Lettera a me stesso sul referendum: il giorno dopo

Padova, 5 dicembre 2016

Non ho letto i giornali, oggi. Dopo le dichiarazioni dei leader politici, e dopo l’annuncio delle dimissioni di Renzi, non ho più guardato le tv. Dopo gli ultimi post della notte, ho abbandonato i social network.
Come tutti, c’è la vita che mi richiama ai miei doveri: nel mio caso, di docente, di marito e padre, di persona con degli obblighi, dei problemi, delle cose da fare. Come tutti, appunto.
Ma sento il bisogno e l’urgenza, anche, di riflettere su questo esito referendario: a freddo, ma non troppo – con la lucidità necessaria.
Perché (e non so veramente perché…) porto con me la sensazione che si sia giocata, anche nella nostra inconsapevolezza di elettori, una partita molto più ampia di quella giocata intorno al quesito (dopo tutto, un referendum: e per motivi anagrafici ne ho già vissuti molti, e molte elezioni, in cui ero anche emotivamente più coinvolto, e non mi hanno fatto questo effetto). Ho un po’ come la sensazione di essere il testimone della chiusura di un ciclo: direi una fine impero, o una rivoluzione, se non fosse che ho la consapevolezza che non si tratta né dell’uno né dell’altra. Ma qualcosa di molto, molto profondo sì. Qualcosa che, credo, ha cambiato questo paese irreversibilmente, irrimediabilmente: almeno per una lunga, lunga nuova stagione che si annuncia, e di cui vorrei provare a intravedere, almeno, i contorni. E non è facile.
Con una premessa doverosa ma non scontata: questo referendum è stato una festa della democrazia. Per l’alta partecipazione che c’è stata. Per la forte passione che l’ha mossa. Per le discussioni e le polemiche (segno di vitalità) che ha innescato. E’ stato un bene che sia finita così, che abbiano votato in molti. E’ servito a fare chiarezza, ad eliminare gli scenari più vaghi e fumosi. Bene anche, in questo senso, la nettezza del risultato. Ci libera degli esiti potenzialmente più compromissori, dal tirare a campare. Insomma, è stato un bel giorno di democrazia applicata.
Comincio da me, e dal campo in cui ho voluto giocare. Ho votato Sì, nel merito, favorevole a un cambiamento costituzionale che ritenevo e ritengo ancora utile e necessario (non sto a motivare qui i perché: l’ho fatto altrove, e ormai non ha più senso alcuno). E ho fatto quel poco che ho potuto per sostenere questa tesi: impegnandomi, parlandone, scrivendo, partecipando a dibattiti e trasmissioni televisive, discutendo sui social network – fino all’ultimo.
Nello stesso tempo, sono stato un sostenitore di Renzi già dalla prime primarie. Come ho detto spesso, ero un renziano già prima che Renzi esistesse: facevo parte di quella piccola minoranza del Partito Democratico che aveva creduto in un soggetto politico nuovo, con ragioni di esistenza diverse da quelle dei partiti che si erano unificati in esso (cui non partecipavo, e al massimo votavo senza convinzione), e viveva la sua condizione marginale, a mala pena tollerata, dentro un PD che era cambiato troppo poco rispetto alle promesse fatte (a Padova poi, dove vivo, rimasto semplicemente il PCI – a essere gentili il PDS o i DS – per inerzia, per decisamente troppo tempo, già quando si chiamava Partito Democratico da un pezzo…). A combattere questo finto PD ho dedicato molte energie e un libro (“Chi ha ucciso il PD”, Mimesis, 2013): non ha senso che mi ci soffermi ora.
Lo dico non per indulgere in autobiografismi, ma per far capire da che punto di vista parlo, e quindi anche quali responsabilità mi devo assumere.
Pur sostenendo le ragioni del Sì, mi rendevo tuttavia conto che nel paese l’aria tirava nell’opposta direzione. E agli amici che nei giorni della vigilia mi chiedevano un pronostico, rispondevo scaramanticamente che fino alla settimana prima davo per scontata la vittoria del No, ma che forse si poteva sperare in un recupero, chissà… Insomma, non ci credevo, ma ci speravo.
Che valutazioni faccio, ora? Non mi interessa tanto attribuire responsabilità, anche se me ne attribuirò e ne attribuirò a chi ho sostenuto, e molte: ma capire, soltanto capire. Capire non tanto il risultato (mi sembra abbastanza facile, in realtà…): ma la sensazione che provo, i perché di questa sensazione profonda di svolta che nessuna elezione e nessun cambio di maggioranza o di governo mi ha mai dato in passato, in questo modo.
Cominciamo dalle responsabilità del premier. Sono evidenti. Non tanto e non solo nell’aver personalizzato la campagna elettorale. Ma nell’aver sopravvalutato ampiamente le proprie capacità, il proprio consenso, il suo potere di convinzione (e ci sono molte ragioni per questo, che hanno impietosamente sottolineato i moltissimi anti-renziani: che non detestavano tanto – o non solo – le sue politiche, quanto proprio chi le incarnava, e perché erano incarnate da lui); e nell’aver contestualmente sottovalutato l’antipatia nei suoi confronti di molti cittadini e cittadine. L’anti-renzismo è diventata una categoria politica molto presto: esisteva già prima che diventasse premier, e si è fortemente rafforzata dopo, anche per i difetti caratteriali e lo stile – personale prima ancora che politico – del premier stesso. Ma, soprattutto, ha fatto un errore di valutazione politica gigantesco. Non si è accorto che l’effetto luna di miele, nella società di oggi, dura sempre meno. Che il risultato delle europee rappresentava un auspicio, o un’apertura di credito, non un’adesione, tanto meno stabile. Che per chi governa oggi è sempre più difficile ottenere consenso: non solo per come si governa, ma perché si governa. Perché nell’epoca delle insicurezze, delle paure, della crisi, dell’impoverimento progressivo, dell’erosione delle certezze d’antan, dell’indignazione, dell’odio compulsivo da tastiera e non, chi governa è comunque casta, potere, qualunque cosa faccia. E che tra quando si era messo in testa l’idea del referendum, quando ancora il consenso nel paese era enorme, e il momento in cui lo si è celebrato (troppo tardi, per una sua valutazione politica comprensibile ma sbagliata: capitalizzare i risultati delle sue stesse misure di governo, più lente nei risultati di quanto sperasse o immaginasse – e per una moral suasion del Quirinale, che voleva si mettessero prima in ordine i conti con l’approvaxzione della finanziaria), era passato davvero troppo tempo, troppa crisi, troppa altra insicurezza e altra paura. Ci si aggiunga lo stile un po’ guascone, le supponenze di troppo nei confronti degli avversari soprattutto interni, il gusto eccessivo di provocare, le ruvidezze di linguaggio, l’amore per la battuta anche quando sarebbe meglio non farla, l’avere intorno troppi mediocri imitatori: che non si è necessariamente scelto, che in molti casi non esercitavano alcun ruolo, ma che occupavano la scena senza valere nulla, e scimmiottavano il suo stile, senza avere alcuna visione e alcun carisma in proprio, rendendolo una caricatura – e penso alla periferia del partito, delle istituzioni e del paese assai più che al governo, di cui penso molto meno male di altri (i peggiori, a mio parere, erano quelli di altri partiti: quelli subìti più che quelli imposti).
Veniamo alle responsabilità del Partito Democratico. Non parlo di errori tecnici, pratici. Qui vedo più un problema di abbandono del tema del partito, di eccesso di disintermediazione, che altro. Perché il PD comunque – quello che ne resta, di iscritti e persone impegnate – si è speso, i Comitati per il Sì ci sono stati e hanno fatto il loro lavoro con generosità, quando hanno lavorato sul serio: ma troppi erano solo sulla carta, per farsi vedere. E la cinghia di trasmissione con iscritti e simpatizzanti non mi pare si sia vista molto. No, il problema del PD è più profondo e viene da molto più lontano, e da ben prima di Renzi: ne ho scritto per anni ai tempi di Bersani, per dire. E’ l’essere autocentrato, con sempre meno antenne nella società, quasi nulli legami con i bisogni reali, i problemi reali, l’economia reale, e il reale in generale. E’ l’essere interessato più al suo ombelicale dibattito interno, come se fosse interessante anche per il mondo al di fuori. In questo senso per me la stagione renziana, iniziata già con le prime primarie, quelle perse, doveva rappresentare la discontinuità radicale, l’uscita da questo loop inconcludente e narcisistico. A posteriori devo dire che è stata una speranza delusa. Almeno nei paraggi che ho bazzicato io, questa discontinuità non l’ho vista: i difetti di fondo sono rimasti gli stessi, persino aggravati da un certo isolazionismo, dal problema di difendere il fortino appena conquistato – problema irrilevante, se il fortino è vuoto… Della attuale minoranza interna, non parlo nemmeno: poco da dire, davvero. Ha fatto quello che se, fosse stata maggioranza, non avrebbe tollerato: in più senza personalità di rilievo capaci di opporre qualcosa di diverso dalla nostalgia, senza uno straccio di visione, unita dal collante di un astioso risentimento nei confronti di chi gli aveva portato via il giocattolo (la ditta), con poche eccezioni, e ancora meno legami con il mondo reale…
Premier e partito (della coalizione non vale nemmeno la pena parlare…) non sono dunque stati capaci di parlare al paese. Hanno provato a convincerlo, a sedurlo, anche a blandirlo, ma palesemente non ci sono riusciti. Il premier ne ha tratto le doverose conseguenze, e si è dimesso, con la chiarezza esplicita che ha caratterizzato il suo stile: e non vedo cos’altro avrebbe potuto o dovuto fare. Per questa assunzione di responsabilità, personalmente, lo ringrazio. Avrà ora modo di riflettere sullo scollamento che si è manifestato tra le speranze che ha suscitato, l’apertura di credito che gli è stata fatta, e la rapidità con cui le ha deluse, in alcune fasce del paese: e soprattutto sul fatto che non sia riuscito a comunicare con la parte del paese che non l’aveva ancora sostenuto, ma avrebbe potuto farlo. Perché la scommessa vera era lì: partire dallo zoccolo del 40% delle elezioni europee per conquistare i consensi del venti che mancava per governare in tranquillità negli anni successivi, portando a compimento il grande progetto riformatore che aveva lanciato (impresa ambiziosa, certo difficile, non riuscita a nessun altro, prima: ma era quello, dopo tutto, su cui aveva scommesso). Quella che avrebbe dovuto essere, nelle sue intenzioni, una galoppata trionfale, alla guida dei suoi rangers e di un esercito entusiasta, si è trasformata in una dimessa cavalcata quasi solitaria, in compagnia solo dei più fidi compari, mentre il grosso delle truppe trotterellava qua e là, accontentandosi dei pascoli appena conquistati, senza più slancio verso le grandi praterie aperte che avrebbero dovuto accoglierli. C’era – io credo – coscienza, nel premier, delle grandi linee della stagione riformista che doveva imboccare. E la stoffa del leader era presente. Non c’è stata coscienza vera delle difficoltà di raggiungere gli obiettivi (qui la freschezza è diventata anche ingenuità, che in politica si paga), del bisogno di costruire reti di consenso larghe: e mancava il personale per farlo (ancora una volta, non parlo del governo: parlo di tutto quello che c’è da quel livello in giù, partito incluso). Quando se ne è accorto, ha cercato di porvi rimedio: in parte resuscitando anche pratiche e personale che appartenevano all’armamentario della prima repubblica, che hanno finito per appannarne l’immagine di novità e diversità. A quel punto, con la zavorra di quella kryptonite, perdeva molto della sua forza dirompente, che all’inizio si era manifestata con nettezza. Le elezioni regionali sarebbero state un primo segnale, colpevolmente sottovalutato: altri sarebbero seguiti.
Mi dispiace, perché di quel profondo disegno riformista continuavo e continuo a vedere la necessità, anzi l’indispensabilità. E continuo a pensare che Matteo Renzi potesse essere la persona giusta per guidarlo. E forse, chissà, se la sua stagione non sarà finita (dipenderà da troppe variabili, impossibili da incasellare ora), potrà esserlo ancora, se farà tesoro dei suoi stessi errori. Ma intanto, ed è il motivo del mio scoramento, della sensazione di profondo disagio da cui ero partito, ho la sensazione che, con la sconfitta sulla riforma costituzionale – nell’analisi di tutti, un voto contro Renzi e il suo governo, più che nel merito della riforma (anche se il voto per il No, per onestà intellettuale, non è riconducibile solo a un voto di protesta – c’è stato anche altro, che non si è riusciti a intercettare) – si sia fermato, temo per molto tempo, qualsiasi disegno di possibile riforma radicale del paese, delle sue istituzioni, della sua costituzione, ma anche dei suoi mali antichi, delle sue prassi ancestrali, dei suoi vizi di fondo. Non sono solo le facce dei ‘vittoriosi’ transitate sullo schermo a darmi questa terribile sensazione di ritorno dell’eterno ieri (non c’è dubbio che con questo voto si sono salvate tutte le caste e le microcaste, rafforzandone l’atavica tendenza all’immobilismo), o dell’emergere del peggio di oggi: è proprio che mi pare si sia spezzata la possibilità di un disegno riformatore come l’ho sempre inteso – razionale, progressista, fondato su valori per me riconoscibili. E’ un mondo finito per sempre, temo: o comunque rinviato troppo lontano perché rientri nel novero delle possibilità coinvolgenti, in questo momento. Questa era – mi sembra – l’ultima occasione possibile, riconoscibile: non in sé (perdere su un referendum non è una tragedia, e il mondo non finisce), ma perché un successo qui sarebbe stato lo slancio, l’iniezione di energia, che avrebbe consentito di proseguire un cammino che oggi di necessità si interrompe. Non credo che ce ne saranno altre, a breve. Non nel modo di intendere la politica intorno a cui sono cresciuto io, e che posso, con i miei limiti, leggere e interpretare. Ma, appunto, forse è solo un limite mio.
E’ vero, il mondo non finisce. Ma confesso che il nuovo che avanza, e a cui faccio i miei migliori auguri, ha molti aspetti che mi inquietano. Non il ritorno della destra berlusconiana, che ormai induce più la tenerezza del timore: e che del resto abbiamo imparato a conoscere e quindi anche a difenderci da essa. Non l’inesausto quanto inconcludente agitarsi di una sinistra, interna ed esterna al PD, che ai miei occhi mostra una progressiva inesorabile irrilevanza e la propria totale inspendibilità in qualunque politica di alleanze: non per i bisogni che si illude di rappresentare (quelli sì, invece, reali, e rilevantissimi, se solo qualcuno fosse capace di intercettarli davvero e di dare loro risposte), ma perché quei mondi non li rappresenta per nulla, ed è fuori dalla loro storia e dal loro orizzonte. Questi due soggetti sono i più perdenti tra i vincenti di oggi. Chi mi preoccupa sono gli altri. Il rozzo isolazionismo xenofobo e la chiusura culturale di Salvini (e non ho bisogno di motivarlo troppo: la mia storia personale lo spiega). E il probabile futuro vincitore delle prossime probabili future elezioni (così come è il vero vincitore del referendum): il Movimento 5 Stelle. Contro il quale non ho nulla in specifico, ma piuttosto un’estraneità culturale profonda, che cerco di motivare: più che altro per far capire perché temo non possa veramente essere alla guida di un disegno riformatore utile. Assisterò con tranquillità alla sua ascesa al potere. E, se Dio mi darà vita sufficientemente lunga, anche alla sua caduta (in fondo, tutti i cicli politici si sono accelerati: la parabola di Renzi lo testimonia). Senza partecipare né dell’una né dell’altra. E senza gioire né dell’una né dell’altra. Sono figli di questo momento storico: che, tuttavia, sono in grado di rappresentare e di canalizzare in termini di consenso, ma non di comprendere, temo. Non solo perché mi sembrano ancora fortemente impreparati, e lo temo per il paese (anche se non è un problema in sé: col tempo ci si forma, se si vuole – soprattutto se si ha l’umiltà di capire che se ne ha bisogno. E’ un problema che hanno avuto anche alcuni renziani: troppa rapida fortuna non favorisce la riflessività. Rischia domani di capitare al M5S, per le stesse ragioni…). No, prima dei contenuti (che ho capito solo in parte, e quelli che ho capito non mi piacciono: l’antieuropeismo, le ambiguità sulle immigrazioni, su alcuni diritti), è l’humus culturale in cui sono cresciuti che mi è estraneo. Sono fortemente affascinato dai cambiamenti di cui sono il prodotto: per mestiere e vocazione intellettuale, voglio capirli e analizzarli, e questo faccio o provo a fare. E capisco il fascino che possono esercitare. Ma, mi ripeto, ne sono totalmente estraneo, dal punto di vista della formazione culturale. Mi sbaglierò, e spero di sbagliarmi: ma se li analizzo (loro, la loro leadership, e il loro mallevadore; non chi li vota: brava gente qualsiasi, come ovunque se ne trova, spesso anche lodevolmente impegnata nel sociale, per l’ambiente), sì, mi preoccupano. Mi preoccupa il noismo (che intendo in due modi: la propensione per il no, per le prese di posizione ‘contro’, quasi di default; e la distinzione radicale e manichea tra un ‘noi’ presuntuosamente circonfuso di superiorità morale e un ‘loro’ che rappresenta tutte le bassezze); l’indignazione come sentiment; la totale incapacità (per ora, mi pare) di andare oltre il breve termine che l’indignazione esprime; lo scandalismo professionale, condito di dietrologie ingenue e complottismo spesso infantile; l’incapacità di trovare un solo merito nell’avversario – che deve essere descritto come il male assoluto – e un solo obiettivo comune con altri (la diversità morale di certa sinistra del passato, assai presunta, mi pare abbia traslocato qui); la denuncia come vocazione; il giustizialismo ammiccante al peggio delle pulsioni popolaresche; il dilettantismo esibito accoppiato a una presunzione illimitata quanto mal fondata; il mito adolescenziale della rete, della tecnologia come soluzione, della democrazia diretta in versione telematica; la rabbia – che pure hanno il merito storico di incanalare parlamentarmente – elevata a categoria politica e interpretativa; e l’agitare strumentale dei principi (che, certo, fanno tutti, chi più chi meno), splendidamente esemplificato, senza cogliere contraddizione alcuna, dal repentino passaggio dalla denuncia dell’Italicum come l’origine di tutti i mali (il famoso ‘combinato disposto’ che rendeva indigeribili i cambiamenti costituzionali, persino quelli di banale buon senso), alla fretta con cui si è giunti a chiedere – con una rotazione di 180 gradi di cui nessuno pare accorgersi – di andare a votare con esso, dichiarando di non voler partecipare ad alcun tavolo che voglia cambiare la legge elettorale, perché pensano che gli convenga.
Ecco, mi pare che la sconfitta al referendum abbia chiuso la strada alla riforma possibile, ragionevole, ipotizzabile, e al contempo urgente, per aprire un’autostrada a tutto questo, e al rinvio sine die della soluzione ai problemi profondi del paese. La colpa è naturalmente, e innanzitutto, di chi ha scambiato il referendum per una scorciatoia – e l’ha promosso in questo modo, con questi contenuti, con questa mancanza di alleanze – senza pensare che avrebbe potuto trasformarsi in una battuta d’arresto, o diventare una strada che si perde nel bosco. La colpa è anche mia, quindi, perché l’ho creduto possibile, e mi sono speso per questo. Con un azzardo rischioso: e che alla fine si è rivelato esiziale. Me ne assumo tutta la responsabilità. Ringrazio Matteo Renzi perché si è dimesso, assumendosi la sua. Io non so bene da cosa dimettermi. Probabilmente dal diritto di giudicare la partita che altri giocheranno. Ma temo non riuscirò a stare del tutto zitto. Per un po’, tuttavia, mi prenderò del tempo per guardarmi intorno e osservare il passaggio. Nella speranza di comprenderlo meglio, in futuro.
Non so se tutto questo costituisce la fine della stagione renziana come pulsione positiva al cambiamento, e come capacità di guardare anche al medio termine delle trasformazioni in atto, e non solo alle convenienze immediate; o se è invece la promessa di un ritorno possibile di quella stagione e del suo stesso animatore (un merito che mi sento di riconoscergli, in ogni caso, nonostante la maggioritaria antipatia popolare che oggi lo circonda). E’ stato comunque bello, per me, combattere questa battaglia, crederci. Non so quando sarà la prossima, se ci sarà, e in quale compagnia. Oggi è comunque politicamente onesto prendersi una pausa di riflessione, analizzando bene le ragioni della sconfitta senza attribuirne la colpa ad altri e senza vittimismi autoindulgenti: in democrazia, chi perde merita di perdere. E lasciando lo spazio che meritano, e si sono conquistati, i vincitori.
Stefano Allievi