Bitonci vs Ebola: propaganda e mistificazioni

E’ l’applicazione agli esseri umani del principio di precauzione evocato ai tempi della mucca pazza: non mangiare bistecche, per non rischiare di essere contagiati. Ma – a differenza che in quel caso – senza alcun fondamento scientifico, senza alcuna copertura autorevole (l’Unione Europea o l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per dire), senza alcuna ragionevolezza sociale, e con uno scopo esclusivamente propagandistico.
All’inizio era stata questa, la proposta di Bitonci, lanciata con un video e un post sulla sua pagina facebook: imporre, in qualità di massima autorità sanitaria locale, con la scusa di Ebola, l’obbligo, da parte dei cittadini provenienti da una non meglio specificata “area africana” (ovvero per i provenienti da un intero continente: dal Sudafrica alla Tunisia, dal Senegal all’Egitto – quasi i due terzi degli immigrati in città), di portare con sé un certificato medico in grado di attestare la loro buona salute, pena l’applicazione del divieto di dimora. Poi devono avergli spiegato che era un’inapplicabile e pericolosa assurdità, e si è limitato a chiedere ai sindaci veneti di non accettare profughi che non abbiano il suddetto certificato. Il che, essendo tutti i profughi già ampiamente visitati in appositi centri, è semplicemente un vuoto nulla senza conseguenze. Ma il messaggio comunque è passato.
La prima proposta era nel contempo inutile e vessatoria. Inutile, perché il contagio potrebbe venire anche da un cittadino italiano – o di qualsiasi altro paese – di ritorno da quelle zone, e anche solo in transito, che non sarebbe stato sottoposto all’ordinanza. Vessatoria e discriminante, perché si sarebbe tradotta in una ulteriore e sgradevole complicazione della vita degli immigrati. Avremmo voluto vedere all’opera, a quel punto, i controlli nelle scuole, nei posti di lavoro, nei luoghi di ritrovo degli immigrati e nei loro negozi, per strada, sugli autobus, magari su denuncia di un cittadino zelante o di un vicino impaurito o semplicemente xenofobo. E ci domandiamo come avrebbero potuto distinguere, i poveri vigili urbani e le povere forze dell’ordine, nei cui panni non avremmo proprio voluto essere, un bimbo straniero da uno adottato ma di colore, un cittadino africano appena immigrato da uno che non si muove dall’Italia da anni, uno con permesso di soggiorno da uno con cittadinanza.
La seconda proposta, quella riveduta e corretta, è invece solo inutile. Ma, è evidente, lo scopo è solo quello di lanciare messaggi obliqui, o proseguire un’inutile campagna elettorale (fuori tempo, visto che ha già vinto le elezioni), capitalizzando in visibilità. E in questo il sindaco è riuscito nella sua opera. Da oggi le persone con la pelle più scura della sua saranno maggiormente malviste: e il coro di consensi che ha accompagnato la sua uscita (accompagnato da dissensi: tutti provenienti, purtroppo, dal campo politico a lui avverso, e quindi scontati) ne avrà probabilmente rafforzato l’immagine, almeno tra i suoi sostenitori.
Il risultato ottenuto, comunque, è più simile al procurato allarme, che alla tutela da un allarme sociale. E non è questo che ci saremmo aspettati da un sindaco. Ma forse è solo un tassello ulteriore – insieme ad altre iniziative contro gli immigrati, le loro attività economiche e il loro credo religioso, magari usando polemicamente i simboli di un altro – di quello che potremmo chiamare bitoncianesimo: una specie di eresia pseudo-cristiana, mossa da furore ideologico contro il diverso, con significative ricadute culturali, ma forse senza troppo gravi effetti pratici. Che servono a forgiare un’identità “contro” di cui non è ancora chiaro l’obiettivo “per”: a meno che non sia la mancanza di “per” a rendere necessario, ciclicamente, l’utilizzo di argomenti “contro”. Tanto per fare un po’ di fumo, in modo da non far vedere l’arrosto, o la sua mancanza. Del resto, è a questo che servono i capri espiatori: a parlare d’altro.
Il sindaco che fa propaganda, in “Mattino” Padova, “Tribuna” Treviso, “Nuova” Venezia, “Corriere delle Alpi”, 16 settembre 2014, p. 1