E se cambiassimo idea sull’eredità?

Come specie – come tutti gli animali – siamo abituati a vivere nel presente. A ricominciare sempre da capo. Quando ce lo dimentichiamo, ci pensa la natura a ricordarcelo: come in questi mesi di pandemia – in cui anche il ricco occidente e il mondo sviluppato è costretto a riscoprire la precarietà e la fragilità della vita umana e delle sue costruzioni, dei suoi progetti, delle sue aspettative, delle sue illusioni. E, con esse, il rischio di non avere un domani. Cosa che il resto del mondo – e una parte del nostro – sa bene per esperienza quotidiana: legata alla natura (terremoti, eruzioni vulcaniche, tempeste, siccità, magari invasioni di cavallette, ma anche, banalmente, malattie) o alla violenza dell’uomo (guerre, razzismo, repressione politica o religiosa, ma anche invidia, aggressività, brama di possesso – e quanto spesso riguarda gli uomini nei confronti delle donne, non solo del denaro –, gusto per il potere, pura e semplice cattiveria).

Ma come! Non ci eravamo appena emancipati dalla povertà? Non abbiamo – da poco, dopo tutto – inventato il welfare state e le pensioni? Non avevamo smesso di procurarci il cibo giorno per giorno? Non potevamo programmare, progettare, emanciparci almeno transitoriamente dalla schiavitù del bisogno e del lavoro? Sì, tutto questo è vero. È un processo recente nella storia dell’umanità – e reversibile, come ci dimostra anche questa crisi da pandemia (o da timore di essa) – ma è ancora in corso: molti di noi non sono più vincolati dalle sole risorse acquisite con le proprie mani, procurate nella dura fatica quotidiana per conquistarsi quanto basta per sopravvivere fino a domani. E questo riguarda sempre più persone nel mondo, anche se molti restano gli esclusi.

Nello stesso tempo comincia a emergere qua e là la coscienza che in un certo senso tutto è troppo. Troppa proprietà, troppi oggetti, persino troppe certezze, intorpidiscono. E così, si vedono emergere delle controtendenze. Tribù metropolitane, subculture e controculture alternative, che focalizzano il loro interesse e gerarchizzano le loro priorità su altro: qualità delle relazioni, valorizzazione del tempo, o anche solo chiusura in se stessi e nel proprio qui e ora senza voglia o capacità di uscirne, come nel caso estremo degli hikikomori. Ma è una tendenza più ampia e diffusa, e normalmente più vitale: indotta anche dall’evoluzione tecnologica e del costume. Il bagaglio leggero e portatile delle nuove mobilità e connettività (se possiedi pc, smartphone e un paio di memorie esterne hai più o meno tutto quel che ti serve, sia in termini di oggetti e ricordi sia di informazioni e conoscenze necessarie e disponibili), l’inutilità progressiva della proprietà (dell’auto, dell’ufficio, della casa, dei mobili, degli oggetti) in favore dell’utilizzo collettivo, del riutilizzo e dello scambio rapido, senza inutili affezioni. Conoscenza, cultura, valori, persino ricordi familiari ormai sono sempre meno incorporati negli oggetti e sempre più disponibili da qualche parte su internet. Soprattutto, sono sempre meno ereditati e sempre più acquisiti, secondo i giochi del caso e delle possibilità, e le avventure della ricerca, e i suoi inciampi, spesso casuali. Casa, per esempio, per moltissimi non è più dove si è nati, e nemmeno dove vivono le persone che ci hanno generato: ma dove si decide di stare, dove si viene accolti, dove piace (e spesso non è un luogo, ma magari un lavoro, un hobby, un’idea, un’appartenenza culturale, religiosa, politica…).

È il concetto stesso di eredità (non quello di ereditarietà) ad apparire obsoleto, oltre che sommamente ingiusto. Pensiamo alle eredità materiali: soldi, patrimoni. Persino i più ricchi tra i ricchi globali oggi cominciano a teorizzare e in certa misura a praticare che non è giusto e non ha senso lasciare immensi patrimoni (sempre più spesso, oggi, acquisiti in una sola generazione) alla generazione successiva, che non ne ha alcun merito – e magari cominciano a stoccare parte significativa di questi beni in fondazioni a servizio del pubblico. Anche in Italia è gravissima l’ingiustizia prodotta dalla trasmissione dei patrimoni per via ereditaria – da noi, oltre tutto, molto meno tassati che altrove – per finire non di rado in mani dissipatrici, per incapacità molto più che per indegnità: l’opposto della meritocrazia, oltre che di un’idea di bene comune. E sarebbe ora di cominciare a dirlo e ad agire di conseguenza. Tassando il giusto i beni ereditati. E cominciando a discutere pubblicamente sulla loro legittimità. In società ricche ed evolute, in cui il minimo per vivere decentemente potrebbe essere garantito indistintamente a tutti, il resto potrebbe essere lasciato alle capacità di ognuno, e al caso, ma non più a diseguaglianze ereditate alla nascita, senza merito o demerito di nessuno.

 

Confronti, n. 6, giugno 2020, rubrica “Il mondo se…”, Senza eredità, p. 34