L’islam italiano: istruzioni per l’uso.

LimesLimes_index-1Limes_index-2
L’islam in Italia? Diviso tra provenienze etniche tra loro molto eterogenee. Fortemente disperso sul territorio, e con una forte presenza nelle città medie e piccole e nelle campagne: quello che potremmo chiamare l’islam ‘dialettale’, dall’integrazione dopo tutto più facile che nelle realtà metropolitane. Frammentato e conflittuale nella sua rappresentanza. Associativamente ancora debole e perciò occasionalmente soggetto a interferenze le più varie, da quelle di improvvisati aspiranti generali alla ricerca di un esercito, a quelle radicali e antioccidentali. Con una leadership in deficit di riconoscimento sia interno che esterno, troppo restia al ricambio non solo generazionale, e ancora eccessivamente ‘voltata all’indietro’, verso i paesi d’origine. Con un ancora debole riconoscimento istituzionale, anche se maggiore a livello locale. Sofferente di stigmatizzazione cronica, con punte di acutizzazione, che si trasformano in chiusura di moschee o resistenze ad ogni forma di visibilizzazione dell’islam, in alcune realtà del Nord. Ma comunque già all’interno della ‘fase due’ dell’immigrazione, dentro a un processo di sedentarizzazione, di stabilizzazione, in cui l’identificazione religiosa ha comunque una significativa centralità, in particolare attraverso il tessuto delle moschee locali. Così lo descrivevamo in un precedente intervento su Limes1, evidenziandone i limiti ma anche le linee di sviluppo2.

Il problema è che esso è inciampato in un problema comune a tutto l’islam europeo, che in sintesi potremmo riassumere così: un processo di integrazione sostanziale, non diversa da quelle delle altre componenti culturali immigrate in Europa (il che non significa ideale, ottimale o non problematica: significa non sostanzialmente migliore o peggiore, ad esempio, delle componenti hindu o sikh, o di quelle dell’Africa subsahariana, anche cristiane), accompagnato tuttavia da una percezione fortemente conflittuale, legata evidentemente alle imprese del terrorismo islamico transnazionale (oggi attivo anche sul suolo occidentale: dall’11 settembre americano, alle bombe di Madrid e Londra), ma anche ad una attenzione rigorosamente selettiva agli aspetti conflittuali della presenza islamica, dimenticando regolarmente la foresta che cresce, e mettendo in evidenza solo l’albero che cade, dato che esso fa come sempre più rumore.

Il primo elemento – quello dell’integrazione sostanziale – pur misurato dalle principali ricerche in materia3, passa rigorosamente inosservato, e già la notizia stupirebbe il grosso di giornalisti e intellettuali, che discettano d’islam, il più delle volte, senza passare per i musulmani, ovvero senza osservare empiricamente le comunità islamiche, ma limitandosi a macinare opinioni, per lo più rigorosamente separate dai fatti. Il secondo invece – la percezione conflittuale – è quello che detta l’agenda, mediatica come politica, sul tema: i media ne sono del resto, contemporaneamente, produttore, amplificatore e veicolo.

I musulmani e la sfida dell’integrazione

Il processo di inserimento e di integrazione, per così dire, accade, in un certo senso a prescindere dalle volontà degli attori coinvolti. Perché man mano che la permanenza si protrae il ‘fattore T’ (come tempo) agisce e fa il suo corso: né l’immaginario né la realtà di un immigrato sono le medesime un giorno dopo essere immigrato, dopo tre anni, dopo cinque, o dopo dieci. Figuriamoci quelle dei loro figli. E oggi siamo precisamente allo snodo, cruciale e senza ritorno, del passaggio tra le prime e le seconde generazioni di immigrati (espressione questa priva di senso, dopo tutto, per chi in Italia spesso è nato e non si è mai mosso da qui: questa, più propriamente, è la prima generazione di neo-autoctoni).

Molto poi accade nell’integrazione silenziosa nel mondo del lavoro e nella scuola, dove la presenza di colleghi e compagni musulmani sta progressivamente diventando, da eccezione, abitudine, da patologia, fisiologia. E dove i conflitti, quando ci sono – si pensi a quelli, tanto mediatizzati e dibattuti, sui simboli – sono stati quasi sempre innescati non dagli immigrati musulmani medesimi, ma da altri autoctoni, che decidevano non richiesti di farne le veci, prima ancora di un qualsiasi casus belli (si pensi ad alcuni occasionali conflitti, molto mediatizzati e occasione di rituali prese di posizioni retorico-politiche, su crocefissi, canzoncine e recite natalizie o presepi, nella grande maggioranza dei casi iniziative – infauste – di singoli insegnanti, ignari che la pluralità e l’intercultura non funzionano per sottrazione, ma semmai, eventualmente, per addizione e per sintesi). E anche i conflitti sulle scuole separate – il caso più noto è stato quello di Milano – pur rilevanti e giustamente stigmatizzati, rappresentano pur sempre un’assoluta minoranza statistica.

Piaccia o meno agli uni o agli altri, e in particolare a coloro che ne paventano gli effetti – autoctoni sciovinisti perché impauriti o immigrati timorosi anche loro, ma di assimilazione – la realtà quotidiana è una realtà di mixité sociale, relazionale e culturale per i più, senza bisogno di menzionare la mixité fisica, pur presente e testimoniata dal crescere incessante di coppie e convivenze, ma anche solo di amicizie e reti di relazione, per l’appunto, miste.

La necessità, prima ancora che la volontà di integrazione, è un motore potente. Più potente anche dei timori di occidentalizzazione e di perdita di identità, pure presenti in parte dell’immigrazione islamica di prima generazione e più visibile ancora in certa sua leadership: soprattutto imam e altre figure rappresentative di importanza locale, spesso con scarse conoscenze di italiano e poco integrate – tanto loro vivono lo stesso, o anzi meglio, incapsulati nelle rispettive comunità – completamente figli della logica della separatezza, con in testa il paese d’origine e le sue mentalità, a dispetto di tutto, anche della realtà in cui vivono, si muovono e pensano gli stessi fedeli che seguono le loro prediche il venerdì.

Ma fin qui siamo ancora all’abc. Altro, a volerlo vedere, si muove, nel panorama associativo, culturale, sportivo, con il primo formarsi di giovani attori sociali indipendenti, di operatori culturali, a poco a poco anche di intellettuali, con i primi e per ora timidi segni anche di una borghesia islamica, in altri paesi – sopra tutti in Gran Bretagna, ma in parte anche in Germania, Francia, Olanda e altrove – già presente e visibile, con un ruolo incisivo all’interno delle rispettive comunità di riferimento.

Poi, certo, c’è l’altra faccia: i marginalizzati, i drop-out, gli esclusi, i falliti, i devianti, i delinquenti. Il cui destino, tuttavia – con l’esclusione dei supporter del terrorismo: eccezione presente e inquietante ma statisticamente, va pur detto, poco significativa – non è certo riconducibile al loro specifico islamico: piuttosto alla condizione di immigrato, o ad altre variabili sociali che con la religione hanno poco a che fare. Semmai, eventualmente, con la sua mancanza: e questo valga per coloro che temono e chiudono le moschee, dimenticando che esse, come qualsiasi altro luogo di culto, svolgono a beneficio di tutti un ruolo primario di controllo sociale interno alle comunità.

Al di là dei processi ‘naturali’ di integrazione, ci sono poi gli effetti delle scelte conseguenti, o delle loro mancanze. Alcune tra queste ultime, serie e gravi. Come la sostanziale inesistenza dell’associazionismo islamico quando si tratta di intervenire, precisamente, nel sociale, sui suoi figli dispersi o in difficoltà (tossicodipendenza e spaccio, devianza minorile e carcere, prostituzione o donne e madri in difficoltà, per citarne alcuni. Ma ci sono anche istanze più normali, di ordinaria socialità o di sua crisi). Per quello viene buono – e per fortuna che c’è – solo il volontariato cattolico. Quello islamico, se non si tratta di obiettivi, per l’appunto, religiosi, organizzativi ma talvolta solo di bandiera, quasi non c’è, e non si vede, e non prende posizione. E non vale a giustificarlo il fatto che le priorità, anche di vita, siano altre. Se è così, si tratta pur sempre di una scelta, precisa e come tale giudicabile.

Che cosa si è fatto per favorire l’integrazione dell’islam italiano?

Dall’altra parte – il lato autoctono della questione – si muove quasi solo il sociale. E l’economia, naturalmente. Quest’ultima opera da un pezzo nel senso dell’integrazione: anche delle specificità religiose. Sono state le imprese, quando ancora molte amministrazioni, nelle stesse regioni, nicchiavano, ad accettare e dare per acquisiti il riconoscimento di specificità alimentari, ma anche la predisposizione di luoghi e il riconoscimento di tempi legati allo specifico religioso (sale di preghiera, soste più lunghe alla pausa pranzo del venerdì, vacanze durante il mese di ramadan anziché in agosto, congedi per lo hajj, il pellegrinaggio alla Mecca). In cambio di qualcosa, naturalmente: il rispetto, e anzi in molti casi, a poco prezzo, l’adesione e persino la lealtà agli obiettivi dell’azienda (magari accompagnata da scarsa sindacalizzazione, o comunque da scarsa propensione al conflitto: come testimonia la storia di tante minoranze credenti, dai testimoni di Geova ai pentecostali agli hindu e ai sikh – buona gente e buoni acquisti, spesso, per i datori di lavoro). Forse dovremmo imparare qualcosa, da lì, che riguarda anche la società nel suo complesso.

Il sociale ha già alle spalle una grande attività, che continua. In particolare il mondo cattolico, con le sue concrete opere di assistenza e sostegno – non solo l’eventuale sostegno verbale ma povero di fatti di certo mondo laico progressista, militante all’occasione ma poco propenso alla fatica quotidiana –, sorrette anche da una visione politica di più ampio raggio e di maggiore respiro, che inquadra la presenza dell’islam in Europa in processi più ampi e più lunghi, sia di tipo economico e demografico, che di cambiamento sociale e culturale. Per questa attività, di cui molti immigrati musulmani hanno potuto personalmente beneficiare, la chiesa cattolica si è guadagnata un ruolo e un rispetto che riuscirà a perdere solo se continuerà l’odierna visibilizzazione mediatica dei suoi esponenti proni alla logica dello scontro, pure essi esistenti. Anche se sarà difficile disperdere un bagaglio che, oltre che dell’accoglienza agli immigrati, si è nutrito, per quanto riguarda i musulmani, di atti importanti e non episodici, che, più che far riferimento alle giornate di Assisi, vanno dalle visite di Papa Wojtyla in Marocco prima e soprattutto in Siria poi, quando in un momento già internazionalmente delicato entrò nella moschea di Damasco, riconoscendola implicitamente come un luogo religioso, fino alla politica estera vaticana in Palestina, e alla costante politica contro l’avventurismo bellico occidentale in Afghanistan, in Iraq ancor più, e all’opera costante contro il prevalere della logica della guerra, pur avendo a cuore i doveri di tutela delle minoranze cristiane nel mondo islamico, in particolare in Medio Oriente e nel Golfo. Il precedente Papa arrivò a gesti simbolici persino clamorosi, e proprio per questo assai poco seguiti: come l’annuncio di un digiuno di solidarietà con i musulmani, durante il ramadan, ad avventura afghana già iniziata. Un fatto che da allora ogni anno si ripete solo per iniziativa di chiese di base, dal basso, ma che non coinvolge i vertici ecclesiali, assai tiepidi in proposito.

Poco invece, troppo poco, hanno fatto le istituzioni a livello nazionale. L’intesa con l’islam è saltata dalle origini: uno stop che ha finito per bloccare la ratifica parlamentare di altre intese già siglate durante il governo D’Alema, che del resto la chiesa italiana vedeva con scarso entusiasmo, come quelle con i buddhisti e con i testimoni di Geova. La consulta islamica, iniziativa annunciata per un paio d’anni come imminente, è finalmente giunta a compimento, per iniziativa del ministro Pisanu, nonostante le opposte polemiche: di chi, come la Lega, non la voleva proprio, e di chi, come esponenti musulmani di associazioni minori, la voleva priva del soggetto principale della rappresentanza islamica, l’Unione delle comunità e delle organizazioni islamiche in Italia. Si potrebbe discutere dei nominativi scelti, ma va dato atto al ministro di avere superato lo scoglio della demonizzazione di parti significative della realtà islamica in Italia, che ovunque in Europa sono interlocutori delle istituzioni (si pensi alla tanto citata Francia, in cui ministri importanti come Sarkozy sono intervenuti ai congressi della corrispondente francese dell’Ucoii, l’Uoif, che del resto è parte integrante dell’organo consultivo dell’islam francese). Un’esclusione che, se fosse stata portata avanti, come spingeva una fetta significativa del mondo dei media, a cominciare dalla durissima campagna di Magdi Allam sul “Corriere”, avrebbe destinato la consulta all’inutilità, se non addirittura a fucina di ulteriori conflitti, non solo intraislamici. Risulta tuttavia quasi farsesco che essa sia stata convocata una volta sola, e precisamente quando interessava non ai musulmani, ma al governo: per farle prendere posizione sulla vicenda delle vignette danesi. Il che, se non ci sarà una svolta, rischia di dirla lunga sulla sua utilità per i musulmani.

Per il resto, da un lato abbiamo assistito ad espulsioni non sempre ben mirate di esponenti musulmani, a seguito delle posizioni da loro espresse: con l’introduzione nell’ordinamento italiano di una prassi discutibile e anche pericolosa, decisa un po’ troppo a cuor leggero e accettata nella sorprendente assenza di una qualsiasi reale discussione (a differenza per esempio del dibattito sull’introduzione di leggi speciali all’epoca dell’emergenza legata al terrorismo interno), e valida per i soli musulmani, fino ad ora. Dall’altro abbiamo visto il formarsi per iniziativa dall’alto di sorprendenti tavoli prefettizi incaricati del dialogo interreligioso. E alcuni, va pur detto, hanno lavorato bene, cogliendo l’occasione per coinvolgere i rappresentanti religiosi nelle dinamiche locali. L’ultima puntata è la curiosa corsa al musulmano che ha colto i partiti, sia della Casa delle libertà che dell’Unione, nel garantirsi la presenza di qualche esponente associativo, con scelte più politicamente segnate per alcuni (si pensi alla candidatura di Khaled Fouad Allam nella Margherita), ed altre meramente decorative. Ma, di concreto, si è fatto davvero poco. Insomma, tutto tranne che una politica degna di questo nome, e di decente respiro.

Di più si è fatto in molte realtà locali, dove la posta dell’integrazione si declina nel concreto: nella scuola e doposcuola, nel sociale (welfare, salute, consultori), nell’allocazione di aree per attività religiose o per i cimiteri islamici. Ma anche qui hanno brillato per visibilità e insipienza insieme gli esempi peggiori, tutti nel Nord Italia, dove giunte soprattutto leghiste hanno variamente deciso di chiudere moschee per discutibili motivi (per esempio quelli di sicurezza o di rispetto delle norme antincendio: giusti, ma platealmente applicati a senso unico ai soli musulmani), di multare donne velate, di negare spazi cimiteriali o anche solo l’uso di locali pubblici per le festività islamiche, di cavalcare furibonde polemiche anti-islamiche, spesso legate a temi che nulla hanno a che fare con la presenza islamica in Italia – tutte cose che molto hanno fatto per rendere difficile l’integrazione, e concretamente più penosa la vita di decine di migliaia di lavoratori, delle loro mogli, dei loro bimbi, che poi nel concreto, per strada a scuola o sul lavoro, hanno subìto le conseguenze del veleno razzista irresponsabilmente diffuso a piene mani da personaggi già discutibili di loro.

Vignette e magliette

La vicenda delle vignette danesi e quel che ne è seguito può servire da utile indicatore per analizzare alcune tendenze in atto nel nostro paese.

Sgombriamo subito il campo dalle considerazioni di principio. In Occidente (grazie a Dio, verrebbe da dire, dato il tema; e alle istituzioni che sono garanti dei fondamenti della vita collettiva) il diritto di opinione, di sua espressione, di critica e anche di satira è garantito, intoccabile e inviolabile. E va difeso. Come tale: cioè per principio.

Ma la arrogante prosopopea dei satiri e dei loro sostenitori, che ha rivendicato il diritto di fare quello che vuole sempre e comunque, è apparsa una soluzione, o un’autoassoluzione, un tantino facile. Forse può valere per loro stessi. Ma per noi? Anche perché spesso la satira, quando a usarla sono le maggioranze (culturali, sessuali, politiche, religiose) contro le minoranze, assomiglia più alla legge del più forte (tanto io, anche se sono volgare, stupido, gratuitamente offensivo, beceramente pregiudiziale, magari neanche tanto latamente razzista, c’ho la penna o la matita, e un giornale che mi pubblica – tu no) che al democratico civile scambio di opinioni. Dobbiamo proprio difenderle, queste manifestazioni di espressione? Anche le barzellette sugli ebrei, o gli insulti ai ‘culattoni’ tipiche del celodurismo leghista e del maschilismo da ventennio di non piccola parte di AN? In termini di principio, sì, naturalmente: sopportandole, però, più che vantandocene. Ma possiamo davvero limitarci a rivendicare il principio di libertà ‘punto e basta’ anche quando si manifesta nei suoi lati peggiori? Difendendo sempre e comunque il diritto di chiunque di essere di cattivo gusto? Non si sono confusi, in questo caso, troppo facilmente – come spesso accade a proposito di slam – sacri principi e pratiche mediocri? Anche perché tra i molti che hanno alzato forte e retorica la loro voce – tanti, visto che c’è di mezzo l’islam, e la cosa risulta facile e popolare – non sono stati altrettanto conseguenti quando la satira toccava la loro parte politica e i suoi rappresentanti, e si precipitavano in questi casi a tacitarla.

Detto questo, il richiamo al caso Rushdie non è fuori luogo né retorico; anche se in quel caso, almeno, il prodotto era di ottima fattura. In quell’occasione il comportamento dell’occidente, nonostante concretissime minacce annunciate, che arrivarono all’assassinio in un caso, e al ferimento in altri, dei traduttori del libro, fu limpido ed esemplare: il libro uscì ovunque, i governi non intervennero a propinare censure, e l’autore fu doverosamente tutelato. Le scuse dei governi, oggi come allora, non sono dovute. Quelle di chi si è accorto di aver offeso qualcuno, tuttavia, non guastano. Non per paura di ritorsioni, o almeno così ci piacerebbe: ma semplicemente perché ci si è accorti di aver superato il limite del buon gusto. E dell’intelligenza. E questo, chiunque sia l’offeso. Non perché si ha paura che i musulmani siano più cattivi degli altri.

Invece, via con gli infantilismi e le ripicche. Ti da’ fastidio? E io le ripubblico. Non ti piace? Lanciamo un bell’appello perché lo facciano tutti, come hanno fatto Sofri e Staino (poi pentito, dopo essere stato preso sul serio da un ministro). Sei offeso? E io ti stampo le mie offese sulla maglietta, e la faccio vedere in tivù (ed è l’atto in sé, non le sue conseguenze, che avrebbe dovuto essere censurato: con la cacciata con ignominia per evidente mancanza di stile e di cognizione del ruolo, non con le dimissioni).

Questo, sul lato nostrano. Sul lato islamico, la questione si pone ovviamente in maniera diversa. Sgombriamo il campo, anche qui, da una falsa argomentazione retorica. Quella che si basa sul principio ‘sacro’ che nell’islam non sono ammesse raffigurazioni di Muhammad. Argomento pretestuoso e falso. Nella storia dell’arte, ad esempio nella miniatura, ve ne sono molte. E oggi ci sono, anche nei paesi musulmani, fior di film, di fiction, di immagini artistiche e di fumetti educativi, reperibili anche nelle moschee del nostro paese, in cui si raffigura il profeta. E allora lasciamo perdere…

I problemi veri sono altri. Quello meno importante, ma ‘tecnicamente’ decisivo nel far montare il caso: è un tema ottimo da cavalcare, per far sentire la propria roboante voce scandalizzata (di editorialista, di rappresentante di una qualsiasi organizzazione, più o meno rappresentativa, o anche di un governo), guadagnandosi una facile visibilità a poco prezzo. Ed ecco che si manifesta il paradosso dello scandalo da parte di chi neanche ha avuto la possibilità di visionare l’oggetto del contendere. Basta la parola. Come nel caso Rushdie, del resto. Dove le prime vittime dei mestatori professionali furono una manciata di manifestanti pakistani davanti a un’ambasciata occidentale, che di Rushdie ignoravano tutto. Ma altri, a cominciare dall’ayatollah Khomeyni che lanciò la fatwa, si guadagnarono una facile popolarità nel mondo islamico. Oggi la storia si ripete. E produce altre vittime. Innocenti cristiani immolati sull’altare della predicazione dell’odio, come, letteralmente, don Andrea Santoro, ucciso sull’altare a Trebisonda, o i cristiani anonimi di Nigeria o d’altrove, che meno hanno fatto notizia. Ma anche le molte decine, ormai, di manifestanti uccisi dal fuoco amico dei propri stessi governi, per quanto cinicamente strumentalizzati, non sono meno vittime.

Il problema vero, che è stato probabilmente il reale detonatore dello scontro: la rabbia e la frustrazione di minoranze islamiche continuamente sotto tiro, oggi in Europa oggetto di una continua stigmatizzazione, figlia di una isteria anti-islamica trasversale e non di rado paranoica, in Italia ben rappresentata dalla retorica – che diventa purtroppo anche azione politica, e con capacità di influenza assai larga – padanista e fallace, che ne rappresenta tuttavia solo il caso più estremo: retorica e discorsi ai quali basterebbe sostituire alla parola ‘musulmano’ la parola ‘ebreo’ per far vergognare i più, e condannare in giudizio più di qualcuno, o almeno rendersi conto della gravità delle parole e del loro terribile peso.

Questa cospicua riserva di rabbia, alimentata dalle vicende geopolitiche più recenti (l’Iraq in primis) e da quelle eternamente irrisolte (la questione palestinese), nel mondo islamico è stata strumentalizzata e gestita da governi per lo più impresentabili, che ne hanno approfittato per guadagnarsi qualche legittimazione come improbabili difensori della fede. E purtroppo ha usato nuovamente gli strumenti per l’occidente giustamente inaccettabili dell’incitamento non solo all’odio – presente anche nella propaganda anti-islamica – ma alla vendetta, in termini assai concreti, persuasivamente corredati dall’intollerabile istituto della taglia (e se è vero che le voci di protesta e di condanna, nel mondo islamico, non sono state un granché udibili, è altrettanto vero che di tentativi di riscuoterla, come del resto nel caso Rushdie, non ce ne sono stati, segno che questi spiritati proclami non riscuotono grande udienza).

In Europa, invece, la rabbia diffusa di molti (ma certamente non di tutti, e nemmeno delle maggioranze) ha colto, senza accorgersi di farsi incastrare per l’ennesima volta in una trappola mediatica, migliaia di credenti per bene ma assai male informati, che hanno scelto l’argomento sbagliato, nel modo e nel momento sbagliato, per protestare e ribellarsi.

Detto questo, le organizzazioni islamiche italiane si sono mosse con responsabilità: ed è responsabilità dei media non aver dato voce alle voci pacate e ragionevoli che si sono pur espresse, semplicemente perché non corrispondono allo stereotipo, che ci siamo già costruiti, del musulmano fondamentalista, incapace di discutere e di dialogare, capace solo di sbraitare con violenza il proprio fanatico credo. Esercizio, questo, sempre intellettualmente disonesto, ma in questo caso anche politicamente irresponsabile.

La consulta, come detto, si è pronunciata civilmente, come autorevolmente richiestole. Lo stesso ha fatto autonomamente anche la principale organizzazione, l’Ucoii, convocando prima una assemblea delle realtà locali, per informare ma anche per sedare gli animi più esagitati, poi scrivendo al Presidente della Repubblica, e anche al presidente del consiglio di amministrazione della Rai. Cercando cioè, con parole pacate, di spiegare la posizione dei musulmani alle autorità, da un lato, ma anche la posta in gioco e i rischi ai musulmani stessi. Che, in Italia come in altri paesi, hanno mostrato qualche difficoltà nel percepire la differenza di sfere e ruoli tra autorità di governo, stampa, opinione pubblica, economia (visto che c’era di mezzo la proposta di un boicottaggio). Il che, naturalmente, non è solo un dato su cui riflettere: è un problema serio da risolvere. Nessuno poi si è ricordato, visto che si parlava di simboli, di sottolineare che chi bruciava la bandiere danesi bruciava, per inciso, anche una croce: e qualcun altro, non solo i danesi, avrebbe avuto motivo di risentirsi. Ma di questo, sorprendentemente, non si sono accorti nemmeno gli europei…

Ma, a proposito di simboli, sarebbe utile riuscire ad uscire dalla trappola interpretativa per cui l’altro non è l’altro essere umano, ma appunto un simbolo, una categoria interpretativa, priva di differenziazioni interne, di sfumature, e in definitiva di umanità. Questo linguaggio, prassi quotidiana su molti media a proposito dei musulmani, lo si sente spesso anche da parte islamica, a proposito degli occidentali, dei cristiani, o semplicemente attraverso semplicistiche definizioni dell’occidente, che si ricordano di sottolinearne le depravazioni sessuali o l’ubriacatura consumistica, e si dimenticano sempre di ricordarne i principi di civiltà giuridica, dunque di tutela soprattutto del più debole, che più ne ha bisogno, o di sostanziale libertà, comunque sia – anche nel peggio, è vero – ma garantita a tutti: anche, persino, agli immigrati. Anche, persino, ai musulmani, nonostante le tremende cadute di stile e le più concrete ricadute personali e sociali che oggi la fanno da padrone.

Perché non li (ci) capiamo: i limiti del fallacismo

Nonostante il problema sia più generale, l’Italia sembra più indietro di altri, e molto più restia a comprendere i significati profondi di cambiamento indotti dalla presenza islamica. Queato anche a causa della dissennata semina culturale che è stata fatta in questi anni, con irresponsabili sponde politiche, un disinformante ruolo dei media, e anche qualche colpevole benedizione religiosa. Semina a cui non riusciamo a dare definizione più sintetica di quella di fallacismo. Non perché Oriana Fallaci sia stata il primo esempio, ma perché è stata l’interprete migliore, premiata come noto da un travolgente successo che ne fa un caso unico in Europa, di questo che è diventato comune sentire: una lettura pretesamente ‘oggettiva’ dei fatti, quella di default di molti media, da cui chi se ne smarchi è costretto quasi a giustificarsi4.

Il fallacismo è malattia diffusa, a destra come – un po’ meno – a sinistra. Lo dimostrano le molte copie dei libri di Fallaci vendute ovunque, ma soprattutto la pervasività della diffusione delle opinioni che veicolano, che non conoscono barriere di classe, di genere, di schieramento politico e nemmeno di cultura: si trovano dappertutto.

C’è un fallacismo laico, che è il principale. Laica, anzi laicista, si autodefinisce del resto Fallaci. A questa declinazione del fallacismo si ispirano noti intellettuali ed editorialisti di varia estrazione. Ma anche altissime cariche istituzionali: si pensi al presidente del Senato, Pera, curioso teo-con laico con ottime maniglie oltre Tevere, che ne ha fatto una battaglia ideologica ossessiva e persino una fondazione, nonché il suo tema prediletto di campagna elettorale. A questi si aggiungano molti giornali di larga tiratura (a cominciare da quello su cui Fallaci scrive, una volta noto per la sua pacatezza e moderazione, e che invece su questo tema ha scelto una deriva radicale e populista non del tutto comprensibile e senza paralleli tra i giornali conservatori europei, che usano un altro linguaggio, se non anche diversi argomenti) e interi partiti politici, con in prima fila la celtica Lega, oggi incongruamente un bastione della cristianità (o almeno della cristianità padana), di cui sono imbarazzanti testimonial leader politici che, di loro, preferiscono il matrimonio celtico, si guardano bene dal frequentare le parrocchie, e il crocifisso, che vorrebbero ostentare ovunque, inclusa la biancheria intima, si dimenticano allegramente di esporlo e di pregarlo in casa propria.

Il fallacismo laico non conosce comunque barriere politiche: ce n’è, seppure in percentuali diverse, uno di destra e uno di sinistra, e anche uno, più blando come tradizione, centrista e moderato. Quello radicale della Lega è il più evidente, e non a caso Fallaci la cita ad esempio nei suoi libri, lasciandosi andare a sorprendenti lodi al ministro Castelli, e addirittura ad incaute citazioni del capopopolo Borghezio, definito semplicemente, in un articolo sul “Corriere”, “vivace”: come un ragazzino un po’ discolo. I leghisti, naturalmente, calorosamente e rumorosamente ringraziano, distribuendo copie de La rabbia e l’orgoglio gratuitamente nei loro gazebo e candidando Fallaci a senatore a vita, oltre che ispirandosi ai suoi libri per capire l’islam.

Quello appena più moderato di altri partiti, a cominciare da Forza Italia, quello borghese e atipico del “Corriere” di cui si è già detto, quello trivial-popolare del “Giornale”, di “Libero” e naturalmente della “Padania”, non sono comunque da meno nel diffondere il verbo fallaciano.

C’è persino un fallacismo islamico, che conta rari ma illustri esponenti in diversi paesi europei, e che si rende evidente in alcuni che, afflitti dalla maledizione di un cognome arabo o di una origine islamica, hanno trovato il modo di trasformarli in strumento di integrazione e magari in rendita di posizione, sparando professionalmente – nel sociale, in politica, nel giornalismo – bordate sul proprio mondo d’origine, ben remunerati dall’opinione pubblica autoctona, che si sente riconfermata nella propria superiorità.

C’è infine un fallacismo cattolico – meno diffuso, in verità, di quello laico. Che non è solo quello infiammato alla Baget Bozzo. Esso trova plaudenti anche preti di base e cardinali influenti: come quel Fisichella che ha propiziato l’incontro di Fallaci con Benedetto XVI – ma dietro ce ne sono anche altri, non solo i già mediatizzati Biffi e Maggiolini. Tutti convinti che magari Fallaci esagera un po’, ma siccome parla male dell’islam, considerato comune nemico, sorvolano su tutto il resto. Peccato che il ‘resto’ sia il centro del discorso fallaciano. E non perché critica il Papa – quello precedente, almeno. Né perché critica la Chiesa, che pure ha bisogno di correzione fraterna. Ma perché, a dispetto del fatto di definirsi atea cristiana, i suoi libri sono peggio che profondamente anti-cristiani: sono profondamente anti-evangelici, nel senso che sono estranei alla loro logica e antitetici al loro messaggio. Citano Cristo solo per aggregarlo alla propria battaglia in difesa di una civiltà di cui Fallaci lo considera, bontà sua, uno dei fondamenti.

Stesso esercizio che fa il Presidente del Senato. Tanta ideologia e poca concretezza al servizio di una causa globale (occidente/cristianità vs. islam) di cui, nello sfolgorare degli aggettivi, sfuggono gli obiettivi concreti (la politica, insomma, anche senza scomodare la realpolitik), ma che è un’ottima cortina fumogena atta a rendere invisibili i processi reali legati alla presenza dei musulmani in Europa.

Stesso esercizio che, in servizio permanente effettivo, e con lo stile che le è proprio, fa la Lega. Partito minoritario, è vero, ma di governo. E capace con la sua campagna di determinare l’agenda con cui confrontarsi, il punto di partenza. Che è e rimane, per questa parte cospicua e influente di opinione pubblica, il conflitto con l’islam – con tutto l’islam. E che rischia di trasformare una definizione arrischiata ma tuttora non corrispondente al vero – il conflitto di civiltà – in una profezia che si autorealizza.

Qualcosa di concreto

Quella attuale potrebbe tuttavia rivelarsi una crisi salutare. Che potrebbe farci riconsiderare la presenza islamica anche nei suoi aspetti già oggi positivi, e che altri paesi europei, più lungimiranti del nostro, stanno cominciando ad utilizzare.

Non cito neanche gli aspetti economici o demografici, che sarebbero validi del resto per qualsiasi tipo di migrazione.

Mi riferisco ad esempio all’utilizzo delle presenze musulmane in chiave di politica estera. Per ragionare e trattare con i paesi di provenienza. Per avere preziose informazioni che spesso sfuggono agli osservatori europei; anche su temi delicati di politica interna, ma anche semplici risorse linguistiche e culturali preziose per l’economia e non solo. E per fare lobbying presso i paesi di origine a tutela degli interessi dei paesi di inserimento, cosa che già avviene più spesso di quanto comunemente si sappia: dalla partecipazione a delegazioni diplomatiche e commerciali (alcuni paesi europei, e spiccatamente il Foreign Office, già nominano ambasciatori musulmani nei paesi islamici e fanno accompagnare le delegazioni economiche da esponenti dell’élite islamica britannica). Il fatto che alcuni paesi stiano dando ospitalità a quelle che con tutta probabilità saranno le leadership future dei paesi d’origine, magari rifugiate in Europa per sfuggire alla repressione di governi pseudo democratici pure essi ciecamente sostenuti dalla medesima Europa, è anch’esso un segno di attenzione intelligente ai fermenti del mondo islamico, e di loro utilizzo in positivo, in chiave di sfere di influenza.

Ma c’è una dimensione più ‘popolare’ di questa politica: ed è quella che fanno la gran parte degli immigrati musulmani nella loro vita quotidiana. Comunicando nei fatti non una loro astratta superiorità, ma una concretissima migliore condizione. Non andrebbe dimenticato che un pakistano in Gran Bretagna è mediamente più istruito, più ricco, meglio occupato, più libero e più garantito (dai nostri diritti, a cui giustamente con tanto fervore ci richiamiamo – e lo fanno anche loro) di un pakistano in Pakistan. E lo sa. E con i suoi comportamenti, e non di rado con le sue parole, lo mostra e lo dice. Lo stesso vale per un algerino di Francia rispetto ad uno d’Algeria, per un turco di Germania rispetto ad uno che sta in Turchia, o per un marocchino che vive in Italia rispetto ad uno che è rimasto in Marocco.

Un altro tipo di buon uso delle minoranze islamiche è quello legato al ruolo di pacificatore interno. Un qualcosa che ha dimostrato perfettamente l’esplodere delle banlieues in Francia. Dove i religiosi, gli imam, le associazioni islamiche, le moschee, nonostante quello che hanno potuto scrivere sui nostri giornali dotti editorialisti che in una banlieue non hanno mai messo piede, hanno giocato il ruolo del pompiere, non certo dell’incendiario. E chi bruciava, incendiava, saccheggiava non era chi andava in moschea, ma precisamente quelli che aspiravano ad essere francesi di fatto e non solo di nome, incluso nella laicità dei propri riferimenti. Checchè se ne sia detto, quello delle banlieues non è stato nemmeno un problema di immigrazione, ma di soltanto parziale, verbale, declamata ma non praticata cittadinizzazione (non erano i neo-immigrati a protestare, ma i loro figli e i figli dei figli, nella stragrande maggioranza cittadini francesi).

Il dialogo interreligioso che dalla base si fa strada anche verso i vertici è un’altra delle buone pratiche che sta producendo migliore integrazione. Un qualcosa che è nell’interesse in primis dei laici, e di uno stato laico che voglia prevenire i conflitti – come suo dovere di buongoverno, di buona gestione della cosa pubblica, di attenzione al benessere – non di crearne. Ma per definizione, per dialogare, bisogna che gli interlocutori siano considerati su un piano di parità almeno formale – in quanto attori sociali, non a partire da quello che presumiamo essere il contenuto veritativo del loro credo religioso. Nei rapporti con altre realtà religiose in Europa, i musulmani ne vivono la ‘normalità’, l’ordinarietà, ma anche le ricadute positive. E anche questo è un messaggio che può varcare e di fatto varca i confini, in direzione dei paesi d’origine. Stesso percorso che oggi fanno media islamici prodotti in Europa, le associazioni transnazionali che in Europa hanno i loro centri formativi e talvolta anche amministrativi ed economici, e fondi stessi, che cominciano non solo ad essere più importanti dei flussi di denaro in senso contrario, ma che possono influenzare in prospettiva le stesse politiche dei paesi in cui si dirigono.

Ecco, di tutto ciò i predicatori di conflitto di ambo le parti non hanno capito o non vogliono capire nulla – interessatamente. Per uscire dalla loro logica bisogna uscire anche dall’eccezionalismo islamico (l’idea di considerare i musulmani sempre e comunque un caso a parte, da doversi gestire con strumenti specifici) e, in questo senso, cominciare a normalizzare, e anche a normare, la presenza islamica. Il che presuppone un qualcosa di tremendamente assente dal dibattito attuale: il pensare anche sul medio periodo e non solo sull’immediato, il cominciare a capire che le prime generazioni lasciano il posto alle seconde, che occorre dunque pensare all’islam europeo come a una realtà di mutamento, certo, ma anche e forse soprattutto in mutamento. Tutto il contrario degli stereotipi essenzialisti che incessantemente vengono spacciati per verità, anche se empiricamente poco dimostrabili.

Non saranno le crociate da operetta dei capipolo leghisti, o le contemplazioni dell’ombelico occidentale dei salotti e dei manifesti in difesa del medesimo, a risolverci i problemi che abbiamo. Nemmeno uno. Meno che tutti la difesa dal terrorismo islamico transnazionale, pure una doverosa priorità: nella quale dovremmo cercare di coinvolgere la maggioranza dei musulmani (che ne è vittima quanto e più di noi, subendone sulla propria pelle le conseguenze, incluso l’incattivirsi dei rapporti quotidiani) a stare dalla nostra parte, invece di spingerli tutti nel medesimo angolo e nella medesima definizione estremizzata – tutto, tranne che un incentivo all’integrazione. Semmai questo atteggiamento inutilmente militante e muscolare ce ne crea qualcuno, di problema. Innanzittutto di comprensione di quel che accade. E di conseguenza di intelligenza nell’azione.

1“I musulmani in Italia: chi sono e come ci vedono”, nel numero monografico, a cui rinviamo, “Il nostro islam”, Limes, n. 3, 2004.

2 Su cui, più in dettaglio, rinvio al mio Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Torino, Einaudi, 2003.

3 Il riferimento principale in proposito è B. Maréchal, S. Allievi, F. Dassetto, J. Nielsen (a cura di), Muslims in the Enlarged Europe, Leiden, Brill, 2003, un’ampia ricerca comparativa promossa dalla Forward Studies Unit della Commissione Europea, ma svolta in modo autonomo da un significativo gruppo di ricercatori in tutti i paesi europei, inclusi quelli coinvolti nel processo di allargamento dell’Unione. Tra le più recenti raccolte di saggi sulla situazione europea, A. Al-Shahi e R. Lawless (a cura di), Middle East and North African Immigrants in Europe, London, Routledge, 2005, R. Aluffi e G. Zincone (a cura di), The Legal Treatment of Islamic Minorities in Europe, Leuven, Peeters, 2004, S. T. Hunter (a cura di), Islam, Europe’s Second Religion, Westport, Praeger, 2002. Tra i saggi di sintesi, F. Dassetto, L’incontro complesso. Mondi occidentali e mondi islamici, Troina, Città Aperta, 2004, S. Allievi, Musulmani d’occidente. Tendenze dell’islam europeo, Roma, Carocci, 2004, e J. Césari, Musulmani in occidente, Firenze, Vallecchi, 2005.

4 I testi fallaciani in questione sono ovviamente i vendutissimi La rabbia e l’orgoglio (2001), La forza della ragione (2004) e Oriana Fallaci intervista se stessa – L’Apocalisse (ancora 2004) tutti per Rizzoli, in attesa del prossimo best seller magari opportunamente corredato di vignetta anti-islamica, come già ventilato dalla stampa. Mi permetto di rinviare convintamente alla risposta ai medesimi raccolta in S.Allievi, Niente di personale, signora Fallaci. Una trilogia alternativa, Reggio Emilia, Aliberti, 2006. Uno dei rari tentativi – lo diciamo con consapevolezza – di rispondere punto per punto, e con fatti, non solo con opinioni, alle opinioni fallaciane, provando a rivolgersi sia ai lettori di Oriana Fallaci, cercando di proporre loro un modo diverso di leggere gli stessi problemi, sia a coloro che dai suoi libri sono rimasti invece offesi e scandalizzati, o si sono sentiti anche solo critici nei suoi confronti, ma faticano a trovare gli argomenti per rispondere.

Allievi S. (2006), L’islam italiano: istruzioni per l’uso, in “Limes”, n.2, 2006, pp.109-121