Dopo il referendum: si può ancora cambiare?

Domenica, giorno del voto, avevo scritto su queste pagine che, comunque fosse andata, si sarebbe posto il problema dell’innovazione: istituzionale, costituzionale, e anche d’altro genere. Il paese ha bisogno di essere liberato da molte cose: da una classe politica inadeguata e impreparata (nazionale e locale), da prassi governative novecentesche, da un sistema legislativo complicato e inconcludente, da un sistema giudiziario imbalsamato e inefficiente, da un sistema fiscale oppressivo e farraginoso, da burocrazie che – nonostante qualche miglioramento – continuano a trattare il cittadino come un suddito, da lacci e laccioli e impedimenti d’ogni genere. Ma anche dai suoi mali antichi, condivisi dal popolo e non solo dalle sue classi dirigenti, dalle sue prassi ancestrali, dai suoi vizi di fondo, dai suoi familismi amorali, dalla sua propensione alla corruzione e alla raccomandazione (tutto, insomma, tranne che la meritocrazia e la concorrenza), dal suo torpore e dalla sua stasi, insomma.
Che si fosse a favore di questa riforma, o si fosse contrari ad essa, tutti gli attori politici esprimevano una urgenza di cambiamento: la divisione, anche aspra ma legittima, era sul come.
Il popolo italiano, con una grande partecipazione che è di per sé il primo risultato positivo di questa campagna referendaria, e con una nettezza di risultato che ci risparmia atteggiamenti compromissori e dilazionisti, si è espresso a schiacciante maggioranza contro la proposta di riforma sostenuta dal governo Renzi; e il premier, con una rapidità cui non eravamo abituati dal ceto politico precedente e che va a suo merito, si è conseguentemente dimesso, risparmiandoci, con speculare chiarezza, alleanze oblique e comportamenti opachi, e il disagio di una interminabile agonia. Ora però occorre avere il coraggio di proporre un’altra agenda di mutamento: economico, sociale, di legge elettorale, e, sì, anche costituzionale. Cambiando l’ordine dei fattori e le priorità, dato che quelle proposte sono state sonoramente bocciate; allargando gli ambiti di consenso e le alleanze; cambiandone, naturalmente, i contenuti. Ma l’immobilismo sarebbe il peggiore dei risultati possibili per il paese: e ne sono già simbolo inquietante i brindisi al Cnel, la soddisfazione silenziosa di senatori che hanno salvato il posto e consiglieri regionali che hanno salvato lo stipendio pieno, le facce sorridenti dei leader della prima repubblica viste in televisione, insomma la contentezza di caste e microcaste.
Il problema è chi potrà intestarsi la capacità di proporre questa agenda. Essa era il cuore della narrazione renziana, ma molto meno la realtà della sua politica, e ancora meno la percezione che ne ha avuto il paese: e la differenza tra questi tre livelli – colpevolmente sottovalutata – si è vista e ha pesato. Rendendo persino di moda l’anti-renzismo (inteso proprio come antipatia nei confronti di Renzi come persona, prima ancora o oltre che nei confronti delle sue politiche), come ha ben sottolineato Galli della Loggia su queste pagine. Il No massiccio espresso dai giovani, di solito considerati i più propensi all’innovazione, anche correndo qualche rischio, e quello altrettanto evidente delle fasce più deboli della società, sono lì a dimostrarlo, senza giustificazioni e senza scuse, con l’evidenza del dato oggettivo.
La vittoria del Sì, dal punto di vista del governo, avrebbe potuto essere l’iniezione di energia capace di far decollare finalmente la stagione dei cambiamenti radicali; dal punto di vista dei suoi detrattori, apriva invece al rischio di un’involuzione ulteriore. Hanno vinto i detrattori. La vittoria del No ci lascia un’indicazione chiara sul presente (no a questo cambiamento in questo modo), ma un vuoto di indicazioni totale sul futuro. Non perché non abbia ricette, ma perché ne ha troppe e tra loro contraddittorie. In questo senso solo le elezioni potranno darci qualche indicazione (se la legge elettorale, contro cui tutti hanno tuonato – il famoso ‘combinato disposto’ – e che adesso, improvvisamente, sembra andare bene a molti dei vincitori, lo consentirà). Per questo è bene che ci si arrivi prima possibile.
Dopo il referendum, riscriviamo l’agenda del cambiamento, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 dicembre 2016, p. 4