Scheda

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Stefano Allievi è nato a Milano nel 1958, dove si è laureato in Scienze politiche nel 1992. Ha conseguito a Trento nel 1997 il titolo di Dottore di Ricerca in Sociologia e ricerca sociale. Dal 1998 lavora presso l’Università degli Studi di Padova, dove è attualmente professore ordinario di Sociologia presso il Corso di Laurea in “Scienze sociologiche”. Dal 2001 al 2007 è stato Segretario della sezione Sociologia della Religione dell’Associazione Italiana di Sociologia (AIS). Dal 2013 è stato presidente del corso di laurea magistrale in Sociologia, e ne ha promosso la trasformazione. Nel 2014 è stato co-promotore, e nel periodo 2015-2019 presidente del corso di laurea magistrale interclasse in “Culture, formazione e società globale”. Nel 2020 ha progettato un nuovo corso di laurea magistrale in “Pluralismo culturale, mutamento sociale e migrazioni”, di cui dal 2021 è presidente, e all’interno del quale tiene un insegnamento di “Pluralismo sociale e conflitti culturali”. Dal 2015 al 2017 è stato direttore del Master sull’Islam in Europa dell’Università di Padova. Dal 2017 al 2020 è stato direttore del Master in “Religion, Politics and Citizenship” (in inglese e in arabo), in collaborazione con l’Instituto de Investigaciones y Estudios Superiores de Granada, l’Università del Piemonte Orientale e il FIDR (Forum Internazionale Democrazia e Religioni), e dal 2019 del Master in Studi sull’Islam d’Europa. Dal 2021 dirige un Master internazionale in “Religion, Politics and Global Society”. Da gennaio 2016 è membro del Consiglio per le relazioni con l’islam italiano presso il Ministero dell’Interno. Da settembre 2016 al 2017 è stato membro della Commissione di studio sul jihadismo e la prevenzione della radicalizzazione presso la Presidenza del consiglio dei ministri.

Prima di entrare nel mondo accademico, ha svolto attività giornalistica come giornalista professionista (dal 1981) e come operatore sociale e sindacale, svolgendo nel contempo attività di ricerca. E’ stato per molti anni editorialista dei quotidiani regionali del gruppo Espresso-Repubblica (in particolare “Il Piccolo” di Trieste, il “Messaggero veneto” di Udine, “Il Mattino” di Padova – per il quale ha tenuto per anni il blog “Appunti dalla crisi italiana”, “La Nuova” di Venezia, “La Tribuna” di Treviso, il “Corriere delle Alpi”, “Il Tirreno” di Livorno), e lo è oggi del “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, dove tiene anche il blog “ApertaMente”, e del “Corriere Imprese Nordest”.

E’ specializzato nello studio dei fenomeni migratori, in sociologia delle religioni, e in studi sul mutamento culturale e politico in Europa, con particolare attenzione al pluralismo culturale e religioso, e in specifico alla presenza dell’islam.

Al di là degli impegni accademici, svolge un’ampia attività di divulgazione e di animazione sociale e culturale; e coltiva in parallelo una passione di lungo corso per la poesia.

Ha diretto e partecipato a programmi di ricerca sui temi della pluralità culturale e religiosa in Italia; ha partecipato altresì a numerosi programmi di ricerca internazionali.

E’ autore di oltre un centinaio di pubblicazioni in vari paesi (v. lista pubblicazioni in questo sito), e di numerosi articoli e interviste su dibattiti di attualità. Suoi testi sono stati tradotti in varie lingue europee, in arabo e in turco. Tra i suoi volumi, oltre a numerosi saggi pubblicati in testi curati da altri, ricordiamo:

  • Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento, Torino, UTET, 2021
  • La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro, Roma, Laterza, 2020
  • 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare), Roma, Laterza, 2018
  • Punti di vista. Sociologia delle cose, e di altre cose, Ronzani Editore, 2018 (poesie)
  • Immigrazione. Cambiare tutto, Roma, Laterza, 2018
  • I musulmani nelle società europee. Appartenenze, interazioni, conflitti, (a cura di S. Allievi, R. Guolo e M.K. Rhazzali), Milano, Guerini e Associati, 2017
  • Il burkini come metafora. Conflitti simbolici sull’islam in Europa , Roma, Castelvecchi, 2017
  • Conversioni: verso un nuovo modo di credere? Europa, pluralismo, islam, Napoli, Guida Edizioni, 2017
  • Nel mondo dei qualsiasi (poesie), San Cesario di Lecce (LE), Manni Editori, 2016
  • “A Dio appartengono i nomi più belli”. Come pregano i musulmani, Bologna, EDB, 2016
  • Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con G. Dalla Zuanna), Roma, Laterza, 2016
  • Chi ha ucciso il PD (e cosa si può fare per salvare quel che ne resta), Milano, Mimesis, 2013
  • Ma la moschea no… I conflitti sui luoghi di culto islamici (a cura di S. Allievi), Padova, Le Gru, 2012
  • Pubblico e privato. Poesie civili e incivili, Padova, Le Gru, 2012
  • Il giorno dopo. Poesie, Padova, Le Gru, 2012
  • Avrupa’da Müslüman Öznenin Üretimi: Fikirler, Bilinçler, Örnekler, (traduzione di Producing Islamic Knowledge), Istambul, Iletisim, 2012
  • Producing Islamic Knowledge. Transmission and dissemination in Western Europe (a cura di M. Van Bruinessen e S. Allievi), London-New York, Routledge, 2011
  • La guerra delle moschee. L’Europa e la sfida del pluralismo religioso, Venezia, Marsilio, 2010
  • Mosques of Europe. Why a solution has become a problem (a cura di), London, Alliance Publishing Trust / Network of European foundations, 2010
  • Al-Islâm al-Itâlî. Rihla(t) fî waqâ’i’ al-diyâna al-thâniya, (traduzione di Islam italiano), Abu Dhabi, Kalima, 2010
  • Conflicts over Mosques in Europe. Policy issues and trends, London, Alliance Publishing Trust / Network of European Foundations, 2009
  • I musulmani e la società italiana. Percezioni reciproche, conflitti culturali, trasformazioni sociali (a cura di), Milano, Franco Angeli, 2009
  • Le trappole dell’immaginario: islam e occidente, Udine, Forum, 2007
  • Pluralismo, Bologna, EMI, 2006
  • Niente di personale, signora Fallaci. Una trilogia alternativa, Reggio Emilia, Aliberti, 2006
  • Ragioni senza forza, forze senza ragione. Una risposta a Oriana Fallaci, Bologna, EMI, 2004
  • Muslims in the Enlarged Europe (a cura di B.Maréchal, S.Allievi, F.Dassetto, J.Nielsen), Leiden-Boston, Brill, 2003
  • Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Torino, Einaudi, 2003
  • Salute e salvezza. Le religioni di fronte alla nascita, alla malattia e alla morte, Bologna, EDB, 2003
  • Muslim Networks and Transnational Communities in and across Europe (a cura di S.Allievi e J.Nielsen), Leiden-Boston, Brill, 2003
  • Donne e religioni. Il valore delle differenze (a cura di), Bologna, EMI, 2002
  • Musulmani d’occidente. Tendenze dell’islam europeo, Roma, Carocci, 2002
  • La tentazione della guerra. A proposito di Occidente, islam ed altri frammenti di conflitto tra culture, Milano, Zelig, 2001
  • Un Dio al plurale. Presenze religiose in Italia (con Gustavo Guizzardi e Carlo Prandi), Bologna, EDB, 2001
  • Il libro e la spada. La sfida dei fondamentalismi (con David Bidussa e Paolo Naso), Torino, Claudiana, 2000
  • I nuovi musulmani. I convertiti all’islam, Roma, Edizioni Lavoro, 1999
  • Islamica. Un itinerario bibliografico alla scoperta dell’Islam, Carpi, Biblioteca comunale, 1999, (agg. 2002)
  • Les convertis à l’islam. Les nouveaux musulmans d’Europe, Paris, L’Harmattan, 1998
  • Il libro dell’altro. Il Vangelo secondo lo straniero, Bologna, EDB, 1994
  • L’occidente di fronte all’islam (a cura di), Milano, Franco Angeli, 1994
  • Il ritorno dell’Islam. I musulmani in Italia, Roma, Edizioni Lavoro, 1993
  • Le parole della Lega, Milano, Garzanti, 1992
  • Médias et minorités ethniques. Le cas de la guerre du Golfe (con A. Bastenier, A. Battegay e A. Boubeker), Academia-Sybidi, Louvain-la-Neuve, 1992
  • La sfida dell’immigrazione, Bologna, EMI, 1991

Contatti

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Biografia

Biografia

Stritolato dai crediti inesigibili (Morte di un imprenditore)

La morte dell’imprenditore Giovanni Schiavon è di quelle che lasciano il segno. Perché è la morte dell’innocente, dell’uomo d’onore che si suicida non per i debiti, ma per i crediti non esigibili. Non per la vergogna del proprio operato, ma per quella di non poter onorare degli impegni che sarebbe in grado di onorare, se altri non lo ostacolassero e non glielo impedissero. Non per avere agito male, ma per avere agito bene in un mondo in cui troppi altri non lo fanno.
Si è già detto quasi tutto, di questa morte. Si è espresso il rammarico. Si è manifestato il dolore. Si è urlata la rabbia. Ora si deve cominciare a fare qualcosa. Una proposta ce l’avremmo. Una proposta di sanzione, o meglio due: una morale, e una giuridica e politica. La prima: si pubblichino gli elenchi dei debitori di Schiavon. E poi si vada a indagare, a chiedere conto. Probabilmente si scoprirà che alcuni di quelli che non pagavano non potevano farlo, perché erano imprenditori come lui, presi nella stessa morsa, colpiti dalla stessa crisi, altrettanto sommersi da debiti non pagabili e crediti non esigibili: incolpevoli anch’essi. Ma probabilmente si scoprirà che altri avrebbero potuto e dovuto pagare e non l’hanno fatto: imprenditori più grandi, che campano meglio strangolando i piccoli anche senza necessità, tirando in lungo con i pagamenti oltre l’ammissibile, tanto non pagano pegno perché hanno le spalle forti; e amministrazioni pubbliche, magari vincolate dai patti di stabilità, ma che per principio non dovrebbero campare a spese dei loro cittadini e dei loro contribuenti.
Sarà allora giusto aggiungere questa morte alla lunga lista delle morti bianche: di chi muore sul lavoro, o di chi, come in questo caso, muore di lavoro. Ma sarà giusto chiedere anche per queste morti l’introduzione di leggi che rispettino le persone. Come si è fatto per le normative sulla sicurezza dei lavoratori, ancora troppo spesso non rispettate. Basterebbe poco. Una norma di pochi articoli (già non mancano i disegni di legge, mai discussi, in materia; e l’Unione Europea, dove queste cose non succedono, ce la chiede) che obblighi le pubbliche amministrazioni a pagare ogni prestazione a 30, 60 o 90 giorni al massimo, con sanzioni pesanti se non lo fanno. Perché non è giusto che lo stato e gli enti pubblici sopravvivano spremendo ignobilmente coloro che lavorano per essi, che dovrebbero difendere e rappresentare, e da cui sono mantenuti. E che obblighi i privati a fare altrettanto, salvo motivi fondati e documentabili, e l’accordo delle parti. Ma sanzionando maggiormente, con la leva fiscale, con i costi del contratto, con deducibilità differenziate o quant’altro, chi tira più in lungo. Se i soldi devono girare per far girare l’economia, che girino davvero, non per finta. Basta con un sistema che finisce per essere più oneroso e stressante per tutti, e profondamente ingiusto nei confronti di alcuni, costretti a ricorrere al prestito bancario pur vantando ampi crediti, o peggio costretti al fallimento o, come in questo caso, al suicidio. I parlamentari veneti, tutti e insieme, per dare un segnale forte, se ne facciano promotori: subito. E le associazioni di categoria, le amministrazioni pubbliche, i partiti, i sindacati, la sostengano, pubblicamente, insieme, con iniziative pubbliche unitarie. E’ l’unico modo per uscire da questo meccanismo infernale, che stritola i più piccoli, i più onesti, e paradossalmente coloro che lavorano meglio e i cui servizi sono quindi più richiesti. E’ l’unico modo per pagare almeno un debito, per quanto tardivo, a Giovanni Schiavon.
Stefano Allievi
Allievi S. (2011), Stritolato dai crediti inesigibili (Morte di un imprenditore), in “Il Mattino”, 17 dicembre 2011, pp. 1-14

Il sistema previdenziale va cambiato (Un pacato ragionamento sulle pensioni)

L’aumento dell’età pensionabile è una scelta dolorosa. La progressiva parificazione tra quella degli uomini e quella delle donne può sembrare punitiva, per chi ha già il carico maggiore del lavoro di cura. Tuttavia sono entrambe inevitabili (mentre non lo è colpire malamente pensioni già basse).
Capiamo la rabbia di chi stava per andare in pensione, nel vedersi allontanare un orizzonte agognato, per il quale ci si era preparati, anche psicologicamente. Ma continuare con il sistema precedente sarebbe stato come dire: vogliamo andare in pensione comunque; non importa se a pagare la nostra pensione saranno trentenni e quarantenni con una vita lavorativa molto più precaria della nostra, già carichi del fardello del debito pubblico che noi abbiamo creato, che godranno di pensioni più basse, e lo sanno come lo sappiamo noi. Una prospettiva non accettabile: che non solo non accettano i più giovani, ma che anche a molti dei più anziani sembra, perché è, profondamente ingiusta. Perché dovrebbero essere i più giovani a pagare con il loro presente e il loro futuro gli errori del nostro passato?
Non solo: l’aspettativa di vita è cresciuta enormemente. Di trent’anni in meno di un secolo, e di quasi due anni solo negli ultimi dieci (e continuerà a crescere grazie ai rapidissimi progressi delle scienze e della medicina). Oltre tutto, fatti salvi i lavori usuranti, per i quali un’eccezione è d’obbligo, oggi si è più giovani e ricchi di risorse, a parità di età anagrafica, rispetto al passato: possiamo fare finta che nulla sia cambiato? E ignorare che altrove si va in pensione più tardi, o in maniera graduale?
Quanto alle donne, vivono in media sette anni più degli uomini. Ha ancora senso ‘difenderle’ per questa via? Con lo scambio umiliante: meno lavoro attivo in cambio di più lavoro di cura? Non sarebbe più degno, più soddisfacente, e anche più economicamente sostenibile, oltre che più civile, offrire, come si fa altrove, ben altro scambio: più lavoro esterno (bene quindi una transitoria defiscalizzazione delle assunzioni al femminile) sostenuto da più servizi pubblici dedicati al lavoro di cura? Più welfare e meno badanti, più asili, più cure domiciliari per anziani, più assistenza sociale per i soggetti deboli? E più flessibilità sul lavoro a richiesta del lavoratore, più part-time, ecc.?
E’ qui che bisogna fare il salto di qualità. Una politica conservatrice non può che cercare di difendere lo status quo, ben sapendo che finirà comunque. Come è stato fatto fino ad ora: colpevolmente, perché le cose sarebbero diverse se a una riforma seria si fosse messa mano venti anni fa, quando le tendenze si sapevano già tutte. Una politica riformatrice deve pensare invece in maniera innovativa. Non solo con le misure individuate, ma immaginando un diverso modo di erogare servizi, con ben altre risorse a disposizione, e in definitiva un diverso modo di immaginare la società.
Conosciamo le obiezioni: prima colpiamo l’evasione, i furbi, i grandi patrimoni. Tutto vero e profondamente giusto. Ma non basta, e per quanto doveroso ciò non esclude un ripensamento profondo del sistema previdenziale. Oggi non è progressista chi difende il sistema attuale; lo è chi promuove un sistema diverso. Ma, certo, chiedendo che una parte delle risorse recuperate vada precisamente a costruire un nuovo patto sociale, e le condizioni (i servizi) per attuarlo. E’ lì che la lotta deve essere più dura. Affinché i giovani e le donne non siano le vittime, ma le risorse del sistema: precisamente ciò che non sono oggi.
Stefano Allievi
Allievi S. (2011), Il sistema previdenziale va cambiato (Un pacato ragionamento sulle pensioni), in “Il Mattino”, 12 dicembre 2011, pp. 1-4

Quarta puntata. La nuova classe dirigente: Non possono essere sempre le stesse facce

La crisi italiana non aspetta: l’intervento chirurgico dovrà essere profondo ed esteso. Pari almeno alla gravità della malattia: alla decomposizione del sistema politico, alla crisi di quello economico, alla senescenza delle istituzioni, al degrado complessivo del sistema paese.
Se è vero che ci troviamo in una sorta di dopoguerra, a ricostruire il Paese dalla sue fondamenta e con le sue macerie, in un clima quasi costituente, dobbiamo innanzitutto essere capaci di trovare le risorse migliori per guidare questo processo, liberando le tante energie inespresse (o compresse) e il desiderio di ricostruzione morale e materiale che nonostante tutto lo attraversa. Ma questo non può farlo una leadership che è già stata condannata dalla storia, e dai suoi risultati. Un problema che è del ceto politico nel suo complesso, non solo di un partito, anche se il disastro economico e la bancarotta civile non sono equamente distribuiti: qualcuno (la coalizione uscente) porta evidentemente una responsabilità maggiore.
Non è immaginabile che a guidare la nuova stagione politica del Paese siano le stesse persone che l’hanno occupato – più che guidato – fino ad ora. Andreste dal medico che ha già sbagliato tante volte nel diagnosticare la vostra malattia, e non ha mai azzeccato la cura? Iscrivereste vostro figlio a una scuola dove l’incompetenza, la superficialità e il pressapochismo sono la norma? Comprereste un’auto da un concessionario che sapete essere un parolaio e un mentitore? Fareste progettare la vostra casa ad architetti dalle parcelle altisonanti, e usi alla percentuale, ma scelti non per capacità e merito, inesperti e per di più arroganti? Vi fidereste di un manager che dice la sua su ogni cosa senza mai chiedere consiglio a chi ne sa di più, incapace di visione, con un orizzonte temporale che non va al di là della prossima chiusura di bilancio (le elezioni), incapace di progettare a lungo termine, di pensare alle prossime generazioni? Ebbene: può, allora, la stessa classe politica che ha portato l’Italia nel baratro, può un ceto politico autocentrato, separato dal resto della società da privilegi che ne hanno fatto una casta, convinto della propria insostituibilità, incapace di lettura della realtà, pretendere di continuare a governare questo Paese? No, evidentemente.
Occorre dunque un ceto politico diverso, attraverso meccanismi nuovi di selezione delle leadership, possibilità di scelta da parte dei cittadini, limiti di mandato per favorire il ricambio, fine dei privilegi che richiamano alla politica i lupi affamati e gli arrivisti senza qualità. Come arrivarci? Con un patto sulle regole. Cambiando sistema elettorale, per cominciare. Consentendo ai cittadini di scegliere, altrimenti non è democrazia. Favorendo la battaglia delle idee e delle persone. Attraverso collegi uninominali, o il doppio turno, o almeno il ritorno delle preferenze.
Ma scegliere tra i peggiori è ancora troppo poco. Occorre favorire l’emergere dei migliori, e la possibilità di conoscerli e di selezionarli. Attraverso forme di partecipazione del corpo elettorale, non solo degli iscritti ai partiti: che sono preziosi ma sono sempre meno (salvo gli usuali miracoli pre-congressuali che chissà come ne decuplicano il numero) e troppo spesso inascoltati, usati solo come megafoni di decisioni calate dall’alto, per promuovere carriere e leadership selezionate in maniera opaca. Le primarie sono un sistema efficiente: perché consentono di svecchiare un ceto dirigente inevitabilmente arroccato sulla propria difesa, favorendo la partecipazione di forze che fanno altrimenti fatica ad emergere. Merito al PD di averle introdotte in Italia con successo, tanto che anche il PDL comincia a pensarci, e altri pensano addirittura di renderle obbligatorie per legge. Non a caso tuttavia molti si adoperano per svuotarle di contenuto, con regolamenti che tendono ad escludere anziché ad includere, o affidando le ‘preselezioni’ alle gerarchie, magari attraverso forme di democrazia interna più o meno controllata.
Un altro mezzo fondamentale è il limite al numero di mandati elettivi nello stesso ruolo: per favorire la mobilità e il ricambio, non solo generazionale, e farla finita con i politici a vita. Le quote di genere possono ulteriormente favorire lo scopo di portare aria e persone nuove, non foss’altro che obbligando una parte dei gerontocrati maschi a farsi da parte.
La fine dei privilegi, dei vitalizi, dei pensionamenti dorati, della distribuzione di prebende attraverso l’occupazione abusiva delle risorse e delle istituzioni pubbliche, gli enti e i consigli di amministrazioni inutili, sono il corollario finale.
Possiamo pensare che chi ha prodotto la situazione attuale voglia davvero cambiarla, e quand’anche lo volesse, lo sappia fare? La risposta è ancora no: per cui dobbiamo cambiare loro. La sfida è cruciale. Si tratta dell’ultimo treno in partenza per la riforma democratica del nostro Paese.
4 – fine
Stefano Allievi
“Appunti dalla crisi italiana” è ora anche un blog sulla home page del “Mattino”:
http://appuntidallacrisiitaliana-padova.blogautore.repubblica.it
Allievi S. (2011), Quarta puntata. La nuova classe dirigente: Non possono essere sempre le stesse facce, in “Il Mattino”, 17 novembre 2011, p. 39

Terza puntata. Il dopo Silvio: Perché per il Pd c’è poco da gongolare

La destra scende, ma la sinistra non sale. E se il Partito Democratico, principale forza di opposizione, appare essere il primo partito (tra i votanti: perché nel corpo elettorale il primo partito è il non voto), ciò accade più per demeriti altrui che per meriti propri: un consenso volatile, quindi. Non l’adesione convinta a una proposta di governo, ma una scelta del meno peggio. Non l’adesione entusiasta a uno schieramento capace di sedurre con le sue ragioni, le sue pratiche politiche e i suoi leader, ma la disillusione per una proposta politica che ha fallito, lasciando il Paese in una situazione drammatica. Un ancoraggio debole, frutto del disancoraggio dalla precedente illusione, non il richiamo forte dell’alternativa.
In questo scenario, pur disastroso per la coalizione uscente, il Partito Democratico non sembra ancora in grado di candidarsi con il consenso necessario al ruolo cui in questa situazione sarebbe naturalmente destinato, quello di perno di una coalizione alternativa: non per le proprie divisioni interne o la debolezza di leadership, su cui c’è fin troppa enfasi mediatica (e del resto altri non stanno meglio), ma per l’incertezza della prospettiva di coalizione, e per la non sufficiente chiarezza della proposta riformatrice. E’ per questo che si cerca un governo tecnico: perché manca la politica. Il governo non c’è più, ma l’opposizione non c’è ancora.
Per capire come mai questo stia accadendo, occorre fare un passo indietro. Il progetto e l’intuizione che è all’origine del Partito Democratico è così riassumibile: unire le principali tradizioni riformiste italiane, aprendosi nel contempo con larghezza, intelligenza e generosità alla parte migliore della società civile, allo scopo di iniziare una stagione di modernizzazione radicale del Paese, attraverso un grande piano di riforme. Se la prima parte del progetto (unire le principali tradizioni politiche riformiste) sembra essere andata in qualche modo in porto, seppure in un amalgama imperfetto, in cui le nostalgie e le inerzie ideologiche e progettuali prevalgono su un autentico confronto, la seconda (aprirsi alla parte più innovatrice della società civile) sembra lontana dal realizzarsi, ed anzi in regresso.
Il PD sembra essersi ripiegato sulle due componenti principali da cui deriva (quella PCI-PDS-DS e quella DC-Popolari-Margherita), sottovalutando la terza, composta da quei militanti, iscritti e personale politico che, senza essere mai stati membri di quei partiti, che magari votavano senza troppa soddisfazione, hanno creduto nel PD come a un soggetto nuovo e riformatore. Sono proprio i rappresentanti di questa terza componente, insieme agli appartenenti alle altre due che si sono davvero messi in gioco per costruire un soggetto politico nuovo (una parte significativa di essi l’ha semplicemente subìto), a costituire la parte più innovativa del PD; ed è la loro perdita, la loro diaspora, la loro emorragia, che si sta rapidamente consumando in questi mesi, a costituire per esso la perdita maggiore, non solo di voti e di iscritti, ma di energia, di motivazione e di capacità progettuale, nonché di connessione con la parte più attiva, moderna e ricca di conoscenze del Paese. Senza di loro, il PD può restare un partito forte, che mantiene un peso significativo negli equilibri politici del Paese, con un ceto dirigente mediamente più preparato di altri e capace di mettersi a servizio delle istituzioni (e non è poco), ma perde centralità propositiva.
Il processo non è aiutato dagli altri attori dello schieramento riformatore, gli alleati dichiarati o potenziali. Tra cui prevalgono i ripiegamenti populistici, la collusione con la rabbia urlata dell’antipolitica – assai fondata ma vacua nella proposta costruttiva – di cui si cercano di cavalcare le sirene, la vaghezza della proposta politica che si tenta di mascherare con la perentorietà dei toni (cose di cui è spesso esempio Italia dei Valori), o il tentativo di lucrare la propria posizione concorrenziale erodendo qualche consenso al soggetto maggioritario dello schieramento, cioè al PD, invece di cercarlo altrove (come spesso ha fatto Sinistra Ecologia e Libertà). Mentre crescono le proposte alternative e ‘contro tutti’ (Movimento 5 Stelle), ed è scomparsa, caso quasi unico in Europa, la componente politica ambientalista, che una dimensione progettuale ce l’avrebbe. E così il discorso sul progetto per il Paese finisce per cedere il posto a quello sulle alleanze per governarlo: per cui diventa più importante interloquire con il Terzo Polo o polemizzare con il Partito Radicale (perdendo, anche qui, una componente progettuale, minoritaria ma non irrilevante) che non dire al Paese dove lo si vuole portare. Solo che non è così che si affascina l’elettorato, e lo si convince: anche a fare scelte costose, ingurgitando medicine amare, come il momento richiederebbe, ma con la prospettiva di un avvenire migliore, di un Paese radicalmente cambiato, in cui davvero voler vivere, e con orgoglio.
Per far questo ci vorrebbe una proposta politica forte, e un cambiamento drastico di classe dirigente. Di cui parleremo nella prossima e ultima puntata di analisi della ‘crisi italiana’.
3 – continua
Allievi S. (2011), Terza puntata. Il dopo Silvio: Perché per il Pd c’è poco da gongolare, In “Il Mattino”, 15 novembre 2011, p. 13

La morte oggi A S

A S
La morte oggi
SCAN COP ECC
La morte oggi
di
Stefano Allievi
La morte, almeno nell’occidente sviluppato, è un tabù sconveniente, un ‘oggetto’ incompreso e inaccettato; non così altrove, in altre epoche e in altre culture – anche tra quelle che, paradossalmente, oggi vivono in occidente, in mezzo a noi.
L’uomo occidentale insomma sembra preferire di non sapere con la sua mente quello che la sua carne, in ogni caso, sa e non può ignorare. E la società occidentale, che forse più di altre, e mai con tale forza nella storia, sembra provare un gusto e una vocazione particolare nell’abbattere tutti i tabù, intorno alla morte ne ha eretto uno particolarmente solido e impenetrabile: anche perché, a differenza di altri, non c’è nessuno che voglia seriamente liberarsene.
La morte, crediamo, resterà ancora a lungo isolata, se non chiusa, in un universo misconoscente ed allusivo, perché tale lo vuole il modo odierno di pensare non la morte, ma la vita stessa, e persino quell’attacco alla vita che è la malattia, e di converso quel baluardo di essa che si pretende l’odierna medicina.
Per capire di cosa parliamo
Già lo diceva Agostino di Ippona: “Incerta omnia. Sola mors certa”.
Ma c’è di più: noi non ne ignoriamo solo ‘il giorno e l’ora, il perché e il come’ – ne ignoriamo anche l’essenza, e persino i confini. In pratica, non sappiamo davvero cosa sia, e tanto meno, quindi, come affrontarla. Dove inizia infatti la morte? e dove finisce veramente la vita? L’odierno dibattito bioetico, e la difficoltà di una definizione giuridica (ma anche religiosa) condivisa di vita e morte, è in fondo tutta qui.
La morte, comunque, sappiamo che c’è, che ci riguarda. Eppure, raramente accettiamo di considerare la morte come ‘naturale’. Psicologicamente, non è questo il nostro atteggiamento prevalente: la morte ci sorprende e ci stupisce, tanto è vero che, di fronte a una persona che muore, anche anziana, se non chiediamo propriamente “chi l’ha uccisa?”, ci chiediamo comunque “di cosa è morta?”, che è quasi la stessa cosa. Come se fosse impossibile e inaudito pensare che si possa morire, per l’appunto, di morte ‘naturale’: perché si è cessato di vivere, semplicemente – perché ‘era ora’.
Se sappiamo che la morte ‘accade’, le definizioni dell’istante ‘morte’, all’interno di quel più lungo processo che è il ‘morire’, sono rese difficili anche dalla stessa fisiologia: il corpo umano infatti continua a morire, e in un certo senso a vivere, anche ‘dopo’ aver emanato quello che si suole definire l’ultimo respiro. Il che spiega perché le definizioni della morte siano sempre più ‘scientificizzate’ e ‘giuridicizzate’. I progressi stessi della scienza rendono più precisa e insieme più difficile la definizione della morte.
Se una volta poteva bastare la constatazione dell’arresto del polso e del cuore, o la cessazione della respirazione, constatata magari con l’antico sistema dello specchietto posto davanti alla bocca del cadavere, e infine la mancanza di ricettività e di reazione a stimoli esterni, oggi le prove si fanno sempre più cumulative, e presuppongono l’ausilio di macchinari in grado di constatare, tra le altre cose, per lo meno un encefalogramma piatto senza interruzioni per un certo numero di ore.
Difficile dire, tuttavia, se anche la definizione della morte progredisca con il progresso nella misurazione delle funzioni vitali. Il dibattito bioetica sembrerebbe attestare il contrario. E poiché, in ultima istanza, la legge è frutto di contrattazioni tra ideologie religiose e laiche o almeno visioni contrapposte, e gruppi di potere che le portano avanti, la conseguenza è che è morte ciò che i gruppi di potere dominanti o coalizzati decidono che sia.
Morire: come? Perché?
Due domande diverse, due risposte diverse. Alla prima domanda può forse tentare di rispondere la scienza. Ma per trovare una risposta alla seconda, la scienza non basta. L’esigenza di sapere non può accontentarsi di una risposta ‘tecnica’. “La morte è un giallo in cui bisogna trovare il colpevole”, è la mentalità diffusa nella classe medica. Ma al malato spesso interessa più il ‘senso’ della sua morte che la sua ‘causa’, più o meno oggettiva od oggettivabile.
La statistica può dirci tuttavia le cause di morte più diffuse, aiutando una risposta che può illuminare altri piani. In Italia ci sono oltre mezzo milione di morti l’anno. La cifra assoluta dice poco, ovviamente. Più significativa la conferma della tendenza all’allungamento della vita media e la sua differenziazione per sesso, rispettivamente 75 anni per gli uomini e 81 per le donne, secondo una tendenza ormai attestata (in Europa – non così tuttora in molte aree del Terzo Mondo – almeno dal Rinascimento in avanti) – praticamente un guadagno di 25-30 anni in meno di un secolo.
Oggi oltre il 60% dei morti sono ultrasessantenni – si muore dunque sempre più tardi. E ovviamente, essendo le morti concentrate in fasce d’età in cui le donne sono maggioritarie, significa anche che a morire a questa età sono sempre più spesso donne sole, comunque prive di coniuge, con i problemi sociali connessi, economici, ma anche di sostegno, che si possono intuire.
Dagli anni Ottanta è invece in controtendenza, rispetto alle dinamiche generali, la mortalità relativa alla fascia cosiddetta dei giovani-adulti, tra i 25 e i 44 anni. Qui infatti la mortalità è in aumento per gli uomini e stabile per le donne, in diretto legame con alcune patologie recenti, in particolare l’Aids, ma anche, per gli uomini, incidenti stradali e di altro genere, suicidi, cirrosi epatica, overdose. Cifre che la dicono lunga non solo sulla sparizione, ovvia dato l’elevamento della speranza di vita, della mortalità cosiddetta naturale in questa fascia d’età, ma anche su quella che finisce per essere la percezione sociale della morte come ‘innaturale’, come incidente, come evento eccezionale e drammatico nelle sue modalità. Cifre, anche, che dicono molto sugli stili di vita e, per così dire, sugli ‘stili di morte’: probabilmente considerabile, alla luce di questi dati, un evento più ‘scelto’ di quanto siamo abituati a pensare. Le donne infatti, in questa stessa fascia d’età muoiono la metà degli uomini. E’ quindi possibile dire, contrariamente alla percezione comune della morte come una cosa che ‘càpita’, un mero accidente, che le donne di quest’età scelgono di morire in maniera significativamente diversa dagli uomini, e soprattutto molto meno.
Più in generale, come considerazione che trascende il caso italiano e riguarda tutto il mondo economicamente più sviluppato, occidentale in particolare, possiamo dire che la morte è sempre più posposta nel tempo, che la corsa contro il tempo, intrapresa dalla scienza medica, in nome e per conto di tutta la società, sta mostrando i suoi successi.
La rimozione della morte
Un esito perverso di questa battaglia è che ci siamo accomodati a questa paradossale finzione sociale: che la morte non esiste. E che, se anche sospettiamo che esista, in ogni caso non dobbiamo parlarne. Meno che mai con il morente. E ancora meno con i bambini. La società dell’informazione e della conoscenza ha scelto in questo caso, volontariamente, l’ignoranza, il nascondimento, il silenzio.
Der Mensch ist zum Tode (Heidegger). L’uomo è la sua morte, se la porta dietro dalla nascita, comincia a morire dal giorno in cui nasce, come ci insegna la filosofia, da Epicuro, con il suo noto ‘sofisma dell’inesistenza della morte’, in avanti, passando per gli stoici latini fino all’esistenzialismo. Ma questa constatazione, lungi dal divenire consapevolezza individuale, rischia di essere soltanto una fredda frase. L’approccio intellettuale alla morte non è il più profondo. Il solo approccio profondo è quello radicato nei sentimenti: la morte di qualcuno che conosciamo, che amiamo. E’ questa la sola morte che ci interroga personalmente, sulla nostra morte, e magari anche sul senso che diamo alla nostra vita. Anche se la società può cullarsi nella tranquillità illusoria del nascondimento, l’individuo, solo, i conti con l’’estrema nemica’ li deve fare. Perché non conosciamo né il giorno né l’ora: mors certa, hora incerta.
Il nascondimento, la rimozione della morte, appare quindi dannosa per l’individuo proprio perché gli toglie le occasioni e dunque le possibilità di entrare in contatto con quello che sarà anche il proprio futuro, e dunque di fare i conti: con se stesso, i propri sentimenti, la propria famiglia, il proprio lavoro, in definitiva il senso della vita di ciascuno. Una celebre iconografia del memento mori che ci viene dal Medio Evo è per l’appunto quella dei morti che dicono ai passanti: “ciò che siete lo fummo. Ciò che siamo lo diverrete”. Li avvisano, in sostanza. Per l’uomo moderno, che vive nell’illusione che la morte non esista, e che in ogni caso non la incontra più, “la morte – come dice Scheler – sopraggiunge soltanto come catastrofe”. Qualcosa di insensato e di alieno: che non si capisce, e che ci lascia interdetti, senza parole e alla deriva.
Certo, siamo confrontati continuamente – teoricamente – con la minaccia di morte come strumento di lotta politica (dalla corsa agli armamenti al terrorismo, dalla ‘dissuasione’ nucleare alle guerre etniche e tribali); con la morte sociale, magari sotto forma di handicap con le sue conseguenti forme di esclusione, di pensionamento anticipato, di vita in ospizio, che è insieme un esempio di morte sociale e il suo strumento più raffinato, comunque di inutilità, di mancanza di un ruolo sociale (de-functus, si dice appunto del morto: privo di funzioni); con quella forma di morte civile che corrisponde al carcere a vita e alle istituzioni manicomiali; ma queste sono immagini della morte astratte, metaforiche.
Mentre non siamo abbastanza confrontati a quella che, con un’espressione di per sé significativa, come abbiamo visto, chiamiamo ‘morte naturale’. Non ha torto chi, dopo anni in cui lo slogan, di per sé giusto, era ‘riprendiamoci la vita’, consiglia ora anche di ‘riprenderci la morte’: di toglierla ai medici, alle infermiere, e anche ai preti, per riportarla a casa, in famiglia, nei nostri pensieri, nelle nostre discussioni, nella nostra vita, insomma.
Per insegnare qualcosa a coloro che restano, magari. Per dire un’ultima parola ‘forte’. Anche ai bambini. Ricorda Ariès che fino al XVIII secolo non esistono immagini di una stanza di agonizzante in cui non ci sia la presenza dei bambini… Mentre è probabile che il silenzio di oggi rifletta altre preoccupazioni che non il supposto bene dei bambini: Commenta Elias, in proposito: “Gli adulti che evitano di parlarne ai loro figli temono, forse a ragione, di poter comunicare loro le proprie angosce e paure della morte”.
La morte ingiusta
La diseguaglianza più grande e radicale, la più evidente delle ingiustizie, anche se è stranamente meno percepita di altre, è certamente quella relativa alle differenze nelle aspettative di vita, nella speranza di vita: la ‘mortalità differenziale’.
Una diseguaglianza che può differenziare ricchi e poveri all’interno di un paese, ma che si proietta anche su scala globale: tra paesi ricchi e paesi poveri. Inoltre può differenziare categorie sociali, sessi, etnie, ecc., secondo la situazione.
Nella Londra del 1830 per esempio, nelle élites l’età media al decesso era di 43 anni, ma di 25 tra artigiani e impiegati, e di 22 tra gli operai. A Liverpool addirittura di 35 per la nobiltà e 15 per gli operai! In misura meno netta, è vero anche qui ed ora, oggi in Italia.
Basti pensare alla contabilità, occulta e occultata, che potremmo dedurre dagli incidenti e dalle morti sul lavoro, per rendercene conto. Per non parlare degli effetti delle condizioni di vita (reddito, cibo, abitazione) sulla mortalità nelle varie classi sociali, o della disponibilità e accessibilità di cure mediche e ospedaliere e della loro diversa efficienza nelle varie aree del paese. L’Istituto Nazionale di Statistica da qualche tempo ha cominciato a produrre degli indici di mortalità per grado di istruzione, condizione professionale e caratteristiche socioeconomiche della famiglia di appartenenza. Ne risulta per esempio che il titolo di studio è un indicatore altamente predittivo della mortalità (essa è tre volte più alta tra gli analfabeti che tra i laureati), così come lo è la condizione lavorativa: in particolare la mortalità tra i disoccupati è tre volte superiore a quella dei lavoratori attivi, e la differenza è ancora più rilevante per quanto concerne i suicidi.
Tuttavia pochi si interessano a questo tipo di statistiche, e ne colgono il peso e diremmo la drammaticità in quanto indicatori e persino simboli della questione sociale.
Non è solo la morte comunque a differenziarci, con aspettative di vita diverse. Anche il ricordo del morto, spesso, ci differenzia. Anche avere un passato, una memoria, è spesso una forma di lusso, di ricchezza. Altro che “’a livella”, come diceva Totò, che ci rende tutti uguali: “nulla di più inegualitario della morte”, ha ricordato Vovelle.
La morte nascosta
La convenzione sociale vuole che non se ne parli, che non la si nomini nemmeno, che venga almeno avvolta nella cortina fumogena di irritanti metafore, che anziché dire meglio e in altro modo, semplicemente nascondono la realtà, illudendosi in questo modo di cancellarla, di negarla. Una prassi, questa della negazione – della malattia, oltre che della morte -, che è di tutta la società; e che si traduce in una preoccupazione particolarmente visibile nel linguaggio usato per cercare di non dirla, di non nominarla: dalla comunicazione giornalistica (nessuno muore mai di cancro, ma sempre ‘dopo lunga malattia’) ai tecnicismi del gergo medico-ospedaliero, fino alla ipocrita delicatezza del linguaggio quotidiano (nessuno è mai morto: al massimo, è ‘mancato’, quasi si fosse perso…) e al linguaggio pudico della pubblicità delle agenzie di pompe funebri (per le quali la morte è diventata un insapore ‘transito’ o un ‘decesso’, i parenti ‘dolenti’, la tomba una sepoltura, il funerale le esequie, la bara il feretro, il corpo ormai cadavere la salma, le spoglie o, peggio, i resti, ecc.).
E’ come se la società non volesse sapere di dover morire, si cullasse in un’illusione di eternità, per nascondersi la propria caducità, la propria mortalità (“civiltà noi adesso sappiamo che siete mortali”, dirà Paul Valéry). Come se la società non potesse funzionare se si mettesse in discussione questo assioma. Come se questo rendesse il ‘re sociale’ definitivamente nudo. Il che, forse, è più vero di quel che pensiamo.
Gli esempi di rimozione sociale si possono moltiplicare a iosa. E non si tratta solo del ‘non dire’, delle ipocrisie del linguaggio. Un’altra forma di rimozione, tipica del resto della modernità, è quella della divisione del lavoro sociale: creare delle istituzioni specializzate che se ne occupino (che si occupino di occultarla), liberando così il resto della società, a cominciare dai parenti, dall’obbligo anche solo di pensarci. Istituzioni che, sempre più spesso, in tutta Europa tendono ad essere affidate a stranieri: tali spesso sono i lavoratori dei cimiteri, ad esempio. Ed è significativo, terribilmente significativo, pensare che nelle società occidentali i nostri malati, i nostri vecchi, i nostri morti, sono affidati sempre più a personale straniero: quello che, sulla scala sociale, conta meno, e maggiormente disprezziamo (in molti sensi, incluso quello etimologico: pagandolo meno, dandogli un prezzo – cioè un valore, nella logica economica dominante – minore). Da’ l’idea del valore che diamo a questi nostri ‘scarti’ improduttivi, e al loro stesso ricordo.
Il fatto che sempre meno si muoia a casa, in famiglia, e che si passi direttamente dall’ospedale al cimitero, ci rende inoltre estranei (siamo noi gli stranieri, in questo caso) al fatto stesso della morte: l’incontro con essa non può quindi che essere casuale (per esempio un incidente). Ma di questo paghiamo anche un prezzo: la morte ‘ospedalizzata’ diventa anche morte spersonalizzata, perché l’istituzione ospedaliera “si fa carico non dell’individuo, ma del suo male” (M. de Certeau). Persino quando ce lo vuole ricordare, e ci vuole preparare, per motivi di interesse (il ramo assicurativo ne è un eccellente esempio), la società si incarica di renderci il fatto neutro e per così dire ‘dolce’, ricorrendo a espressioni che per essere pie menzogne non sono meno sintomatiche: non per caso questo tentativo di sconfiggere almeno alcune conseguenze della morte, questa forma tutta moderna di praeparatio mortis, la si chiama, significativamente, assicurazione sulla vita.
Una società vitalista e giovanilista non inciampa volentieri nei suoi morti, come del resto nei suoi vecchi. La morte, e con essa tutto ciò che può ricordarla (la vecchiaia, la malattia, il dolore) viene sempre più ‘privatizzata’ e nascosta.
Come si è detto, si muore sempre meno a casa, in mezzo alla gente, ai sani, ai ‘normali’. Il funerale lo si fa in chiesa; sparisce anche il corteo funebre nel quartiere, e si vedono sempre meno simboli esteriori (addobbi, paramenti). Anche le esistenze chiassose si spengono discretamente: con la notevole eccezione della morte dei vip, quelli che Edgar Morin chiama gli olympiens, che diventa essa stessa notizia, e rito collettivo – si pensi alla morte di Diana Spencer, meglio nota come Lady D, ma anche, quasi nello stesso periodo, di personaggi alquanto diversi e morti in circostanze del tutto dissimili, come Madre Teresa di Calcutta. O, più recentemente, alla morte di Giovanni Paolo II. La pubblicità, salvo eventi drammatici, è affidata ai soli necrologi sui giornali: l’ultimo quarto d’ora di celebrità possibile, in una società dove un evento, se non passa sui media, non esiste. L’estremo capolavoro di una società che dedica colossali energie a cercare disperatamente di non invecchiare, di allungare la vita a tutti i costi, foss’anche di un minuto, e di cancellare dunque il dolore e la morte dal panorama sociale (incluso il momento in cui la vita nasce: si pensi alle sempre più diffuse iniezioni peridurali e ai tagli cesarei allo scopo di non provare dolore al momento del parto). Non a torto, dunque, questa società è stata chiamata ‘analgesica’.
La morte ospedalizzata
“La funzione della malattia è oggi di nascondere la morte” , ha scritto uno studioso francese, di tacerla o di travestirla. Concentrato sulla malattia, su come combatterla, il medico distoglie lo sguardo dal suo esito, nel lungo termine, inevitabile, perché è l’esito di ogni vita. Dopo tutto, per il medico esso è quasi sempre vissuto come uno scacco professionale, una sconfitta: la medicina contemporanea si concepisce come una titanica battaglia, spesso vincente (ma mai nel lungo termine…), contro la morte – non riesce ad accettare, quindi, di perdere.
Un atteggiamento, questo, che ha finito per instillare nel grande pubblico e nel suo immaginario l’idea che la morte sia un’anomalia, la conseguenza di un malfunzionamento, al limite di un errore; e che ha finito per ritorcersi contro la stessa classe medica, oggi più che in passato confrontata con il moltiplicarsi di cause giudiziarie, per inadempienza, per errore diagnostico colposo o altro.
Un atteggiamento, inoltre, che non è estraneo alla frequente tendenza del medico ad essere presente e attivo nelle fasi di ‘lotta’, e ad eclissarsi nel momento in cui, come si dice, “non c’è più niente da fare”, e il malato, ormai morente, deve solo, per l’appunto, morire – lasciando la responsabilità di seguire questa fase cruciale al personale paramedico, al personale religioso, ai volontari, ai familiari, o, peggio, a nessuno.
Eppure la medicina e le sue istituzioni sono sempre più confrontate dalla morte, per la semplice ragione che prosegue la tendenza, apparentemente inesorabile, all’ospedalizzazione della morte, anche se comincia a vedersi qualche segnale di controtendenza: che tuttavia, come il parto in casa o altre forme di de-ospedalizzazione della nascita, incide per ora più a livello di costume che statistico. Ormai solo una minoranza di persone, in occidente, muore fuori dall’ospedale, in casa o altrove: specie se sa, o lo sanno i suoi parenti, che la morte sta arrivando – se, magari, la sta aspettando.
Le ragioni di questo processo sono molte: la solitudine delle persone, la scomparsa progressiva della famiglia allargata, con le sue molte risorse disponibili, ma anche delle relazioni di vicinato, specie nelle aree urbane, la mancanza di tempo degli altri familiari, coniuge incluso, che sempre più spesso lavora, il fatto che le case stesse, i troppo piccoli appartamenti metropolitani, poco si prestino ad operazioni sempre più complesse, man mano che il processo di medicalizzazione della morte, specie in presenza di patologie più difficili da affrontare, comporta: anche perché le patologie in questione si fanno sempre più difficili man mano che aumenta l’età del morente e diminuiscono le ‘risorse’ del corpo e della mente nell’affrontarla. Indubbiamente, poi, gli ospedali possono offrire supporti ‘tecnici’ e un’assistenza continuativa che non è di norma alla portata del privato, del singolo, della famiglia media. Ma c’è anche un problema culturale: l’angoscia di fronte alla morte, il non sapere che fare di fronte ad un evento cui non c’è stata preparazione. Manca la ‘dimestichezza’ con la morte, il renderla ‘domestica’, appunto, e come tale gestibile: anche per l’effetto della scomparsa progressiva della compresenza generazionale all’interno delle famiglie – non c’è più chi insegni, con le parole o con l’esempio, ciò che del resto non si ha nessuna voglia di imparare. E a superare questo problema, l’ospedalizzazione non aiuta: al contrario, lo incancrenisce. Tanto che si comincia a riflettere sul fatto che così come la medicalizzazione della nascita è stata messa in discussione, così dobbiamo mettere in discussione la medicalizzazione della morte.
Bisogna tuttavia prendere realisticamente atto che il processo è in corso, e seppure qualche timido segnale di inversione di tendenza si manifesta, è probabile che la maggioranza delle morti continuerà ad avere luogo in ospedale.
L’evento morte non è separabile in una componente razionale, di cui si può parlare e con cui ci si può confrontare, e di una irrazionale, nelle sue componenti psicologiche ma anche filosofiche e spirituali, da cui invece l’ospedale dovrebbe stare fuori: nella persona del paziente, dei suoi familiari, ma spesso anche del personale ospedaliero, queste componenti sono unite e inseparabili.
Certo, colui che è vicino alla morte è una figura atipica. E’ colui che non può (o a cui non si può) più far nulla per impedirgli di morire – è il morente, il quasi morto, il morituro. Ma la medicina ha sempre avuto, fin dalle origini, due aspetti. Il primo concerne il guarire, che implica, come si evince anche dall’etimologia della parola, il ‘difendere’, o provarci almeno, dall’aggressione della malattia. Il secondo è il curare. E curare significa precisamente prendersi cura – proprio nello stesso senso in cui il curato è colui che si prende cura, delle anime nella fattispecie: anche se separare anime e corpi è ugualmente un esito per nulla inevitabile, e concettualmente ma anche praticamente problematico, anche per la medicina. La medicina occidentale si è forse troppo orientata sul primo aspetto, il guarire, mettendo eccessivamente in ombra quando non dimenticando il secondo, il curare. Certo, se si può, bisogna guarire, cioè combattere e vincere la malattia, e ristabilire la salute. Ma non sempre è possibile, e tipicamente non è possibile per i malati che già si sanno terminali. Ma quando il malato non può essere guarito, ha ancora bisogno di essere curato, di essere aiutato a vivere la sua ultima malattia. Combattendo il dolore fisico che comporta, per esempio, quel dolore che è già in certo modo un’anticipazione della morte, che ce ne anticipa in qualche modo l’esperienza, e intorno al quale c’è spesso una sorprendente sottovalutazione, sottolineata ormai da molti studi – come se ormai non valesse quasi più la pena di approntare un trattamento analgesico adeguato. Ma il problema non si esaurisce qui: non di sola morfina…
Il problema non è più di ‘vincere’, di prolungare all’infinito una lotta senza senso: quello che si è imparato a chiamare accanimento terapeutico. E a proposito, anche qui troviamo un paradosso, l’ennesimo: “nel tentativo di prolungare la vita si prolunga involontariamente il processo del morire”. “L’escatologia è stata trionfalmente dissolta nella tecnologia”, ha notato Bauman. Ma questo trionfo apre più problemi di quanti non ne risolva; e non solo dal punto di vista etico, ma anche da quello pratico, della ‘governabilità’ e in definitiva della stessa utilità di alcune pratiche medicali. L’accanimento terapeutico produce, sì, un ulteriore tempo di vita. Ma che vita? E’ vita? E chi lo decide? Anche qui non vogliamo semplificare eccessivamente un dibattito complesso, ma alcune domande, anche radicali, è bene che comincino ad essere poste apertamente. Anche perché, in ogni caso, ci pensa l’attualità a rilanciarcele. Si pensi alla partecipazione e all’emozione con cui è stato seguito il caso Welby. Da tutti, tranne dall’istituzione-chiesa, la cui mancanza di caritas è riuscita a farsi superare dalla laica e umana pietas di molti cittadini comuni.
Stefan oAllievi
in “Servitium”, III, n.171, maggio-giugno 2007, pp.33-44; issn 1123-931

Seconda puntata. La rivoluzione mancata: Il centrodestra e il sogno infranto

Se il governo piange (e il Paese con lui, e a causa sua), l’opposizione non ride. Di fronte al precipitare degli eventi, e a una situazione senza precedenti, con una verticale caduta di credibilità dell’intero ceto politico (la ‘casta’ ormai per tutti, non a caso), più grave ancora di quella seguita alle vicende di Tangentopoli, l’opposizione sembra non saper offrire, così com’è adesso, l’auspicata soluzione di ricambio, il governo alternativo di cui il Paese ha bisogno. Tanto che molti sospettano che il governo tecnico sia la soluzione auspicata da tutti, maggioranza e opposizione: per non dover gestire la crisi con misure inevitabilmente impopolari, ma anche per una presa di coscienza delle proprie rispettive difficoltà interne, della propria inadeguatezza, e per alcuni della propria assoluta incompetenza.
L’elettorato sembra essere consapevole di questa situazione: e i sondaggi ne sono lo specchio. Da un lato indicano in testa, assai di misura, il Partito Democratico sul Popolo delle Libertà (un risultato che sorprende per lo scarso distacco, alla luce del disastro italiano). Dall’altro indicano in crescita i partiti minori del centro-sinistra e altre espressioni del voto di protesta o anti-sistema, ma soprattutto l’astensionismo, il partito del non voto (che ormai rappresenta oltre un terzo dell’elettorato, ed è quindi il primo ‘partito’ d’Italia), e gli indecisi. Cresce anche il centro: l’eterno centro intorno a cui la politica italiana continua nonostante tutto a ruotare, pescando al bisogno, nonostante il tentativo di ingresso del Paese nel mondo del maggioritario e del bipartitismo, risultato assai più imperfetto di quanto si potesse prevedere. Segno di un’offerta politica non soddisfacente.
Cominciamo l’analisi dal centro-destra. Un capitolo che potremmo intitolare: il sogno infranto. Sia che si parli del Popolo delle Libertà che della Lega Nord.
Questo centro-destra, come progetto politico di governo, nasce con la speranza berlusconiana. La famosa discesa in campo del ’94. Uno stile nuovo, un progetto di riforma in senso liberale, una comunicazione dirompente. E la capacità pragmatica di costruire alleanze al di là delle ideologie: sdoganando Fini, e includendo la Lega. Inutile ripercorrerne le disavventure, pur all’interno di un’epopea personale esaltante e di una narrazione per lungo tempo risultata vincente. Limitiamoci alla storia recente, e all’epilogo. Che vede quello stesso centro-destra, dopo 17 anni, in agonia conclamata. Il progetto di riforma liberale non è partito, o non è andato lontano: segnali di rottura ci sono stati, ma la vera rivoluzione liberale non è stata mai nemmeno impostata. La comunicazione è risultata fine a se stessa, e sempre più opaca. Lo stile, all’inizio brillante, si è col tempo inevitabilmente appannato: e, dopo la sequela di scandali personali concernenti il premier, appare parola persino impronunciabile. L’epopea personale è diventata ossessivo presenzialismo e autoreferenzialità. E la narrazione delle magnifiche sorti è oramai sempre più stanca e meno convinta e convincente, data la situazione del Paese, evidente a tutti meno che al suo primo ministro. La speranza della rivoluzione liberale è rinviata a data da destinarsi, e forse nemmeno alla destra prossima ventura, ma ad altri. Il sogno infranto, appunto.
Quanto alla Lega, il suo tessuto appare più solido, la realtà meno limacciosa. Ma la debolezza è evidente. Alla Lega si deve il merito storico di aver sollevato e imposto a tutto il ceto politico, almeno a parole, il tema del federalismo: che avrebbe potuto essere il più sostanziale disegno di modernizzazione riformatrice proposto al Paese – la carta vincente per uscire dalla sua perdurante arretratezza burocratica, istituzionale e politica, dando slancio alle sue realtà economiche e sociali. E infatti l’opinione pubblica l’ha preso sul serio, e l’elettorato ci ha creduto: un elettorato in alcune sue componenti assai più innovativo e riformatore, nelle sue idee come nelle sue pratiche professionali, di come è stato dipinto dai media. Ma a fronte di questo indubbio merito storico, cui si collega coerentemente l’idea di una rappresentanza territoriale anziché sociale o di interessi, sta il demerito altrettanto storicamente decisivo di non essere stata capace di costruire intorno a questo disegno una classe dirigente capace di portarlo avanti con competenza e determinazione. Ciò che appare più una scelta esplicita del suo leader che una mera casualità o incapacità: ed è comunque, in entrambi i casi, una responsabilità politica evidente. Il compiacimento bonapartista del leader maximo ha prodotto per paradosso il partito più centralista d’Italia, in cui il mantra preferito dai dirigenti, quando gli si chiede un’opinione, è il servile “deciderà Bossi”, in assoluta contraddizione di metodo con quanto dichiarato come ideale (e le contraddizioni prima o poi scoppiano…). E, per derivazione, il familismo amorale della risibile investitura al figlio, del cerchio protettivo della moglie, degli scandali a cui si mette il silenziatore, dell’impossibilità di dissenso, sempre stroncato sul nascere con durezza da centralismo togliattiano, a colpi di purghe, di espulsioni e di accuse di tradimento. Come inevitabile conseguenza sono emersi, con poche eccezioni, i mediocri, non in grado di fare ombra al capo, usi obbedir tacendo. Non si crea classe dirigente, in questo modo. Il risultato è il calo di consenso esterno, e l’emergere del dissenso interno (una buona notizia: l’inizio della democrazia…), non più nascosto da uno stile comunicativo ruvido che non diverte più nemmeno i fedelissimi e non fa più notizia sui giornali. Con un altro sogno infranto: il federalismo mancato, il grande risultato salvifico non ottenuto.
Bilancio complessivo: il centro-destra è riuscito a produrre una quantità significativa di delusi, che potrebbero essere un bacino elettorale a disposizione di una nuova seria offerta politica. Ma il centrosinistra non sembra capace di intercettare e di coinvolgere questo elettorato. Insomma, la maggioranza crolla, ma la minoranza non sembra capace di diventare maggioranza vera nel Paese. Di questo parleremo nella prossima puntata.
2 – continua
Allievi S. (2011), Seconda puntata. La rivoluzione mancata: Il centrodestra e il sogno infranto, in “Il Mattino”, 10 novembre 2011, p. 13