Post-Covid: la grande diseguaglianza. Le “3G” che dividono l’Italia
Non si uscirà dall’emergenza occupandosi solo dell’emergenza. Perché la crisi economico-sociale indotta dal Covid non ha fatto altro che far vedere meglio i mali strutturali dell’Italia.
In particolare, si sono manifestate in pieno le tre grandi disuguaglianze su cui si fonda il nostro paese, quelle che potremmo chiamare “le 3 G”: tra garantiti e non garantiti, tra generi e tra generazioni.
Il possesso o meno di garanzie ha diviso radicalmente l’Italia: tra titolari di un reddito fisso (un salario pubblico e pensioni, in particolare), e tutti gli altri. C’è chi ha potuto mantenere un reddito sostanzialmente inalterato, continuando a lavorare in presenza o a distanza, nel privato come nel pubblico (ma in qualche caso anche in assenza di un decente corrispettivo lavorativo, nella parte di pubblico impiego che non ha saputo o voluto reagire, diciamo pure quella parassitaria), e chi invece l’ha perso in tutto o in parte. La divisione si è vista benissimo nel tipo di reazione predominante al virus. I garantiti avevano e hanno tuttora in testa solo il problema sanitario, e la sua soluzione, privilegiando l’aspetto di prevenzione della diffusione del virus a scapito di tutto il resto: con elementi di sovrastima del pericolo, di sottostima delle conseguenze delle decisioni adottate, di evidente egoismo sociale. E hanno monopolizzato per lunghe settimane il discorso e la produzione di conoscenza (o presunta tale), quasi senza contraddittorio, a scapito delle tragedie che stavano avvenendo nell’economia e nella società, dove i non garantiti sono stati a lungo degli invisibili: una platea larghissima, ma quasi senza voce. Composta da tutti coloro che hanno perso lavori e lavoretti temporanei e a termine, i licenziati, i cassintegrati, gli imprenditori, artigiani e commercianti che sono stati obbligati a chiudere, senza più guadagni mentre le spese correnti si mantenevano quasi inalterate, i settori a contatto con il pubblico, dal turismo al mondo dell’arte e della cultura, ma anche le fasce tradizionalmente deboli e marginali della società, che vivono di lavoretti, di espedienti, di lavoro nero (e quindi non tutelato né quando c’è né quando non c’è più), gli immigrati (tra i quali il tasso di povertà era già prima quadruplo rispetto alle famiglie italiane), tutta quella fascia di società che sopravvive a cavallo tra emerso e sommerso, un po’ in regola e un po’ no. Se è vero che ci siamo impoveriti tutti di almeno il dieci per cento (ma crediamo che la percentuale finale sarà molto più alta – il peggio deve ancora venire), tutto ciò è avvenuto in maniera profondamente diseguale, e ha aggravato ulteriormente la già drammaticamente diseguale struttura delle opportunità nel nostro paese.
La seconda “G” riguarda le diseguaglianze di genere. Anche queste già ben visibili (prima della crisi eravamo all’82° posto nel Global gender gap index), ora si sono amplificate in maniera così evidente da rendere precarie anche le conquiste ottenute di recente. Come sempre, il costo vero delle scelte fatte e ancor più non fatte (si pensi al disinteresse per la scuola e i bambini) si è scaricato soprattutto sulle donne, costrette a rinunciare a redditi già prima più bassi per occuparsi della prole, di cui improvvisamente non si è occupato più nessun altro, né istituzioni né servizi. Gli studi cominciano a denunciarlo adesso, ma il problema ancora una volta era antecedente, con ritardi enormi su indicatori che non riguardano solo il benessere delle donne – che poi è il benessere delle famiglie e della società – ma anche le prospettive demografiche, che già erano una cappa cupa sul nostro futuro (in Italia si dimentica che i tassi di partecipazione al lavoro delle donne e i tassi di fecondità sono intrecciati in positivo: per cui meno le donne lavorano, meno fanno figli, non il contrario). Ma i passi indietro sono stati anche in altri ambiti, dalla divisione dei ruoli alla violenza di genere: condannando metà dei membri della società a sostenere l’altra metà, implementando discriminazioni già impressionanti e mal comprese.
La terza “G” tocca le diseguaglianze generazionali. Queste erano già gravissime prima, in un paese con la natalità più bassa d’Europa, il maggior disequilibrio negativo tra nati e morti, l’età media più elevata, le proiezioni più drammatiche nel rapporto tra popolazione attiva e pensionati (che potrebbe diventare di uno a uno tra poco più di vent’anni), la permanenza crescente dei giovani nelle famiglie d’origine (la più alta d’Europa: due terzi nella fascia 18-34 anni). Queste diseguaglianze sono aumentate drammaticamente in pochi mesi. O qualcuno crede che la colossale perdita di ricchezza e l’immenso debito pubblico che abbiamo deciso di accollarci con le scelte emergenziali successive non li pagherà davvero nessuno? Il problema è che i garantiti, che sono soprattutto maschi e anziani, si sono effettivamente abituati così: a vivere nell’irrealtà di un privilegio già oggi pagato dalle generazioni che seguono, e domani pagato ancora più salato proprio da chi sa già di essere destinato ad essere meno garantito di loro.
Ecco perché se non si affrontano questi nodi strutturali, non ne usciremo. O si costruisce una visione capace di guardare oltre l’emergenza, o ci si resta. E l’arrivo delle risorse europee è forse l’ultima occasione per farlo.
L’epidemia diseguale. Le “3G” dello choc economico, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 21 giugno 2020, editoriale, p.1