Le strade del Nordest: per andare dove?
E’ finita l’epoca dell’asfalto, delle strade a perdere, dei project financing legati alla mobilità su gomma, costruite dai soliti noti e inaugurate dai soliti politici, senza un progetto complessivo, senza una strategia di lungo termine, senza una vera programmazione, senza una solida riflessione di sistema. Ed è un bene.
Molti dei progetti elaborati in questi anni – macchine per fare denaro a mezzo di strade, e non strade a mezzo di denaro – non si faranno più. Resta giusto la pedemontana: una storia infinita, che prima o poi sarebbe dovuta giungere a conclusione.
Uno stop che ci è utile per ripensare ad alcune tendenze di fondo, che non hanno a che fare solo con l’economia, ma anche con la cultura diffusa, sedimentata, popolare. A cominciare dalla cultura stessa dell’automobile: e dell’auto non come mezzo di locomozione, ma come status symbol, non a caso assurdamente pulita, lucida, possibilmente nera, in ogni caso splendente, anche quando si tratta di un suv o di un fuoristrada nato per sporcarsi negli sterrati, e invece ridicolmente luccicante. Una protesi della persona, e di questa persino più esteticamente rilevante. Più protetta di una casa fresca di cera in cui camminare con le pattine. Più rilevante nel mostrare la dignità della persona di qualsiasi altro gadget o complemento. A prescindere dall’utilità reale. Dunque pure forma, anziché contenuto. Lontana dalla sua funzione reale – muoversi – perché la sua funzione in realtà è un’altra, simbolica.
Per lungo tempo è sembrato che per le strade fosse la stessa cosa: quasi che lo scopo fosse farle, a prescindere dalla loro funzione. Come per la cementificazione e il consumo del territorio, che in Veneto per molti anni è stato doppio rispetto alla media nazionale. Come per le zone industriali e artigianali, per i milioni di metri cubi di capannoni oggi del tutto inutili e inutilizzabili. Per una generazione di amministratori, ma non solo loro (associazioni di categoria, e in generale elettori, condividono la responsabilità e il progetto, o la mancanza del medesimo), l’obiettivo era farle, a prescindere dall’utilità, e senza pensare davvero al futuro, alla programmazione. Senza sapere perché, a che scopo. Alcune servivano – si pensi al passante di Mestre. Per altre la metafora è troppo ghiotta per non essere utilizzata: strade, d’accordo, ma per andare dove? Dove vuole andare il Veneto? Proseguendo nel ragionamento: per rimanere nei propri confini, o aprirsi all’altrove? per collegare le più minuscole frazioni tra di loro, o per collegarsi con il mondo? per chiudersi in se stessi o per aprirsi? per contemplare il proprio ombelico, o le facce degli altri? per continuare a guardare dentro di sé, in quella che viene anche troppo pomposamente chiamata la propria identità, o per guardarsi intorno? per richiamarsi sempre e solo alle proprie radici lontane, o guardare ai frutti che si producono, che di una pianta sono la parte davvero rilevante? (anche dal punto di vista delle tanto richiamate radici culturali e religiose cristiane: nelle Scritture si dice che “dai loro frutti li riconoscete”, non certo dalle loro radici – da quello che fanno, cioè, non da quello che dicono di essere).
Se davvero si sapesse chi si è, cosa si vuole fare, dove si vuole andare, forse si scoprirebbe che la via maestra non è più solo quella asfaltata. Una strada che rischia in realtà di portare non al collegamento con altri, ma alla chiusura in sé, e alla perdita di sé – del proprio rapporto con il paesaggio, per esempio: che, questo sì, è legato all’identità, al sé più profondo. Una riflessione che c’entra con il privilegiare il trasporto pubblico – finora negletto – rispetto a quello privato – finora privilegiato. E che potrebbe farci scoprire che sarebbe magari utile, rispetto all’automobile (in altre realtà culturali ormai superata, e meno proprietà privata che mezzo utilizzato in qualche forma di sharing, di condivisione), rimodernare le vecchie vie oggi abbandonate, dalle idrovie alle ferrovie, e recuperare spazi di mobilità alternativa, dalle piste ciclabili anche di lunga percorrenza ai sentieri di montagna. E ripensare al rapporto con l’aria, con i cieli. Finendo magari per scoprire che l’oggi vagheggiato aeroporto di Cortina è il simbolo e la metafora di altri aeroporti e di altre aperture alla globalizzazione, e dunque al mondo.
Nella civiltà dell’auto finisce un’epoca di gomma e asfalto, in “Corriere della sera – Corriere Imprese Nordest”, 11 gennaio 2016, p. 3, rubrica “Le parole del Nordest”