Scuole chiuse, socialità mancata: le ferite dei giovani che dureranno nel tempo

La scuola, per fortuna, è ripartita: e c’è solo da sperare che duri… È un pezzo, il primo, del lento recupero di normalità che dobbiamo ai giovani. Gli effetti della chiusura sono stati infatti, per alcune fasce di ragazzi, devastanti: e, nella maggioranza dei casi, dobbiamo ancora accorgerci della loro gravità. Le conseguenze sul livello di istruzione si vedranno infatti solo negli anni a venire: i drop-out scolastici (gli espulsi o autoespulsi dalla scuola superiore che non rientreranno, o quelli che dopo una lunga lontananza dai banchi, abbandonati malamente con una promozione regalata in terza media, faticheranno a proseguire); i ‘buchi’ in materie importanti che difficilmente saranno recuperati, o a caro prezzo; i passaggi problematici all’università dopo un biennio finale delle superiori passato più a casa che a scuola; e pure gli abbandoni per attività per così dire più lucrative, in direzione del lavoro precoce se va bene – a cui vanno aggiunti gli effetti dell’impoverimento delle famiglie, l’aumento della frattura che separa chi ha e chi non ha (incluso l’accesso alla e la dimestichezza con la tecnologia che ha supportato la didattica a distanza), che diventa tra chi sa e chi non sa.

Ma ci sono altri effetti della pandemia, anche loro di lungo termine, che in parte vediamo già oggi, che sono stati una conseguenza della chiusura delle scuole e della perdita di socialità conseguente, amplificata dalla chiusura di altri spazi di interazione sociale, come quelli dello sport, del divertimento, della cultura.

Gli psicologi lo sanno per esperienza. Le loro agende sono strapiene, e si allargano a occupare i fine settimana, per tamponare una richiesta crescente: mostrata da atti più gravi, come l’aumento diffuso di atti di autolesionismo e di tentati suicidi tra i giovani e giovanissimi, o meno gravi e quindi meno visibili, come un aumento delle tendenze solipsistiche, della chiusura in se stessi, delle timidezze che diventano croniche per mancanza di occasioni di incontro, della socialità spostata tutta sul web, che li e ci trasforma tutti, progressivamente, in hikikomori appena meno gravi (gli adolescenti giapponesi che si chiudono nelle loro stanze senza più uscirne, limitando la loro interazione con il mondo a uno schermo e una tastiera). Una solitudine diversa da quella ricercata da monaci e spiriti solitari: perché “beata solitudo, sola beatitudo” è vero solo in riferimento a una “moltitudo” da cui si può andare e venire – solo se l’hai scelta, non se ti ci sei ritrovato, o se l’hai subìta.

Si sta elaborando nell’inconsapevolezza, senza un progetto, senza averla veramente scelta, una nuova prossemica, fatta di incontri a distanza, o in presenza ma senza contatto, senza trasmettere le emozioni attraverso i volti, senza il calore che passa anche solo tra una mano e l’altra, dove una spalla su cui appoggiarti o piangere è privilegio riservato ai rapporti più stretti. Un adolescente mi diceva qualche giorno fa, senza alcuna autocommiserazione, che piange quasi ogni sera, prima di dormire: ma non per un motivo specifico. Quasi come se fosse il corpo stesso a piangere, come per un’attitudine spontanea delle membra, una pulsione, una memoria che non è riuscito ad elaborare in altro modo, nell’incontro e nella relazione che aiutano ad esprimere le emozioni. Ed è commovente che oggi gli atti della nuova trasgressione diventino l’abbracciarsi di nascosto dagli adulti: come cominciano a fare anche i bambini, magari nascondendosi nei bagni della scuola.

Ne usciremo, certo. Recupereremo una nuova normalità. Anche per questo, oltre che per ovvi motivi di salute, è urgente arrivare a una vaccinazione rapida che ci aiuti in questo processo. Ma è bene avere consapevolezza delle ferite del corpo sociale. In modo da aiutarlo a rimarginarle prima, e a superarle. Creando quanto prima le occasione per farlo.

 

Scuola, le ferite dei giovani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 4 febbraio 2021, editoriale, p.1