella testa di alcune persone (sindaco incluso) ma non nei fatti? Oggi l’islam è presente in Europa nella persona di circa 18 milioni di individui: lavoratori, studenti, talvolta rifugiati, in buona parte famiglie e dunque donne e bambini inclusi, in misura crescente seconde generazioni nate e socializzate in Europa. Sono i nostri compagni di lavoro, i compagni e le compagne dei nostri figli a scuola, in qualche caso le nostre nuore o i nostri generi: siamo in conflitto con loro? E’ vero: c’è qualche musulmano che si sente in guerra contro di noi, o contro il mondo, inclusi i suoi correligionari (nei giorni scorsi, a Sidney, uno di loro ha ammazzato due australiani, e a Peshawar hanno ammazzato più di 130 bambini, peraltro musulmani anche loro. Noi con chi stiamo? Contro gli assassini, d’accordo. Anche contro le vittime?). Questi che ci odiano, dobbiamo combatterli, dobbiamo difenderci da loro, d’accordo: ma gli altri? Non sarebbe meglio averli come nostri alleati, contro coloro che odiano così tanto da uccidere anche i loro fratelli?
“Questa integrazione (dei musulmani, ndr) è giusta o no? Io sono dell’idea che è difficilissima perché la separazione tra islam moderato e islam estremo è molto sottile”. Io invece, occupandomene da anni, sono convinto che l’integrazione è difficile nella misura in cui la rendiamo difficile: e lo fanno sia alcuni leader e gruppi musulmani, sia alcuni leader e gruppi e sindaci non musulmani (i secondi molto più numerosi dei primi, in Europa, come mostra il consenso elettorale crescente nei confronti dei partiti xenofobi e islamofobi). In realtà non c’è nemmeno un indicatore che ci dica che i musulmani si integrano meno, che so, dei sikh o degli evangelici asiatici o degli hindu o degli ortodossi dell’est o dei cattolici africani: che si tratti di riuscita o di abbandono scolastico, di tassi di disoccupazione o di imprenditorialità, di livelli di benessere o di pagamento delle tasse, di mortalità infantile o di presenza nelle carceri, di matrimoni misti o di iscrizioni all’università, nessun indicatore separa i gruppi religiosi dagli altri. Semmai separa classi sociali, livelli di alfabetizzazione. E, all’interno delle religioni, alcuni gruppi etnici da altri. E all’interno di questi, appunto, livelli di istruzione e di reddito: a testimonianza che non è la religione il discrimine – e chi discrimina sulla base della religione commette quindi un grossolano errore di analisi. Il fatto che poi la separazione tra islam moderato e estremo, ammesso che abbiano senso queste etichette e coprano l’intero universo di riferimento (c’è anche chi non è credente, o praticante, o semplicemente non vive la fede come l’unico o il principale elemento di costruzione identitaria, né più né meno di quanto accade a ciascuno di noi), sono semplicemente opinioni: a supportare le quali non ci sono dati di fatto, ma semplicemente altre opinioni. Il fatto che queste opinioni, condivise legittimamente da molti, vengano considerate plausibili, non le rende tali per questo solo fatto. C’è chi crede che discendiamo dai Celti, o che le scie chimiche abbiano effetti devastanti: è implausibile in entrambi i casi, ma tra chi ci crede è verità di fede. Con nulla di oggettivo a sostegno.
“Non si può dire che ci sono musulmani moderati: nella loro religione e nel loro modo di ragionare il cristiano rimarrà sempre un infedele, uno da occupare e convertire a tutti i costi. Non è una religione, la loro, che va verso l’integrazione con chi non è islamico: loro vogliono sempre predominare”. Prima dice che è difficile distinguere tra moderati e radicali: poi, direttamente, che non ci sono moderati. Così, come se fosse un dato, come se questo facessero i musulmani che incontriamo: cercare di convertirci a tutti i costi (è incredibile che io, che ne ho incontrati così tanti in questi anni, non me ne sia mai accorto. Devo essere proprio distratto… Ma so che anche questa argomentazione non incrina le granitiche certezze di chi ha costruite le proprie fortune sulla polemica nei confronti dell’islam: di solito, ti rispondono che se i musulmani non sono come dicono loro, vuol dire che non sono buoni musulmani…). Quanto all’integrazione, ancora una volta: sarebbe credibile, se i livelli di integrazione li misurasse la religione. Non è così. Per dire, nella percezione comune, anche di molti che la pensano come il sindaco, i cinesi sono accusati di avere livelli di mancata integrazione e di impermeabilità altissimi: e non sono musulmani. Non vogliamo buttare la croce – e nemmeno il crocifisso, come fanno altri – dall’uno all’altro: è solo per dire che bisogna analizzare gli indicatori corretti, per trovare risposte sensate. E non le troveremo nella religione. Se non in alcuni casi, che non giustificano uno stigma generalizzato.
Infine. “Non concedo spazi della città ai musulmani, perché dare aperture vuol dire che passa un messaggio che l’islam va bene qua da noi, e secondo me non va bene”. Ci pare che il “secondo me” sia la problematica chiave di volta di tutto il ragionamento: può essere legittimo per ciascuno di noi in qualità di privato cittadino, e quindi anche per Massimo Bitonci come individuo. Ma un sindaco non può governare “secondo me”, ma secondo la legge e il buon senso. La prima, fin dalla Costituzione, afferma il diritto alla libertà religiosa. Vale per tutti tranne che per i musulmani? In quel caso siamo noi a violare la legge. Quanto al secondo, crediamo che la città sia di chi vi abita e di chi vi paga le tasse: se alcuni cittadini vogliono pregare in forme e modi che secondo il sindaco sono sbagliati, non significa che lui possa o debba intervenire per impedirlo. Fino a prova contraria, il discrimine è il rispetto della legge, e la sua universalità: o vale per tutti, o semplicemente non ha alcun fondamento. Infine, è giusto, è utile, governare “contro” alcuni propri concittadini che non vìolano alcuna legge? Dar loro l’impressione, che è più che tale, che non sono benvenuti? Spingere anche i migliori tra loro nella stessa categoria interpretativa dei peggiori? Lavorare, in definitiva, per la mancata integrazione e la non inclusione? Creare conflitti anziché risolverli? Essere un sindaco contro anziché un sindaco per? Ha un senso tutto ciò? Nell’interesse della città, crediamo di no. E crediamo che almeno una moratoria sul linguaggio “anti”, una tregua sulle opinioni e sulle pratiche discriminatorie, da parte di chi sta ai vertici delle istituzioni, sarebbe un auspicabile regalo, e non solo per Natale. Per un futuro condiviso, e il meno conflittuale possibile.
Questa storia del prendersela con alcune categorie indifferenziate di persone, tanto per indirizzare la rabbia da qualche parte, l’abbiamo già sentita, ne conosciamo gli esiti, e non ci piacciono per niente. Si chiama capro espiatorio: e la sua storia non è mai nobile. Che è un modo gentile per dire che è ignobile…