"E adesso, pedala…" La bicicletta tra fatica e libertà

“Hai voluto la bicicletta? E adesso, pedala…” A tutti è capitato di sentir pronunciare questa frase: fuori contesto, cioè lontani da una bicicletta. Come metafora popolare, significativa di altro: non di un premio, ma piuttosto di una punizione. O quanto meno della vita intesa come fatica, prevalenza del senso del dovere sul godimento e sul piacere, necessità. E, anche, come una specie di automatismo, accettato senza discutere, perché si è sempre fatto così. Continua a leggere

Suicidi in azienda. Ragioniamo sui perché

E’ sempre difficile, e richiede delicatezza, entrare nella vita e ancora più nella morte altrui. Ma è utile provarci, se possiamo ricavarne qualche lezione utile per tutti. E’ il caso della storia dell’imprenditore Emanuele Vezù, suicidatosi nella sua impresa di Vigonza. Così simile ad altre storie che abbiamo raccontato in questi anni. Anche se – ed è bene ricordarlo – si tratta oggi di un caso isolato: non più di una serie di episodi concatenati, che insieme diventavano fatto sociale, come in passato. Non sappiamo se vuol dire che la crisi è meno grave, o che abbiamo imparato a reagire, ma ne prendiamo atto, come di cosa in sé positiva. Continua a leggere

E se non avessimo più proprietà? Se non possedessimo più le case?

Senza proprietà

4 Marzo 2019

di Stefano Allievi. Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

Difficile pensare un mondo senza più proprietà, soprattutto in Italia, dove ad esempio – potendo scegliere – la percentuale di chi decide di acquistare una casa invece di vivere in affitto è ancora molto alta. Ma come sarebbe il mondo se…

Potremmo diventare una società senza beni immobili di proprietà individuale. Una società leggera, fluida, liquida: con più navi in movimento che porti dove volersi ancorare. Sembra strano a dirlo: in Italia, in particolare. Dove le case di proprietà sono il 72,3% del totale (la percentuale è alta anche per le seconde case: oltre il 15% degli italiani ne ha una; in Olanda e in Germania sono poco più del 5%, per dire).

Pochi paesi hanno percentuali di proprietà delle prime case più alte delle nostre: dalla Spagna (il 77,8%) alla Norvegia (82,7%). La maggior parte ne ha meno: la Francia il 64,9%, il Regno Unito il 63,4%, la Germania il 51,7% – la metà del totale. Ma soprattutto, la tendenza, ovunque, è verso il calo: sempre più si predilige l’affitto, soprattutto tra i giovani.

Paradossalmente, è tra gli immigrati che si riscontra, in molte città europee, una percentuale di case in proprietà superiore a quella degli autoctoni: ma è perché loro hanno molte più difficoltà a trovare case in affitto – una delle molte forme di discriminazione che subiscono. Assistiamo dunque a un fenomeno imprevisto.

Pezzi significativi della società sono, o si sentono interiormente, sempre più mobili, e in ogni caso sempre meno bisognosi di ancorarsi, anche simbolicamente, al mattone.

La casa di proprietà non è più uno status symbol, e nemmeno una necessità economica. E la cosa non è senza conseguenze pratiche: che ce ne andiamo o meno, il fatto di metterlo in conto ci fa pensare alla casa meno come un fine e più come un mezzo.

E quindi meno come un deposito in cui sta il nostro passato, e più come la cabina di una nave o un appartamento affittato per le vacanze, dove abita solo il nostro presente: e che bisogna essere pronti a lasciare portandosi via solo l’essenziale. Cosa che, grazie alla tecnologia, è diventata più semplice: per molti di noi, le cose a cui teniamo veramente, anche in termini di ricordi, si sono smaterializzate – dalle nostre foto alla nostra musica, dai nostri libri al nostro lavoro, fino alle nostre esperienze relazionali, tutto sta nel nostro computer o, attraverso i cloud, la mail e i social, addirittura in un computer qualsiasi, con cui collegarci alle nostre abituali realtà di riferimento. E spesso portare con noi il nostro laptop, o al limite anche solo il nostro cellulare, è tutto quello che ci serve veramente per tenere in piedi la nostra vita e i nostri rapporti, anche di amicizia – essi pure deterritorializzati.

Praticamente, un ideale filosofico, e anche religioso, praticato in passato da pochi, che si democratizza, diventando esperienza di massa: praticata non per una scelta ascetica, ma al contrario di benessere personale, di leggerezza – non solo materiale.

Risultato: il mattone costa sempre molto, specie in città, ma vale meno, nelle nostre vite. Non è più il “bene rifugio” per definizione. In fondo ce ne è più del necessario. La popolazione cala, le case disponibili aumentano di numero: molti le hanno ma non ci abitano e non le usano, o solo in alcuni periodi dell’anno. E l’aumentata mobilità (per studio e lavoro, ma anche solo per piacere), spesso a tempo determinato, ci spinge a non cercare più un radicamento: nemmeno come “abito mentale”.

La fragilità dei rapporti familiari (la metà dei matrimoni finisce in divorzi, che a loro volta producono famiglie ricostituite altrove) è un ulteriore fattore di mobilità: le radici sono sempre più provvisorie – semmai dovremmo parlare di modalità di radicamento temporaneo, un ossimoro di per sé interessante.

E così, come a proposito della mobilità, che fa sì che il mondo si divida sempre più tra chi si muove spesso e chi è radicato nel proprio luogo d’origine, anche a proposito della proprietà, il mondo si dividerà sempre più tra chi ne sente il bisogno, e chi non lo sente più.

In mezzo ci saranno agenzie che saranno proprietarie di molte case, e le gestiranno, o ci aiuteranno a farlo, come già succede nelle forme sempre più diffuse di affitto temporaneo – tipo Airbnb, per capirci. Mentre alcuni di noi torneranno nomadi, come all’origine dell’uomo: proprietari al massimo di una tenda, con pochi beni trasportabili di contorno – un tappeto, una teiera… – e il resto sarà affidato alle nostre protesi tecnologiche.

[pubblicato su Confronti 03/2019]

Le piazze e i partiti. La società reagisce, la politica ancora no

Il paese si trova di fronte a un governo inedito: che si fa opposizione da solo, in cui il livello di divisione interna non ha precedenti, ma che è capace di superare le divisioni non mediando ma scambiando (io approvo una cosa che interessa a te se tu approvi una cosa che interessa a me), cercando di portare a casa più risultati simbolici possibili prima delle elezioni europee, senza troppo preoccuparsi della loro reale efficacia. Ma di fronte a una crisi che si aggrava sempre di più, con tutti gli indicatori (debito, occupazione, produzione, reputazione internazionale) negativi, e scelte di politica economica in corso che rischiano di aggravarli ulteriormente, il paese non si può permettere di zigzagare senza prospettiva. Continua a leggere

Demografia e migranti: come l'Italia spreca il proprio capitale umano

L’Italia ha due saldi fortemente negativi: quello demografico (più morti che nati) e quello migratorio (più emigranti che immigrati). Il primo è una tendenza recente ma ormai stabilizzata perché già nel 1995 eravamo il paese con la più bassa natalità al mondo. Il secondo è un fenomeno antico, ma è ritornato d’attualità negli ultimi anni. Solo che oggi, per la prima volta, queste due tendenze si sommano, provocando un corto circuito drammatico.
Ma c’è un rapporto di causa/effetto tra questi fenomeni? Siamo costretti a emigrare perché «gli immigrati ci portano via il lavoro»? Sarebbe facile se fosse così: ma vale solo per pochissimi. Per i più, se non ci fosse immigrazione, l’emigrazione ci sarebbe comunque. Perché chi parte, nella stragrande maggioranza dei casi, cerca lavori diversi da quelli che trova chi arriva (che peraltro sono in numero minore: l’anno scorso, meno della metà di chi è partito). La piccola percentuale che rimarrebbe è dunque solo quella senza titoli di studio e senza qualificazione: che è stata effettivamente danneggiata dal dumping sociale prodotto da immigrati disposti ad accettare salari più bassi.
Gli stranieri sono occupati soprattutto in settori non qualificati: colf e badanti; braccianti agricoli (soprattutto stagionali); manodopera non specializzata in edilizia, manifattura a basso valore aggiunto e servizi; logistica (che è il nome chic per intendere chi scarica le merci nei magazzini e guida i mezzi di trasporto). Tutti lavori che i nostri giovani diplomati e laureati (quasi l’80% del totale) per lo più non farebbero: ciò spiega in parte i Neet (not in education, employment and training: i giovani che non lavorano né studiano) e molto l’emigrazione. C’è dunque un gigantesco problema di mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro, a sua volta dovuto a una certa arretratezza (maggiore di quella che ci piace pensare) di alcuni settori del mercato del lavoro (ciò spiega perché la percentuale di laureati sia il 18,7%, ma tra gli «expat» salga a quasi il 30%). E di questo dovremmo parlare, più che di immigrazione. Ma, per la politica, sarebbe più scomodo, perché richiede impegno e competenze: molto più facile scaricare su un capro espiatorio.
All’interno di questa situazione c’è poi un doppio paradosso, che produce un enorme spreco di capitale umano. Da un lato, molti stranieri svolgono lavori meno qualificati rispetto al titolo di studio che possiedono. Dall’altro, molti italiani emigrati finiscono per ritrovarsi nella stessa situazione: a svolgere, a Berlino o a Londra, lavori che in Italia non accetterebbero. Giustificati da una attrattiva culturale più che strettamente economica: l’essere in luoghi interessanti, con maggiori potenzialità di mobilità sociale, lontani dal controllo parentale, ecc. Ciò spiega il curioso fenomeno per cui, per alcuni di essi, le rimesse, che di solito accompagnano l’emigrazione e arricchiscono il paese di provenienza, spesso viaggiano al contrario: dalle famiglie in Italia ai loro figli all’estero, che per fasi più o meno lunghe non ce la fanno a mantenersi. Un dato che dice più sull’arretratezza culturale o la poca appetibilità delle zone di provenienza che sull’immigrazione.
Demografia e migranti: come l’Italia spreca il proprio capitale umano, in “La Stampa”, 23 febbraio 2019, p. 13
https://www.lastampa.it/2019/02/23/cultura/demografia-e-migranti-come-litalia-spreca-il-proprio-capitale-umano-yzGOkJgp2sKxmaCurybTmJ/premium.html?fbclid=IwAR3DFZxqWeB2bOrjaRPbLsMQ81c30Xn39hZadzMld1-4HSPaQZiL7nzby2A

Da regolare a clandestino. Per niente.

Soumaila è un richiedente asilo. Era passato per il progetto “Cultura e accoglienza” dell’Università di Padova, per imparare l’italiano. Aveva trovato un lavoro regolare, e – con fatica, e qualche aiuto, perché si affitta malvolentieri agli stranieri – una casa. Adesso è un clandestino. Due anni di accoglienza, di impegno (suo e di altri), di soldi, buttati via. E, come lui, tanti altri. L’Italia non ci guadagna niente: un lavoratore regolare, che si integra e paga le tasse, in meno, e un irregolare in più. Lui, ha perso tutto.
La domanda è inevitabile: che senso ha tutto questo?
Di seguito, la storia, raccontata da una ragazza italiana, Linda Zinesi, che l’ha conosciuto. Continua a leggere

Filantropia e impresa: aiutare come mestiere

Il Nordest è economia, produzione, mercato: dalla manifattura al turismo, e tutto quanto ha a che fare con i mitici schei. Ma è anche altro: che ha anch’esso a che fare con gli schei, ma in altro modo, o è capace di produrre e scambiare anche altre cose – tempo, condivisione, sostenibilità, umanità. Ci riferiamo alla grande ricchezza del volontariato, del terzo settore, delle organizzazioni non governative. Ci aggiungiamo l’impegno pervasivo del mondo religioso: dalle parrocchie agli ordini religiosi e missionari. E ci mettiamo pure l’impegno civico che passa per molti altri canali locali: dalle pro loco alle società sportive, dalle sagre ai doposcuola ai tornei di gioco. Ce lo dimentichiamo, ma anche questa è economia: anzi, lo è di più, nel senso profondo, etimologico, di nomos dell’oikos, di legge e organizzazione della casa (in casa abitano piccoli e grandi, sani e malati, persone produttive e no, dopo tutto). E può diventare (e spesso diventa) impresa: anche qui, nel senso etimologico e più nobile della parola, con tutte le sue implicazioni (impresa vuol dire attività, compito da affrontare, ma anche difficoltà). Il fatto che queste numerosissime attività non vengano contabilizzate nelle statistiche, e non contribuiscano al PIL, dimostra solo la povertà esplicativa di questo indice di misurazione, ormai datato e sempre più fuorviante, man mano che i beni relazionali e le attività sociali acquistano sempre più importanza e peso nella vita delle persone, delle economie, degli stati. Continua a leggere

Gli sgomberi dei centri di accoglienza per richiedenti asilo: come sbagliare facendo una cosa giusta

Il ministro dell’Interno l’ha già preannunciato: dopo Castelnuovo di Porto, il prossimo passo sarà la chiusura del Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo)  di Mineo, il più grosso e discusso d’Italia. Continua a leggere

La Sea Watch e l'emergenza infinita. Come NON si gestiscono le migrazioni

Il dilemma non è tra porti chiusi e porti aperti. I porti restano aperti per definizione: le chiusure occasionali alle navi delle ONG straniere (ma anche della Guardia Costiera, come nel caso della Diciotti: e qui il paradosso della chiusura – governo italiano contro nave italiana – si fa stringente) non sono fondate, per ora, nemmeno su atti formali di governo, ma solo su decisioni estemporanee, spesso nemmeno messe per iscritto, se non nella forma del tweet e del post su Facebook. Continua a leggere