Scuola, social network, e alfabetizzazione digitale. È urgente una formazione specifica. Per i docenti, prima che per gli studenti.
Le storie individuali possono servire ad approfondire un problema più ampio e diffuso. È questo lo spirito con cui va letto il caso dell’insegnante che, dopo aver dato 1 al tema di un alunno che ha copiato da internet, ha pensato bene di postare parte del tema, il voto e le sue considerazioni in proposito, su Facebook.
In questione non è il voto: la preside conferma che il regolamento didattico prevede l’1 in caso di copiatura. Altri insegnanti o istituti avrebbero probabilmente scelto diversamente, e c’è sempre un certo grado di discrezionalità del docente nella scelta del voto, ma quel che conta è lo scopo punitivo, e dissuasivo: in sé comprensibile, anche se ne potremmo opinare l’utilità, in favore di altri strumenti, più pedagogicamente articolati.
Il problema sta nella pubblicizzazione, e nell’uso maldestro dei social network, privi della necessaria minimale alfabetizzazione digitale. Platealmente dimostrata dall’insegnante prima nel difendere la propria scelta, e poi nel reiterare la dose, aggiungendo, per giustificarsi: “l’alunno ha 20 anni e frequenta l’ultimo anno. Tra tre mesi dovrà affrontare l’Esame di Stato e successivamente cercarsi un lavoro. Ebbene, ha copiato un tema svolto da internet. Gli errori di sintassi o di grammatica hanno valore relativo di fronte a fatti di questa gravità. Non stiamo parlando di un adolescente fragile, ma di un adulto incapace di prendersi delle responsabilità”. Con ciò informandoci che l’alunno è pluribocciato, che ha pure fatto errori di sintassi e grammatica, e per giunta è “un adulto incapace di prendersi delle responsabilità”. Giusto per capire la gravità della cosa, immaginiamola a parti invertite: detta di noi da un nostro superiore, o detta di nostro figlio, senza mediazioni. Mostrando una totale mancanza di comprensione del funzionamento del mezzo che si sta usando. Che riguarda molti altri.
È infatti uno sport abbastanza diffuso, anche tra colleghi universitari, quello di usare i social network, e in particolare Facebook (di per sé già un mezzo da boomer, obsoleto e riconducibile a una fascia d’età abbastanza precisa – grosso modo, il mondo degli adulti, dato che i giovani hanno trasmigrato altrove), come sfogatoio, e anche per ironizzare sui ragazzi e le loro performance in classe o agli esami: la quantità di respinti a un appello, una certa maligna soddisfazione nel raccontare un episodio di crassa ignoranza, o nel compilare un intero stupidario delle risposte più ridicole a una domanda di qualche tipo.
Per un insegnante c’è l’ulteriore cautela del ruolo educativo e di riferimento che si svolge, che dovrebbe aiutarlo a contenersi, anche quando non parla di scuola. Ma il problema è più generale: l’incapacità di comprendere che i social network sono pubblici, visibili, non limitati a una cerchia ristretta, e non equivalgono dunque a una chiacchierata tra amici. Persino una chat chiusa di Whatsapp è in realtà aperta: perché un dispositivo può capitare in mano altrui anche senza la volontà che ciò accada, e perché comunque un messaggio può essere facilmente condiviso senza che noi lo sappiamo. Figuriamoci Facebook, Twitter, e altre diavolerie collettive. Non possono e non debbono dunque essere utilizzati come se fossimo tra quattro mura: il tenore dei messaggi, il loro stesso contenuto, andrebbe controllato e misurato con cautela, come se si trattasse di un discorso pubblico, semmai. Invece moltissimi adulti lo usano menando fendenti virtuali – come Napalm 51, il personaggio di Crozza che si indigna con tutti sparando complotti a vanvera sulla tastiera, di cui ridiamo perché in realtà è facile identificarcisi – o con atti di sostanziale bullismo digitale, come nel caso da cui siamo partiti. Senza nemmeno avere consapevolezza che di questo si tratta. L’ironia ulteriore è che sono le stesse critiche di cui facciamo oggetto i ragazzi e il loro uso dei social, senza accorgerci che noi abbiamo spesso ancora meno strumenti di loro, che nel mondo digitale ci sono nati: noi adulti, come tutti gli immigrati in un mondo nuovo, siamo spesso ancora più spaesati, talvolta incapaci di capire le regole di un gioco che pratichiamo senza che nessuno ce l’abbia veramente mai insegnato. Ecco perché l’alfabetizzazione digitale (morale, prima che tecnica) dovrebbe essere materia di studio. In primo luogo per chi insegna.
Anche i docenti a lezione di social, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 marzo 2022, editoriale, p. 1