La Sea Watch e l'emergenza infinita. Come NON si gestiscono le migrazioni
Il dilemma non è tra porti chiusi e porti aperti. I porti restano aperti per definizione: le chiusure occasionali alle navi delle ONG straniere (ma anche della Guardia Costiera, come nel caso della Diciotti: e qui il paradosso della chiusura – governo italiano contro nave italiana – si fa stringente) non sono fondate, per ora, nemmeno su atti formali di governo, ma solo su decisioni estemporanee, spesso nemmeno messe per iscritto, se non nella forma del tweet e del post su Facebook.
Il problema è come si gestisce l’immigrazione, cosa si fa. Sia nei confronti degli sbarcati, o aspiranti tali: quella che ci si ostina a chiamare emergenza. Sia nei confronti dell’immigrazione come fenomeno strutturale e di lungo periodo.
La gestione emergenziale dei singoli casi di salvataggio in mare (oggi quello della Sea Watch: ma ieri era l’Aquarius e domani chissà) mostra tutta l’insipienza e l’inadeguatezza non del governo italiano solamente, ma complessivamente dell’Europa. Settimana dopo settimana, nave dopo nave, assistiamo a una sconcertante lotteria, una riffa europea tra stati che rasenta il grottesco: in cui un premier telefona all’altro per decidere dove far sbarcare una nave, e quanti profughi accettare, litigando sulla quantità e sul prezzo, come in un mercato di quartiere, per poi ricominciare da capo la volta successiva. Sarebbe più utile, invece, che i leader europei impiegassero il proprio tempo in cose più importanti. Per esempio, occupandosi delle cause del problema, invece che solo delle sue conseguenze: dell’ultimo miglio, per così dire.
E’ evidente che il contrasto all’immigrazione irregolare – doveroso – si può attuare, strutturalmente, solo con una politica di accordi con i paesi di provenienza e di transito degli immigrati: accordi che inevitabilmente devono comportare un dare e un avere. E soprattutto riaprendo dei canali regolari di ingresso, attraverso i quali controllare e selezionare le migrazioni. Canali (quote, decreti flussi, li si chiami come si vuole) che sono il solo modo sensato per non avere solo immigrazione irregolare, e anche per fornire una contropartita, insieme a politiche di sviluppo sostanziali, ai paesi di provenienza di cui si chiede l’aiuto in termini di controllo e magari di accettazione dei rimpatri di irregolari. E’ da quando sono chiusi i canali di ingresso regolare che ci ritroviamo con il 100% di immigrazione irregolare. Non solo: è da quando abbiamo smesso di accettare i migranti economici (anche quelli che ci servono, e che sono già oggi indispensabili all’economia italiana) che ci ritroviamo solo (a norma delle nostre leggi e per scelta nostra) con dei richiedenti asilo, spesso solo presunti. Con il risultato di dover gestire i costi del controllo, del salvataggio in mare, di un’accoglienza non pianificata (quando non malfatta e in qualche caso delinquenziale), della gestione delle pratiche, per poi rispondere loro, in maggioranza, che profughi non sono, e trasformarli da quel momento in clandestini – anche quelli che nel frattempo hanno trovato un lavoro e si stanno integrando. Più ancora: da quando sono cessate le possibilità di ingresso regolare, e quindi di controllo e selezione da parte dello stato, le persone arrivano in maniera disordinata, il livello di istruzione dei migranti è calato, il numero di minori stranieri non accompagnati è aumentato, e le possibilità di integrazione (dato che a molti non verrà data alcuna forma di asilo) sono diminuite. Senza contare l’aumento dei morti in mare, e il costo morale, economico e sociale di aver affidato un compito che prima era dello stato (il controllo dei confini e dei flussi), di fatto, ai trafficanti internazionali di manodopera. Un capolavoro, non c’è che dire. Che ci mostra, peraltro, come la gestione dell’immigrazione come fenomeno strutturale e fisiologico sia direttamente legata alle questioni emergenziali e patologiche di cui passiamo il tempo ad occuparci. Più esplicitamente ancora: la mancanza della prima produce inevitabilmente le seconde. Forse, allora, sarebbe il caso di pretendere dai nostri governanti – italiani ed europei – un’assunzione di responsabilità sul futuro, invece di un eternamente ripetuto e inutile braccio di ferro sul presente.
Migranti, la riffa europea, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere di Bologna”, 31 gennaio 2019, editoriale, p. 1