Farah e le altre: ciò che serve, ciò che non serve
La vicenda di Farah, la ragazza diciannovenne di Verona appena tornata dal Pakistan, dove era stata portata dalla famiglia, e da dove ha chiesto di essere riportata in Italia, ci è utile, per parlare di vicende che non sono la norma, ma sono gravi, si ripetono, e vanno affrontate.
Non serve schierarsi tra innocentisti e colpevolisti. Che Farah fosse prigioniera della famiglia, che l’ha costretta ad abortire e voleva farla sposare a un connazionale contro la sua volontà, o volesse semplicemente vivere la sua vita e la sua libertà in Italia, il problema cambia solo in drammaticità, non nella sostanza. Il fatto che oggi ci sia stato il lieto fine, anziché un cadavere da piangere, ci consente di affrontare il problema – che c’è, e va affrontato e discusso – con più serenità. Non per trovare un colpevole, ma una ricetta.
C’è un problema culturale nel rapporto tra genitori e figli, in alcune comunità immigrate? Certo, c’è spesso, è forse inevitabile che ci sia, e caratterizza le storie di migrazione da sempre: anche quando a emigrare eravamo noi. Culture diverse, che si trapiantano in un terreno nuovo, in mezzo ad altre culture. I figli crescono in un ambiente diverso da quello dei genitori, con valori e stili di vita differenti, spesso acquisendo un livello di istruzione più elevato. Normale che ci siano anche tensioni, e dissonanze cognitive. Che si possono affrontare e risolvere. Mettendo alcuni punti fermi.
Non ci può essere pretesa di vivere qui come si viveva altrove. Come spesso hanno risposto i figli di immigrati ai loro genitori: se volevi farmi vivere come a casa (a casa tua, del genitore, perché la casa del figlio è qui), perché sei emigrato? Occorre quindi il rispetto delle regole di convivenza civile dominanti, e in primis della legge. La maggior parte delle persone si adegua, in maniera ovvia e naturale. Se qualcuno non vuole farlo, può sempre tornarsene da dove era venuto. Non si tratta di obbligare nessuno all’omologazione culturale: viviamo in un contesto giuridico e sociale che consente ampie forme di diversità, compatibili con il rispetto della propria identità e delle leggi (un discorso che non riguarda solo gli immigrati, peraltro). Ma ci sono dei principi di fondo imprescindibili, dei diritti inalienabili: e questi vanno rispettati. E insegnati: anche all’interno delle comunità. Altrimenti si è fuori dal patto sociale. E se ne paga il prezzo.
E’ inaccettabile qualsiasi forma di copertura: o, peggio, di omertà. C’è bisogno di valorizzare le voci coraggiose che, dall’interno delle comunità, denunciano le difficoltà e le storture, aiutando nel concreto a risolvere i problemi. Con l’aiuto delle istituzioni e in collaborazione con esse. Se la scuola si attiva, o in una famiglia arriva l’assistente sociale, non è una intromissione indebita né un problema, ma un pezzo dello soluzione: prima che sia troppo tardi, e ad arrivare sia il giudice. E non è ammissibile che, di fronte alla denuncia di un fatto, si reagisca con la chiusura intracomunitaria o con il vittimismo: ce l’hanno con noi, sono razzisti, islamofobi… Anche perché delle responsabilità, anche interne, spesso ci sono: nel modo in cui si descrive l’altro, le altre religioni, i costumi e le morali altrui. Farah si è salvata grazie alle sue relazioni sociali nell’ambiente (le amiche, la scuola) e all’intervento tempestivo delle istituzioni: è in esse che riponeva la sua fiducia – e questa dovrebbe essere materia di riflessione, per le comunità.
D’altro canto, sul lato autoctono della questione, queste vicende non dovrebbero essere usate per colpire indebitamente una comunità (i pakistani), una categoria (gli immigrati) o una religione (l’islam), come troppi fanno: di picchiare le figlie, o di obbligarle a sposarsi come vogliono i genitori, non c’è scritto nel Corano né nella costituzione pakistana, e non dipende dall’essere nato altrove (del resto non c’è neanche nel Vangelo e nella costituzione italiana, ma alcuni lo fanno). Si può denunciare un problema senza attribuirlo a tutti. Ci si attivi invece per disinnescare i conflitti, e aiutare la crescita di consapevolezza di quanto accade, affinché vicende così dolorose non si ripetano. Solo così aiuteremo veramente i soggetti deboli, e le vittime, come spesso diciamo di voler fare ma più di rado facciamo.
Farah e la sua comunità, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 maggio 2018, editoriale, p.1