Accoglienza profughi ucraini: non ripetere gli errori del passato

L’arrivo in poche settimane di quelle che saranno a breve decine di migliaia, e tra non molto forse centinaia di migliaia, di profughi ucraini in fuga, ci costringe a rivedere le nostre modalità di accoglienza: e, forse, anche i principi in base ai quali è stata praticata in passato.
Stavolta conta l’aspetto emotivo: per ora favorevole all’accoglienza, sulla base della drammaticità di quanto sta accadendo, del fatto che ci sentiamo (e siamo) fisicamente vicini alla guerra, del fatto che si tratta di europei (bianchi e cristiani: meglio essere espliciti fino in fondo) e li percepiamo come tali (quindi non è facile inventarsi comode scuse per essere contro o sentirsi diversi da loro), e infine del fatto che la presenza di una radicata comunità ucraina in Italia di 250mila persone ci costringe, in qualche modo, a una vicinanza personale. Può spiacere che in altri casi sia percepita una profonda distanza, ed è giusto indagarne i motivi, ma qui ci limitiamo a prenderne atto. Sapendo che l’emotività accogliente non durerà a lungo: già sono presenti, e si rafforzeranno, le voci critiche di chi dice “ma i nostri? perché questi ci passano davanti?”, da parte di italiani in situazione critica ma anche di stranieri arrivati in precedenti ondate (“perché loro li aiutate e noi no?”).
Detto questo, vediamo cosa fare e soprattutto non fare. Molta di questa migrazione si sente temporanea: le persone sfollate da noi, in gran parte donne e bambini, vorrebbero tornare a casa, appena possibile. Ma molte di queste propensioni al rientro sono illusorie, come per tutte le prime generazioni di migranti, e i più si installeranno definitivamente qui, raggiunti eventualmente, un domani, da coniugi e familiari sopravvissuti ai combattimenti, quando la guerra finirà. Bisogna dunque parlare di integrazione, non di accoglienza. Occorrono luoghi e strumenti per l’emergenza e i bisogni primari: avere un tetto per dormire, da mangiare e di che vestirsi (nonché supporto medico, non solo per le vaccinazioni, e psicologico); ma occorre anche un rapidissimo e professionale insegnamento della lingua italiana e inserimento scolastico per i piccoli, e nel mondo del lavoro per gli adulti (e una rapidissima consegna di documenti di soggiorno: già decisa, ma che la burocrazia delle Questure ritarderà, come sempre successo). Il contrario di quanto accaduto in passato, anche perché – a seguito di una narrazione popolarizzata ai tempi di Salvini al ministero degli interni – il governo Conte 1 ha tagliato i contributi per le spese di integrazione, quasi fossero superflue, abbassando le diarie conseguenti. È lecito esprimere una parola di rammarico anche per aver chiuso in quell’epoca molti SPRAR gestiti dai comuni, così che oggi quegli stessi comuni sono costretti a riattivare frettolosamente dei CAS (i Centri di accoglienza straordinaria) che inevitabilmente funzioneranno peggio.
A vantaggio dell’integrazione gioca il fatto che molti sono accolti in case private, da loro connazionali o da italiani. Questi meccanismi, come accaduto anche per i corridoi umanitari, facilitando l’attivazione di efficaci reti di solidarietà, favoriscono i meccanismi di integrazione, di conoscenza del territorio, di inserimento lavorativo, in tempi più rapidi rispetto all’accoglienza gestita dalle autorità locali o peggio dalle grandi agenzie d’intervento: ma occorre trovare il modo di finanziare e sostenere logisticamente, anche attraverso servizi comuni (ad esempio di apprendimento della lingua) queste reti, in tempi rapidi e con risorse adeguate. Il lavoro dell’integrazione non può essere lasciato sulle spalle di famiglie che già si attivano con generosità, in un contesto peraltro di aumento dei costi e quindi di maggiori difficoltà per tutti.
Un argomento di rilievo, ed è bene spiegarlo sin da ora alla pubblica opinione, è che in realtà questo arrivo, per quanto spiacevole nelle sue motivazioni e drammaticamente rapido nelle sue modalità, si mostrerà nel medio ma anche nel breve termine un vantaggio complessivo per il sistema Italia. Ricordiamo che veniamo da oltre un ventennio di saldo demografico negativo (più morti che nati, con un invecchiamento della popolazione che è il peggiore d’Europa, con contestuale caldo della forza lavoro e del numero di bambini), che ha raggiunto negli ultimi due anni la cifra record di oltre 400mila persone l’anno in meno (l’equivalente di una città come Bologna), aggravato dal fatto che fin dagli ultimi anni pre-Covid era negativa anche la bilancia migratoria, con più partenze che arrivi. La presenza di nuovi membri della società, giovani e pure acculturati (la percentuale di laureati sulla popolazione è maggiore in Ucraina che in Italia), si rivelerà dunque preziosa. Un aspetto che avremmo dovuto capire da molti anni anche con le migrazioni da altrove (con livello di istruzione più basso, è vero: ma per una richiesta di lavoratori in gran parte non professionalizzati, dalle colf ai manovali, dai braccianti agli addetti alle pulizie e magazzinaggio), ma che avremo la possibilità di introiettare oggi, che le sirene della xenofobia, di fronte a questa tragedia (non è stato così per i morti in mare), sono state opportunamente tacitate anche da parte di chi se ne è fatto alfiere in passato.

Più integrazione che accoglienza, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere di Bologna”, 22 marzo 2022, editoriale, p.1