Senza stranieri, tutti stranieri

Sembra paradossale dirlo, in una fase storica in cui la paura degli “altri” fa moltiplicare le richieste di barriere, di muri, fisici e simbolici, e apparentemente i gruppi umani, le società, tendono a separarsi, a frazionarsi in isole identitarie – nelle bolle dei social come in politica, nelle religioni come nei micronazionalismi e in geopolitica, nelle tribù sociali come nei quartieri urbani – alla ricerca di un’impossibile omogeneità o nel vano desiderio di rimarcare l’inesistente purezza di un indefinibile e ineffabile “noi”: ma ci avviamo verso una condizione in cui ci saranno sempre meno stranieri – o, meglio, lo saremo tutti, in qualche modo, per qualcuno, in qualche momento della nostra vita, ma con sempre meno drammatiche conseguenze.

I due processi sono del resto direttamente correlati: ricerchiamo identificazioni forti, ed è aumentata la domanda sociale in tal senso, proprio perché esse sono in realtà indebolite dalla possibilità che abbiamo di rifiutarle. Desideriamo confini più evidenti, proprio perché abbiamo la possibilità di attraversarli sempre più spesso. Vogliamo che ci dicano con certezza chi siamo, proprio perché abbiamo la possibilità di essere altro.

Viviamo nel segno di Hermes, il veloce dai calzari alati, dio degli incroci, delle porte della città, messaggero degli dei, tra il mondo e l’oltremondo, protettore dei mercanti (che per definizione scambiano e uniscono attraverso il commercio), ma significativamente anche dei ladri e dei bugiardi, capace di decifrare i significati (l’ermeneutica) superando la barriera delle lingue, della cui scrittura è l’inventore, e di interpretare i sogni, altro modo di mettere in comunicazione sfere diverse del vivere, e forse altri mondi. Mai come oggi, inoltre, la cifra interpretativa delle culture non è la loro manutenzione ordinaria affinché rimangano illusoriamente uguali a sé stesse, ma molto più radicalmente la loro trasformazione continua, anche grazie al meticciamento, alle forme di mixité personali, alla creolizzazione, a quella che a proposito di mode, cibi, stili e prodotti chiamiamo fusion. Ci si mischia nelle carni, perché ci si mischia nelle scuole, al lavoro, nei quartieri, nell’attività sportiva, nelle affinità elettive che spesso si manifestano maggiormente attraverso le diversità: anche perché abbiamo una scelta sempre maggiore tra opzioni differenti a disposizione, accompagnata dalla libertà stessa di scegliere. Mai come oggi tradizione, secondo una notissima frase di Mahler, significa custodire il fuoco (che è trasformazione continua e impetuosa), non adorare le ceneri (ormai morte e quindi sterili). E del resto il costruzionismo ci insegna da tempo che le tradizioni sono più spesso inventate che tramandate (The Invention of Tradition è il titolo di un libro seminale curato da Hobsbawm e Ranger) e le comunità più spesso immaginate che osservate (Imagined Communities è quello di un altrettanto famoso testo di Anderson).

Le tendenze a una mobilità sempre maggiore sono evidenti, e neanche la pandemia prossima ventura riuscirà ad arrestarle: del denaro, delle informazioni e delle merci, ma anche delle persone, dato che viviamo in un mondo in cui appena un anno fa il solo turismo – che è un pezzo soltanto della mobilità globale, che include le migrazioni – produceva oltre il dieci per cento della ricchezza e dell’occupazione mondiale. Sempre più persone vivono in maniera intermittente, o in periodi diversi della loro vita, in città in cui non sono residenti o in Paesi di cui non sono cittadini, cambiando progressivamente la nozione stessa di estraneità e alterità, di out-group, ma anche quella di in-group (che, tuttavia, se ne accorge meno), dimettendosi da identità e acquisendone di nuove. Un numero sempre maggiore di diritti viene attribuito anche a quelli che vengono “da fuori”: dai diritti civili a quelli sociali fino a quelli politici (in molte realtà il diritto di voto amministrativo viene attribuito anche ai non cittadini, purché residenti da un certo tempo, e di converso molti cittadini non lo esercitano). Gli stranieri dunque saranno tecnicamente sempre di più, ma grazie anche alle tecnologie e ai cambiamenti nella sfera dei diritti, si sentiranno (ci sentiremo) sempre meno tali. Tutti un po’ stranieri perché cittadini solo fino a un certo punto e anche cittadini di qualcos’altro – e al contempo meno estranei perché in fondo lo saremo tutti, nella misura in cui aumenta il senso di estraneità a un mondo complesso e in continua trasformazione, a prescindere dal luogo in cui ci si trova.

 

Senza stranieri, in “Confronti”, n.2, febbraio 2021, p.37