Ritorno delle religioni, scoperta delle differenze.

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Un ordinario pluralismo

La presenza di percentuali in crescita di immigrati, nelle società europee, non è solo un fatto quantitativo. Differenti livelli quantitativi su così tanti indicatori (economici, sociali, culturali, politici, religiosi) finiscono inevitabilmente per produrre un cambiamento qualitativo.
Come l’inquinamento, se vogliamo prendere un esempio in negativo, o come l’amore, se vogliamo prenderne uno in positivo: il loro arrivo sulla scena non si limita ad alterare alcuni indicatori, ma cambia completamente lo scenario. L’aria non sarà solo un po’ più inquinata, ogni volta che si raggiunge un più alto livello di agenti nocivi: ad un certo punto, oltre un certo limite, sarà irrespirabile, un’altra aria, che cambia tutto e ci costringe a cambiare tutto. E la relazione amorosa non sarà semplicemente un interesse un po’ più forte nei confronti di qualcuno: un po’ più di amicizia, un po’ più di curiosità nei confronti di una persona. Ad un certo punto, oltre un certo limite, sarà un’altra relazione, che ci trasforma e trasforma il nostro mondo, le nostre scale di priorità e di valori, l’intera nostra vita.
Gli indicatori che stanno cambiando a seguito della presenza di nuove popolazioni immigrate producono e creano nuove problematiche, nuovi processi di interrelazioni, nuovi conflitti e nuove soluzioni ai medesimi. In una parola, producono un cambiamento qualitativo. Niente di meno che un differente tipo di società, abbastanza diverso da quello immaginato con la nascita dello Stato-Nazione. Una società per la quale non abbiamo progetti né regole sperimentate: per la quale possiamo soltanto procedere per tentativi ed errori, imparando attraverso la nostra stessa esperienza. Come stanno facendo la maggior parte dei paesi europei.
Tra gli altri cambiamenti, quello probabilmente più visibile è quello che potremmo chiamare il ritorno delle culture – e particolarmente delle religioni – nello spazio pubblico europeo. Del resto culture e culto, come ci insegna l’etimologia, sono profondamente interrelate. Un fatto, questo, che abbiamo tendenza a passare sotto silenzio in occidente, dove i processi di secolarizzazione sembrano secolarizzare in primo luogo le letture della realtà (e nelle università in maniera anche più incisiva: ciò che, a nostro parere – piccolo dato sociologico del tutto inosservato –, non è estraneo alla sottovalutazione ‘accademica’ della persistenza, della forza e degli effetti sociali della religione declinata nel sociale); ma che le comunità immigrate, e alcune più visibilmente di altre, ci mostrano con particolare forza, suscitando sorpresa quando non meraviglia in taluni osservatori, magari pure multiculturalisti, ma più restii a cogliere lo specifico religioso delle culture medesime.
Il caso dell’islam, e particolarmente dell’islam in Europa è spesso considerato la più problematica e certamente la più problematizzata espressione di questo processo, anche se non è affatto il solo1. In effetti, non foss’altro che per questioni numeriche, e naturalmente a seguito del retaggio storico che il rapporto tra islam e occidente porta con sé, offre notevoli spunti di riflessione, inglobando al suo interno provenienze etniche differenziate, un certo numero di autoctoni (i convertiti), e delle seconde generazioni nate sul suolo europeo e progressivamente ‘autoctonizzate’, per così dire; nonché un’ampia serie di ambiti in cui si propone e ‘fa’ immagine: dal rinascere dei fondamentalismi e dal diffondersi del terrorismo ai rapporti di genere, passando per le relazioni tra stato e comunità religiose e per le dinamiche di mixité matrimoniale. Ma non è il solo a trovarsi in questa situazione. Esso mostra infine, più di altri, l’aumento (e le difficoltà) del pluralismo culturale, e più in generale il peso sempre più importante del ‘fattore C’ (‘C’ come cultura, nel senso ampio, più antropologico che sociologico del termine) nella vita delle società occidentali. Infine, come dicono molti osservatori, spesso con malcelato terrore, mostra in tutta evidenza, più di altri indicatori, il fatto che religion is back to the agenda.
La religione, e ancora di più la religione vissuta collettivamente e comunitariamente, ha un suo spazio e un suo ruolo nella costruzione dell’identità individuale e collettiva di nuclei significativi di immigrati.

Trasformazioni profonde

Tra le cose che sono cambiate – e forse quella che, senza essercene davvero accorti, ci inquieta di più – è la stessa idea di comunità statuale che abbiamo in mente. Noi abbiamo, o crediamo di avere, una definizione chiara dello Stato, sancita dai suoi tre elementi fondamentali, tramandatici dalla dottrina classica: un popolo, un territorio, un ordinamento. Un implicito corollario, che non è parte della dottrina ma è inciso nella coscienza collettiva di molti paesi europei, è una religione, con la possibile inclusione, che non contraddice il principio, di qualche minoranza religiosa riconosciuta (questa è anche l’intepretazione della sociologia classica, come in Durkheim – una interpretazione della religione implicitamente maggioritaria, nonostante l’autore, in quanto figlio di un rabbino, appartenesse soggettivamente ad una minoranza).
Per molti motivi, le migrazioni, ma anche altri processi interamente autoctoni (unificazione europea, micronazionalismi, ecc.), mettono in crisi questo quadro troppo omogeneo per essere vero: in tutti e quattro gli elementi descritti.

In particolare oggi la com-presenza di svariate entità religiose, resa ancora più visibile e in un certo senso drammatizzata dalla presenza di cospicue comunità di immigrati che si richiamano a religioni più o meno estranee alla storia europea, o almeno percepite come tali, ci costringe a fare i conti con quella che mi sembra pertinente chiamare, mutuando l’espressione dal dibattito filosofico recente, una diversa “geo-religione”.

Nello stesso territorio, peraltro soggetto a trasformazioni, popoli, culture e religioni diverse entrano in contatto tra loro, si mischiamo o non si mischiano, ma comunque co-esistono, con-vivono, co-abitano. Dal suo essere patologia, la pluralità è diventata o sta diventando fisiologia. È, o sta diventando, normalità, specie per le nuove generazioni. E, più ancora di questo, sta diventando norma, viene normata, sancita e dunque accolta a anche negli ordinamenti legislativi e sul piano giuridico. E questo già a prescindere dalla presenza di immigrati: per pluralismo interno, per così dire (si pensi ai dibattiti, non a caso così accesi, sui differenti modelli familiari e sul loro trattamento in termini di diritti). Un pluralismo che la presenza di culture immigrate non fa che accentuare, e rendere più visibile. Il problema è che le nostre costituzioni sono state scritte, e i nostri founding principles elaborati, quando la normalità, la fisiologia, era altra, e l’omogeneità, vera o presunta, prevalente.
Questa modificazione, che non avviene solo nella società ma è della società, è definitiva e irreversibile. L’omogeneità, se mai è esistita (e storicamente è più un mito che una realtà, ma le cui conseguenze sono ben reali), non è più un criterio di definizione della società: a livello sociale, culturale, politico, economico, religioso. La pluralizzazione avviene dunque su tutti i piani. E non è solo un fatto (ad esempio, la maggiore offerta culturale, sociale, religiosa, disponibile). E’ un processo. Che cambia la società, e dunque ci cambia. Cambia noi, e cambia gli altri attori in gioco, in primo luogo gli immigrati stessi: trasformando le nostre e le loro identità individuali e collettive.

Identità reattive

Oggi, a seguito e come effetto della pluralizzazione culturale, assistiamo nelle società a un doppio movimento, in due direzioni contrarie, anche se entrambe producono cambiamento: verso il meticciato, il formarsi di culture e situazioni sociali complesse e appunto ‘meticcie’, da una parte; e verso il ritorno e la chiusura identitaria, dall’altro. Il ritorno dei fondamentalismi, religiosi e non, degli etnicismi, dei razzismi, dei più diversi ‘tribalismi’, appartiene a questa seconda tendenza. Come anche quel curioso fenomeno che sono le ‘identità reattive’: ovvero la scoperta di avere un’identità collettiva in presenza di persone che ne hanno un’altra.
La globalizzazione ha creato un mondo in cui la geografia si è in un certo senso slegata da altre variabili, e lo spazio si è per così dire ‘contratto’, ha perso di importanza. Proprio l’apparente superamento di tutti i confini, o l’estensione e per così dire lo ‘stiramento’ dei confini fino a racchiudere il globo, fa tornare il bisogno di confini, di piccole patrie: fondamentalismi religiosi, localismi politici, etnicismi, razzismi, micronazionalismi, ma anche i neo-tribalismi metropolitani – sullo stile del tifo calcistico –, rispondono, quasi sempre inconsapevolmente, a questo bisogno. E’ il Jihad vs. McWorld, come l’ha chiamato Barber. In cui il Jihad (cioè l’idea del combattimento per la propria idea con ‘sacro furore’, come nella guerra santa – e l’autore non ha presente solo il modello islamico, che ne diventa semplicemente l’icona più nota) e il McWorld (cioè il mondo alla McDonald’s, il mondo globalizzato e ‘omogeneizzato’, per così dire) sono consustanziali, l’una è indissociabile dall’altro, in quanto sono l’una l’effetto dell’altro, in un processo di causalità circolare.
Nascono e si sviluppano così, anche in Europa, quelle che chiamo ‘identità reattive’: identità che sono tali solo in contrapposizione a qualcun altro. Le ritroviamo tra i moltissimi che oggi in Europa, sul piano politico e su quello intellettuale, stanno riscoprendo le proprie radici cristiane da quando sono presenti i musulmani, e in contrapposizione a loro, magari attraverso controversie sui simboli religiosi, come è il caso in Italia di quelle sul crocifisso e in Francia quelle sull’hijiab (ed è interessante che tali posizioni le troviamo spesso, anche più sguaiatamente, tra atei dichiarati – si pensi al caso di Oriana Fallaci o di Michel Houellebecq, ma anche di molti neo-celtici – che tra i credenti, tra i quali pure tali posizioni non mancano, anche ad alti livelli gerarchici). Ma le ritroviamo anche tra i musulmani che riscoprono le loro radici, manifestandole attraverso costumi che avevano smesso di praticare (dalla frequentazione della moschea, all’insistenza sull’hijab stesso), da quando vivono in Europa. Lo stesso uso della propria autodefinizione, da parte dei musulmani come degli autoctoni, in termini di ‘comunità’ è parte di questo processo: come se lo fossero davvero, come se ce ne fosse soltanto una, come se tutti i membri della supposta comunità vi appartengano o vi aderiscano o vi si riconoscano effettivamente.
Entrambe le tendenze (meticciato e sincretismo da un lato, identità reattive dall’altro) sono costitutive del nostro paesaggio sociale. Ed entrambe proseguiranno. In fondo ciascuno di noi, a seconda delle situazioni, spesso è in bilico tra l’una e l’altra, o è contestualmente l’una e l’altra. Siamo più complessi e ambigui di quanto ci piaccia ammettere. E il principio di non contraddizione vale solo all’interno di ben definiti contesti teorici: non esiste nella realtà, nella persone. Meno ancora nelle culture e nelle religioni. Per non parlare delle coscienze.

Conflitto e cambiamento

La paura all’origine delle identità reattive è un primo concetto-chiave generale da tenere presente, che fa da sfondo alla paura specifica dell’altro: del musulmano da parte dell’europeo, dell’assimilazione occidentale da parte del musulmano, del proprio annientamento culturale da parte di entrambi, maggioranze e minoranze – e che spinge quindi al conflitto. Che, non a caso, è un conflitto spesso a proposito di simboli, più che di comportamenti e pratiche sociali.
Ma il conflitto ha, sociologicamente, una funzione positiva. Ed è comunque fondativo, ineliminabile, come ci hanno insegnato i classici della sociologia, da Marx, passando per Weber, fino a Simmel. La crisi, dopo tutto, serve per discutere – sempre troppo tardi, ma sempre meglio tardi che mai – di un problema. La crisi, il conflitto, serve anche per scoprire i limiti fino ai quali ci si può spingere, e i confini sociali che non è possibile oltrepassare. Nel conflitto si formano le leadership. Nel conflitto ci si deve interrogare intorno a un senso di responsabilità comune, che non produca eccessi dannosi, che possono ritorcersi su chi li produce: si misura la propria forza reale, ma anche quella dell’altro, e quella della società, delle sue regole, dei suoi strumenti di regolazione. Attraverso il conflitto si sperimenta chi è ‘noi’, ma anche chi è l’altro, e l’idea stessa di alterità. Nel conflitto impariamo a misurare la differenza tra ciò che siamo, ciò che vogliamo, e ciò che possiamo ottenere. Il conflitto, inoltre è un mezzo per far affiorare alla superficie della coscienza ciò che giace e ribolle in profondità. L’estremizzazione delle opinioni ha dopo tutto una funzione, ed è precisamente questa: rendere visibile il non solitamente visibile, conscio l’inconscio, e consapevole l’inconsapevole. Lasciare che le parole dicano il non abitualmente detto.
Come avviene nelle coppie, nelle famiglie. Quelle sane non sono quelle dove non esiste il conflitto (un caso …inesistente), ma quelle dove il conflitto trova canali per emergere e per essere affrontato e risolto. Dove ciò non accade, le famiglie si spezzano: oppure ci si vivrà all’interno infelicemente, e neanche questa è una buona soluzione, un esito auspicabile.
Come avviene nella democrazia: che, dopo tutto, è un metodo non per evitare il conflitto, ma precisamente per affrontarlo in maniera non (troppo) cruenta. Invece di uccidere il mio avversario, voto.
Come avviene nel conflitto sociale, ad esempio nel mondo del lavoro. Il conflitto c’è ed è inevitabile: ma posso affrontarlo con una rivoluzione o con lo sciopero.
La società è conflittuale: per definizione. In senso proprio, per nulla paradossale, il conflitto è il solo modo che abbiamo per evitare la guerra. La sua presa in considerazione, la sua gestione, è precisamente ciò che ci permette di evitare l’esplodere della violenza.
Ma, se abbiamo imparato a regolare il conflitto politico (democrazia rappresentativa) e quello sociale (relazioni industriali), non abbiamo ancora un sistema stabile e comunemente accettato di regolare il conflitto culturale e religioso. Non per caso, in questa fase, i predicatori di conflitto, di cultural clash, godono di buone rendite di posizione. Ed è per questo che quella che potrebbe essere una fisiologia (non senza costi, naturalmente) del conflitto sociale, declinata in forma culturale, rischia di diventare una patologia: è sempre così, quando e finché chi dal conflitto ci guadagna è in numero superiore o semplicemente sa giocare meglio le sue carte di chi, invece, vorrebbe che il conflitto fosse non azzerato (perché non è possibile) ma semplicemente regolato, e reso un po’ meno ‘gridato’. E ci sarà comunque sempre qualcuno che avrà interesse a far crescere, o al limite a creare, a ‘inventare’ il conflitto laddove non c’è, o potrebbe comunque essere ridotto, accompagnato, gestito.
In questo senso il pericolo che abbiamo davanti è grande: il clash of civilizations (non solo su scala planetaria: anche nelle nostre città, nei nostri quartieri) può essere una profezia che si autorealizza – è a furia di ripeterlo, di richiamarlo, di invocarlo, che lo produciamo, che lo realizziamo. In un certo senso, è una fossa – o una trincea, per rimanere nella metafora bellica – che ci stiamo scavando con le nostre stesse mani.
Peraltro il conflitto non è solo, e forse non è principalmente tra culture e religioni, o meglio tra i loro esponenti; ma è interna alle culture, alle religioni, alle comunità. La società oggi si divide su questioni diverse da quelle del passato. Tramontate le classi (almeno nelle interpretazioni ideologiche diffuse e nel discorso intellettuale e mediatico: un po’ meno nella realtà…) oggi ci si divide, sempre più spesso, su fattori di inclusione ed esclusione, spesso molto materiali (spese, interessi, costi e benefici, tasse, servizi), ma altrettanto spesso ammantati di giustificazioni etniche, razziali, culturali o pseudo-culturali, e religiose. La diversità, anzi l’alterità, diventa un problema o addirittura una colpa in sé. Il che significa che anche gli attori sociali (inclusi quelli religiosi) si dividono sempre più non solo e non tanto tra loro, ma al proprio interno: tra dialoganti e non dialoganti, tra aperti al cambiamento o chiusi ad esso, tra coloro che sono disposti a mettersi in discussione, e/o a mettere in discussione la società, e coloro che non ci pensano nemmeno: anche a dispetto dei fatti, dei cambiamenti già avvenuti, di cui non si vuole tenere conto. Tra coloro che sono dunque disposti a misurarsi e a confrontarsi con la diversità e l’alterità, e coloro che ne negano le basi stesse. Con tutte le forme intermedie di atteggiamento che possiamo immaginare.
D’altro canto, proprio perché, per le ragioni evidenziate, il conflitto è necessario, costitutivo della società, fisiologico ed inevitabile (in particolare in presenza di cambiamenti così significativi: e il fatto che l’islam sia oggi la seconda religione in Europa non può essere considerato un dettaglio della storia), possiamo ipotizzare che, nella sua forma attuale, di forte radicalizzazione e visibilità, esso sia solo una fase inevitabile, anche se probabilmente non sarà breve (né forse ha ancora raggiunto il suo culmine), in attesa di trovare le forme di regolazione più adatte per il conflitto stesso. In questo senso si può tentare di essere ottimisti, o almeno di guardare alla fuoriuscita dalla crisi con qualche ragionevole speranza. Potrebbe uscirne un nuovo livello di equilibrio. Più equilibrato, appunto. Potrebbe essere questa, allora, la nuova società di cui parlavamo all’inizio: per la quale non abbiamo (ancora) i piani e le regole, ma che stiamo cercando di costruire.
Lo mostrerebbero le tendenze di lungo termine cui assistiano all’interno delle comunità islamiche in Europa: tendenze che, globalmente, potremmo chiamare di europeizzazione dell’islam, di adattamento al suo quadro culturale e normativo (un’europeizzazione che spazia dai rapporti di genere ai cambiamenti teologici, dalle forme di mixité familiare e culturale all’integrazione economica e ai modelli di consumo).
L’islam in Europa cambia. Ma, europeizzandosi, diventando un fatto europeo, e un attore sociale interno, cambia anche l’Europa. In più, non essendo solo interno, ma anche – attraverso legami personali e network organizzati, come pure attraverso i media vecchi e nuovi – transnazionale (potendo essere insomma qui e altrove), i musulmani che vivono in quella che potremmo chiamare la parte europea della umma, attraverso numerosi effetti di feedback influenzano anche le zone d’origine dell’islam, e comunque quelle di provenienza delle prime generazioni di immigrati.
Allo stesso modo, a causa della semplice esistenza della presenza islamica, cambia l’Europa.
Sul piano micro ciò è visibile, per fare un esempio indicativo, nel semplice diverso atteggiamento che un insegnante di religione è costretto necessariamente ad avere se nella sua classe ha alunni di diverse fedi, o di nessuna (l’esempio è estendibile a piacere ad un numero infinito di potenziali situazioni e ruoli sociali, dalla scuola al mondo del lavoro: più evidente che in qualsiasi altro, nelle coppie e nelle famiglie ‘miste’): e questo a prescindere dal fatto che sia preparato a questo cambiamento o meno, che sia soggettivamente favorevole ad esso o meno. Il semplice fatto che l’altro sia di fronte a lui, lo costringe a ripensarsi.
Sul piano macro, ciò è visibile nelle politics e nelle policies, relative alla regolamentazione giuridica della religione nello spazio pubblico, o, molto più banalmente, nella gestione delle mense o dei servizi sociali, o magari nel ripensamento dei programmi scolastici e dei loro contenuti (storia, ecc.).
Le religioni ridiventano cruciali. In particolare, da ora in poi, non sarà più possibile comprendere la storia e l’evoluzione sociale e religiosa (e, diremmo, anche politica) dell’Europa senza tenere in considerazione la sua componente musulmana interna. Allo stesso modo non sarà più possibile comprendere la storia e l’evoluzione sociale, e persino teologica, dell’islam, senza prendere in considerazione la sua componente europea. La storia d’Europa è diventata, almeno in parte, anche storia islamica. E la storia dell’islam, storia europea.

1 Sull’islam in Europa rinvio a S.Allievi, Musulmani d’occidente. Tendenze dell’islam europeo, Roma, Carocci, 2004, e soprattutto all’ampia ricerca, svolta per conto della Commissione Europea, contenuta in B.Maréchal, S.Allievi, F.Dassetto, J.Nielsen (a cura di), Muslims in the Enlarged Europe, Leiden, Brill, 2003. Per un approfondimento sulla situazione italiana S.Allievi, Islam italiano, Torino, Einaudi, 2003.

2 Si tratta di un modo di vedere le cose (e, in particolare, le identità) che potremmo sintetizzare con l’espressione di ‘fallacismo’, essendo stata tale visione popolarizzata come non mai dai libri recenti sull’islam di Oriana Fallaci, anche se la ritroviamo ampiamente diffusa anche altrove: in politica, nel giornalismo, anche quello autodefinito o considerato ‘esperto’, e anche nel linguaggio religioso. Per una analisi della e una risposta alla trilogia fallaciana rinvio a S.Allievi, Niente di personale, signora Fallaci, Reggio Emilia, Aliberti, 2006, e G.Boselli, Cattiva maestra, Venezia, Marsilio, 2005.

Allievi S. (2006), Ritorno delle religioni, scoperta delle differenze, in “Reset”, n.97, 2006, pp.34-37; issn 1594-9893