Tempo sacro, tempo profano: festività, aperture, orari

La polemica sulle aperture domenicali e festive di negozi e centri commerciali ci dice molto, sulle trasformazioni della nostra società.
La questione, contrapponendo i servitori di dei differenti (Dio o il denaro), è mal posta: ideologica. Proviamo a vederla laicamente, analizzando i processi in atto.
Da quando non c’è più spazio da conquistare, l’umanità ha cominciato a colonizzare il tempo: conquistandosi la possibilità di svolgere le proprie attività a prescindere da esso. La tendenza a vivere sette giorni su sette, di giorno e di notte, le proprie esperienze, è inesorabile: e sarebbe riduttivo limitarla al commercio. Tendiamo sempre più a soddisfare i nostri bisogni – anche relazionali, affettivi, di socializzazione, culturali, non solo economici e produttivi – nel momento presente, quando ci piace e si prospetta la possibilità di farlo: ecco perché le città tendono ad essere sempre più aperte, 7/7 e H24. Non è solo questione di commerci: anche i luoghi di socializzazione, di incontro, i luoghi dello sport, della cultura – e di conseguenza tutti i servizi correlati – tendono a dispiegarsi sulle 24 ore e senza pause festive. Perché i nostri orari sono sempre più diversificati, tra l’altro: e se vogliamo fare più cose, dobbiamo utilizzare i vari momenti della giornata e del calendario. C’è poi quel grande mondo che è il web, anch’esso ormai parte integrante della nostra vita: che dall’home banking allo shopping (da Amazon in giù), fino all’erogazione di servizi e agli incontri personali, è sempre aperto e non dorme mai. E a questo ci siamo ormai abituati: per cui se non troviamo qualcosa nel mondo reale non aspettiamo, ma lo cerchiamo in quello virtuale. Infine, va ricordato che moltissimi servizi, da quando esistono, sono di necessità sempre aperti, e non c’è notte o festività che tenga: sanità, trasporti, sicurezza, energia e tantissimi altri. E l’abbiamo sempre considerato, a giusto titolo, un progresso.
Nel tempo, abbiamo introiettato l’idea che ci sia un tempo giusto per le cose (diverso da quello naturale: infatti gli orari di lavoro sono quelli, e mandiamo i bimbi a letto alla stessa ora, che ci sia luce o buio). E’ una logica figlia dell’horarium inventato nei monasteri benedettini per separare il tempo sacro e il tempo profano, scandito dalla religione, poi perfezionato dalla razionalizzazione dell’uso del tempo nella riforma protestante che contribuirà alla diffusione dell’orologio (la qualità svizzera a cui ancora oggi si fa riferimento deriva dal fatto che la Ginevra di Calvino divenne la patria elettiva degli orologiai). Solo che ognuno il tempo lo vuole decidere a modo suo: non a caso le religioni, ma anche le grandi ideologie (si pensi alla rivoluzione francese), hanno sempre avuto l’ambizione di marcare il tempo, ognuna dotandosi del proprio calendario, dei propri giorni di festa, del proprio calcolo dei mesi, delle proprie festività annuali. E’ perché gli ebrei festeggiavano il sabato che i cristiani hanno scelto la domenica, e successivamente i musulmani il venerdì: per distinguersi, per separarsi gli uni dagli altri. L’esempio più clamoroso è forse il calcolo della Pasqua cristiana, unica festa mobile del calendario liturgico, calcolata in modo che non dovesse mai coincidere con quella ebraica.
In fondo, in epoca di pluralizzazione culturale e religiosa – in cui nella stessa città convivono i cattolici del Natale cristiano e gli ortodossi per i quali il Natale cade in altra data, i cinesi con il loro capodanno, l’Hanukkà degli ebrei, il Ramadan dei musulmani, e il tempo vuoto (vacuus, da cui vacanza) dei non credenti o non appartenenti a nessun gruppo in particolare – l’unico tempo che abbiamo in comune è quello laico: ma non tanto quello sancito dal calendario nazionale, dal 2 giugno o dal 1 maggio o dall’8 marzo (anche queste, feste solo di alcuni, e di cui si è perso progressivamente il significato), ma quello dedicato insieme sia alla produzione che al consumo, perfettamente simbolizzato dal verbo inglese to spend, che significa tanto spendere (soldi) quanto passare il tempo.
Ecco perché sono altrettanto giuste, e altrettanto difficilmente conciliabili, le esigenze di marcare simbolicamente il tempo, e quelle di riuscirci dando ad esso il medesimo senso per tutti.
Sacro e profano: Noi che pieghiamo il tempo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 18 dicembre 2016, editoriale, p.1