"L'opposizione del cambiamento" (che ancora manca)

Di fronte a un “governo del cambiamento” che sta effettivamente cambiando le carte in tavola, e forse proprio sparigliando il gioco della rappresentanza, nello stile e nei contenuti (in maniera benemerita per chi lo sostiene; preoccupante e perfino eversiva per chi lo avversa), quella che manca è “l’opposizione del cambiamento”. O meglio ne abbiamo due, scollegate tra loro: una in parlamento, che fa il suo lavoro in aula, senza parlare né essere ascoltata nella società; e una nel paese, che si esprime nelle prese di posizione delle categorie, dei ceti produttivi, dei corpi intermedi, della società civile, talvolta assumendo le forme e i rituali della politica partitica (dalle petizioni alle manifestazioni di piazza). Ma due debolezze disunite non fanno una forza. Quella che manca, è un’opposizione che sappia legare entrambe le cose. Continua a leggere

Strasburgo: la violenza, la paura, e quel significato che non si trova…

E’ difficile per chiunque – anche specializzato su questi temi – entrare nella mente di una persona come l’attentatore di Strasburgo. Ma non sembra di vedere dietro questo attacco grandi strategie, ancora meno un risveglio globale del terrorismo islamista. Si dà troppo credito alle sue espressioni, così facendo: anche se le reti di incontro, e prima ancora di indottrinamento, sono una realtà – più spesso come reti di supporto locale che non davvero collegate a un network globale centralizzato. Si tratta probabilmente di un delinquente radicalizzato come molti: uno che solo nel fanatismo religioso ha trovato una ragione e una parvenza di giustificazione a una vita sbandata, e che – ormai braccato (la polizia l’aveva cercato lo stesso giorno per arrestarlo) – ha probabilmente immaginato una qualche redenzione finale nell’attacco indiscriminato a degli infedeli presi a casaccio, mettendo in conto anche la morte, ma non prima di aver fatto pagare cara una vita irrisolta. Abbiamo la sensazione che sia così per molti, in situazioni diversissime: cambia il nome della bandiera (quando c’è), il nichilismo di fondo è lo stesso. Continua a leggere

Elogio del meticciato

Ce lo dicono anche le leggi dell’evoluzione: le specie che sopravvivono meglio (e all’interno di esse gli individui che hanno più probabilità di sopravvivere e riprodursi con successo) sono quelle capaci di mutare, di svilupparsi al di fuori delle linee prescritte. E ciò avviene nell’incontro con ambienti diversi, mutate condizioni, ma soprattutto dalla capacità di apprendere da apporti esterni, e di integrarli, introiettarli, inglobarli, farli propri. Ciò che avviene eminentemente nell’incontro, nell’ascolto reciproco, nell’ibridazione, nel meticciato. Che non è solo la capacità mimetica, esteriore, pure importante, del camaleonte, che gli consente di sopravvivere in contesto ostile adattandosi all’ambiente in maniera innovativa: quello è solo un primo passo, ma è ancora una forma di conformismo. Mentre quello che fa fare i salti evolutivi maggiori è invece spesso un marcato “difformismo”, la capacità creativa di mischiare elementi diversi in una sintesi innovativa. Continua a leggere

Iperconnessi: gli effetti dei social su privacy e tempo libero

Succede a tutti di essere importunati in orari una volta dedicati ad altro – cena inclusa – da offerte di servizi e prodotti di vario tipo. E già con il telefono. I nuovi canali di comunicazione e i social media hanno tuttavia peggiorato la situazione, producendo una nuova invadenza di massa e una sindrome da fortino assediato (la propria privacy e il proprio tempo), da difendere con le unghie e con i denti. Continua a leggere

Il mondo senza morte

Senza morte (Rubrica “Il mondo se”)

6 dicembre 2018

di Stefano Allievi. Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova. Continua a leggere

Meno sicurezza: per scelta del governo

Per il governo l’immigrazione sembra essere sempre meno un processo da gestire o eventualmente un problema da risolvere: e sempre più un tema da agitare. Non qualcosa di cui occuparsi, ma qualcosa da cui essere occupati. Non qualcosa da fare, ma qualcosa di cui parlare. Per varie ragioni. Continua a leggere

Capitale umano: se il sapere non è più un valore

L’impoverimento del capitale umano – in un’epoca in cui il suo valore è sempre più alto e il suo effetto moltiplicatore decisivo – è una notizia che dovrebbe inquietarci. Tutti, dalle famiglie agli stati con maggiore consapevolezza, tendono a spendere di più per formarlo: ma se non è abbastanza, se non ha occasione di esercitarsi, e ancora di più se lo perdiamo, si tratta non solo di uno spreco, ma di un disinvestimento dal futuro. Continua a leggere

Tutto per niente…

Un popolo ha il diritto di pagare caro un sogno: una rivoluzione, l’instaurazione di una nuova religione, una grande conquista territoriale, il crollo di un ordine costituito, il tentativo di fondarne un altro, magari anche un’utopia tecnologica…
Sono i momenti grandiosi e terribili della storia. E’ successo mille volte. E succederà ancora.
Non è il caso dell’Italia. Qui rischiamo di pagare caro un mediocrissimo, miserabile sogno di potere di alcuni, senza alcuna intrinseca grandiosità, che diventerà l’incubo dei più: anch’esso, senza alcuna grandiosità. Non avremo nemmeno la soddisfazione di avere vissuto un momento magico, magari anche tragico, ma unico.
No, sarà stato tutto per niente. Neanche la soddisfazione di poter dire un giorno: “io c’ero…”

Usare le mani: il sapere dell'esperienza, la bellezza del fare

Lo diciamo spesso, a titolo di merito: l’Italia è la seconda manifattura europea, e il Nordest in essa ha un ruolo decisivo. Forse pensiamo meno a quello che letteralmente significa. Mani-fattura, manu-fatto: fatto a mano. Anche quando non lo è proprio del tutto, quando si tratta in realtà di un prodotto industriale, ma curato come fosse un pezzo unico. Sinonimo di qualità, di attenzione, di carattere, di personalità. Come quando, a proposito di calligrafia o di pittura, diciamo che si riconosce la mano dell’artista. Continua a leggere

Sicurezza e integrazione: le contraddizioni del decreto Salvini

Espulso un richiedente asilo spacciatore a Treviso: e altri sono pronti per il medesimo destino. Il segnale per la pubblica opinione – certamente apprezzato – è chiaro: se chiedi asilo in un paese, e sei da questo transitoriamente mantenuto, non lo tradisci, poi, facendo il delinquente. Ed è giusto che, se lo fai, tu venga rispedito da dove vieni. Inoltre, l’espulsione può funzionare da deterrente per altri richiedenti asilo tentati di percorrere una facile scorciatoia.
Non cambia niente, invece, rispetto allo spaccio. Nella percezione comune, meno spacciatori può significare più sicurezza. Ma gli uni sono facilmente sostituiti dagli altri. Ad andare dentro e fuori le patrie galere (troppo spesso, e troppo presto fuori, anche quando dovrebbero stare dentro) sono delinquenti e spacciatori italiani e stranieri. In quanto delinquenti, non per la loro provenienza: a causa di un sistema farraginoso e inefficiente, che spesso non tutela davvero l’ordine pubblico. In questo senso, che lo spacciatore in questione subito rilasciato a piede libero sia italiano o straniero, non cambia nulla: è il sistema che è sbagliato. Con l’espulsione degli stranieri, lo miglioriamo? No, resta lo stesso: eliminare gli stranieri, espellendoli, non cambia nulla. Loro sono solo, da qualche anno a questa parte, i sostituti degli italiani nell’ultimo anello dello spaccio: quello più visibile, a maggiore rischio di essere beccati. Immaginiamo non ci fossero più – nemmeno uno: niente più spaccio? Neanche per idea, finché la domanda (di italiani, in maggioranza) non calerà. Semplicemente verrebbero ri-sostituiti da italiani, preferibilmente minori, più difficilmente imputabili. Risolto il problema, dunque? Purtroppo, no. Il problema dell’integrazione ha altre logiche, che richiederebbero altre iniziative.
E’ un problema che si ripropone su un altro piano, a scala ben maggiore. Prendiamo un altro effetto, molto pubblicizzato, del decreto Salvini: la drastica diminuzione della spesa pro capite pro die per i richiedenti asilo, ovvero dei finanziamenti erogati a favore degli enti che se ne occupano (che, lo ricordiamo, lo fanno al posto dello stato, che non lo fa, mentre sarebbe compito suo). Passiamo dagli attuali 35 euro al giorno a 25 o addirittura 19, come si sostiene nelle stime più ottimistiche: il minimo europeo, probabilmente. Poiché le spese di vitto e alloggio sono di fatto incomprimibili, cosa si taglierà? I corsi di italiano, la formazione professionale, l’inserimento lavorativo, i mediatori culturali, gli educatori: ovvero, le politiche di integrazione. Risultato certo? Meno integrazione. Conseguenza probabile? Meno sicurezza, più conflitti. Perché la sicurezza è data precisamente dalla condizione di regolarità e dall’efficacia dei processi di conoscenza e integrazione (abbiamo precedenti chiarissimi, in proposito: per qualche tempo i rumeni sono stati al vertice degli indicatori di criminalità. Dopo l’ingresso nell’Unione Europea, e l’ottenimento della libera circolazione della manodopera, gli indici di devianza sono precipitati. Vuol dire che il tasso di criminalità non era dovuto all’essere rumeni, e nemmeno all’essere stranieri, ma all’essere irregolari). Ed è un investimento, non una spesa improduttiva: ripagato rapidamente con le tasse ottenute dal lavoro regolare. Perché buttarlo via?
Non è un problema di schieramenti politici. Le scelte sono del governo attuale, ma il disastro di un’accoglienza gestita malissimo, senza progetto e senza controlli, è eredità dei governi precedenti: il disastro viene da lì. Il problema è decidere come ne usciamo. Non basta trovare un capro espiatorio: serve un progetto. Vogliamo più sicurezza? Sì. La risposta è più integrazione? Sì. E allora lì si deve lavorare: favorendola, non rendendola più difficile. Altrimenti pagheremo domani il prezzo del problema che non abbiamo voluto affrontare oggi. E il conto sarà molto più salato.
Integrare per essere più sicuri, in “Corriere della sera – Corriere Nordest”, 11 novembre 2018, editoriale, p. 11