Un mondo senza figli?

Senza figli

2 novembre 2018

di Stefano Allievi. Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

Un’umanità senza figli è un’immagine al limite dell’impensabile: se non si riproduce, una specie si estingue. Eppure non è del tutto paradossale. Basta leggere qualche segno tra quelli che abbiamo intorno, almeno nelle società ricche, per accorgercene.

L’invecchiamento della popolazione, per esempio. Che non è tale solo per i progressi della medicina, che allontanano a poco a poco la morte dal nostro orizzonte persino cognitivo, e nel frattempo ci fanno vivere meglio. È che proprio di figli ne facciamo sempre meno.

E non solo perché costano: certo, si potrebbero attivare politiche in favore delle famiglie (incentivi economici, deduzioni di spese e detrazioni fiscali, servizi, a cominciare dai nidi, e una diversa articolazione dei contratti e del mercato del lavoro). In altri paesi hanno anche funzionato.

Resta il fatto che il dato non è solo economico, ma più profondamente culturale. Non a caso a fare meno figli sono i paesi più ricchi, rispetto a quelli più poveri: e, all’interno degli uni come degli altri, sono sempre i più ricchi a riprodursi di meno. Risultato? L’inversione (quasi) della piramide demografica, o almeno la sua trasformazione in una specie di botte: più larga al centro e nella fascia medio-alta (nelle età più mature), e più piccola in basso. Un dato che non ha quasi precedenti nella storia, almeno non per cause naturali.

Già oggi, in alcune regioni d’Italia, ogni due persone con più di 65 anni ce n’è una sola con meno di 15. Per limitarci alla forza lavoro, in questo momento per ogni 3 lavoratori attivi ci sono 2 pensionati: ma nel 2050 saranno 1 contro 1 (letteralmente).

E rischierebbe di aprirsi un conflitto generazionale che, se fosse consapevole (ma non lo è), potrebbe far impallidire i conflitti tra classi, o quelli tra destra e sinistra. Una delle principali fratture sociali sta proprio lì: ma, appunto, è poco percepita nel dibattito pubblico, e soprattutto i vincitori sono già noti.

A meno di svolte epocali, anche di metodo di conduzione della lotta politica, gli anziani sono di più, e hanno una maggiore propensione al voto. Inevitabile, in una democrazia i cui orizzonti si accorciano sempre di più (le prossime elezioni, non le prossime generazioni), che si privilegino loro e i loro interessi. Sta già accadendo, no?

Ma a parte la sostenibilità del sistema pensionistico, e l’ineguaglianza nell’allocazione delle risorse (aprire un nuovo reparto geriatrico o una patologia neonatale? Finanziare le pensioni o le borse di studio universitarie? Gli anziani non autosufficienti o i mutui per le giovani coppie? La risposta è già scritta nei numeri), abbiamo veramente idea di cosa significhi una società in cui prevalgono numericamente gli anziani?

Non sono loro, di solito, a produrre l’innovazione, le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche, le start up, gli investimenti, le nuove mode, le nuove imprese: il loro orizzonte è più breve, segnato com’è dalla maggiore vicinanza e consapevolezza della fine. Anche se, va detto, oggi si è molto più vitali e in salute, a parità di età, rispetto al passato: e quindi la fase creativa della vita si allunga.

Ci sono poi altre svolte in corso. L’idea di riproduzione si è staccata (o può farlo) da quella di famiglia, e di sessualità: il concepimento artificiale, la maternità surrogata, e altre pratiche per ora di frontiera aprono scenari inediti e ulteriori cambiamenti culturali. Già passare al figlio unico aveva fatto perdere di realtà concetti fondativi della vita sociale moderna, come quelli di fraternità e sorellanza: che per i nuovi nati privi di compagnia familiare non significano più nulla.

Certo, il mondo è largo: ci sono le migrazioni, che potranno compensare la mancanza di bambini e giovani. Sapendo che c’è una generale tendenza all’integrazione che porta ad adeguarsi ai costumi dominanti. E poi presuppongono un mondo aperto, che non sembra nelle corde dell’oggi. Innovazione tecnologica e intelligenza artificiale ci daranno poi una mano in molti modi: umanoidi e replicanti potranno farci compagnia.

Ma è bene almeno sapere che si può andare verso una utopia felice, o una distopia alla Ballard.

E in questo momento è difficile prevedere quale possa essere più probabile.

[pubblicato su Confronti 11/2018]

Perché il Veneto non fa notizia?

Come in altre occasioni, le disgrazie metereologiche e idrogeologiche capitate al Veneto ci hanno messo tre giorni ad arrivare all’attenzione della stampa nazionale con il dovuto rilievo. La sensazione di una certa marginalità – questione di pesi e misure differenziate – fa masticare amaro, ancora una volta. Anche nel dolore, sembra di contare meno: le barche di Rapallo e la strada di Portofino hanno colpito l’immaginazione nazionale prima e più delle foreste devastate, delle strade mangiate dall’erosione o invase dalle frane, delle intere vallate isolate, delle decine di migliaia di persone senza luce e riscaldamento, della stessa eccezionale acqua alta di Venezia (tanto lì ci sono abituati, si sarà pensato…). Continua a leggere

L'Italia, l'Europa e la Russia: il rischio di un cambio di alleanze

Da paese fondatore dell’Unione Europea e atlantista ad oltranza, a paese anti-europeista e filoslavo. La Russia come patrono e protettore al posto degli Stati Uniti. E insieme, le due superpotenze anticamente nemiche, contro l’Europa, che entrambe vogliono indebolire: con l’Italia, anello debole in ogni caso (dell’Europa, dell’alleanza con gli Stati Uniti in chiave anti-europea, ma anche di un’eventuale alleanza con la Russia allo stesso scopo), che si presta a un gioco altrui. Continua a leggere

Se la politica estera rischia di cambiarci più di quella interna

Da paese fondatore dell’Unione Europea e atlantista ad oltranza, a paese anti-europeista e filoslavo. La Russia come patrono e protettore al posto degli Stati Uniti, e insieme contro l’Europa, che è percepita come nemico di entrambi, e che entrambi – in questo alleati – vogliono indebolire: con l’Italia, debole, che si presta a un gioco altrui.
Un cambio di alleanze a tutto campo, che rovescia una storia di settant’anni, senza uno straccio di discussione pubblica sul tema. La politica estera rischia di cambiarci e di costarci ancora più di quella interna. E non solo per lo scontro continuo con l’Unione Europea.
Gli italiani non hanno passione per le questioni internazionali: lo dimostra l’attenzione dedicata ad esse sulle pagine dei nostri giornali. In quantità e qualità. Ma l’ultimo viaggio in Russia di un presidente del consiglio che pare del tutto inconsapevole delle sue implicazioni (mentre non lo è il suo vice Salvini – sempre che i ruoli non siano invertiti – che ci è stato più spesso…) rischia di significare molto più di quello che sembra. E metterci in ginocchio (letteralmente: ai piedi di uno spiacevole sovrano e dei suoi fondi sovrani) assai più di altre scelte di questi giorni.
Ne hanno contezza le classi dirigenti di questo paese, e in particolare a quelle economiche? Perché, è vero: le sanzioni alla Russia costano molto ad alcuni settori economici del nostro paese, e in particolare all’agricoltura. E forse sono inutili e magari controproducenti: ed è quindi perfettamente legittimo volerle mettere in discussione – con l’Europa che le ha promulgate, però, non contro di essa.
Ma, già nel medio periodo, siamo sicuri che Mosca valga bene una messa di questo tipo? Che ci possa sostenere nello scontro con l’Europa, e al posto suo? E lo stesso varebbe per la Cina, peraltro. Sono grandi potenze: il loro interesse per l’Italia è tattico, non strategico. Mentre la nostra alleanza europeista e atlantica (nonostante Trump, vanno insieme) è strategica, non tattica. E valoriale, non solo economica. Chi la sta rimettendo in questione lo sa benissimo. O, almeno, chi lo sta facendo consapevolmente (la Lega). Mentre altri lo stanno facendo insipientemente (il M5S: che forse proprio non capisce la posta in gioco) o forse inconsapevolmente (il presidente del consiglio). Il che, forse, è peggio.

La discriminazione sottile: immigrati in Veneto

Dopo Lodi, anche il Veneto sceglie la discriminazione istituzionale, operata da chi – se facesse bene il suo lavoro – dovrebbe favorire i processi di integrazione.
Parliamo dei buoni scuola per i libri di testo: antipasto di altre politiche discriminatorie in preparazione. Per i quali gli stranieri, oltre all’Isee, dovrebbero portare documenti quasi impossibili da produrre, o comunque costosi da tradurre, per accedere alle agevolazioni. Fardello burocratico che ha scatenato una serie di polemiche. Bene ha fatto quindi il governatore Luca Zaia ad aprire alla possibilità dell’autocertificazione. Anche se il problema rischia di riproporsi in seguito.
Ma quale è il motivo di questa misura per gli stranieri? Una presunta discriminazione al contrario, degli italiani. Ben esemplificata dalla difesa della norma da parte di Luca Zaia: «Mi sembra normale, se uno ha un pozzo di petrolio ad Abu Dhabi è giusto che questo rientri nelle sue condizioni economiche. È una polemica sul nulla e il razzismo non c’entra». Ma se uno ha un pozzo di petrolio chiede i buoni libro? Siamo seri! Prendiamo i dati di Veneto Lavoro. Risulta che gli occupati stranieri in Veneto sono 354.000 (il 31% delle imprese venete ha almeno un dipendente straniero, ma sono il 69% di quelle con più di 15 dipendenti, e l’83% di quelle con oltre 100 dipendenti). Ebbene: che lavoro fanno? 66.210 sono badanti e colf, 27.537 facchini, 25.195 braccianti, oltre 78.000 sono operai non qualificati, 16.000 quelli specializzati, 15.000 gli edili, 11.600 sono personale non qualificato nel turismo, i camerieri sono 10.900,  gli autisti 11.300, gli addetti alle vendite 14.000 (solo con queste categorie superiamo le 267.000 unità). Il grosso degli altri è lavoratore autonomo: imprese di pulizie, bancarelle al mercato, ecc. Altro che petrolieri di Abu Dhabi! Inoltre gli stranieri guadagnano mediamente 7.500 euro l’anno meno degli autoctoni a parità di lavoro. E li carichiamo di costi e burocrazia in più? Come si chiama, questa, se non discriminazione?
Senza contare che si opera una sostanziale inversione dell’onere della prova. Se ci sono furbetti, si perseguano loro. Perché puntare il dito su un’intera categoria, gli stranieri, come se lo fossero per definizione? Perché poi, a guardare le dichiarazioni dei redditi dei veneti, di furbetti ci sarebbe sospetto anche altrove.
Ma la cosa più grave non è questa. E’ che si manda agli stranieri, attraverso un odioso messaggio che coinvolge i minori, inclusi quelli nati qui, un ulteriore segnale di rifiuto. Come dire, qui non siete benvenuti: vi sopportiamo, perché ci servite, ma sotto sotto non vi vogliamo. Un sentimento che rappresenta il Veneto politico, ma forse non quello reale. Dopo la legge anti-moschee: non vi lasciamo pregare perché la vostra religione non ci piace. Dopo le leggi ‘prima i veneti’, che pretendono quindici anni di residenza per poter accedere alle graduatorie di un sacco di beni scarsi (dagli asili agli aiuti ai disabili). E ora con i buoni libro. E domani con i buoni pasto a prezzo pieno, e altro ancora. E’ saggio? Conviene?
No, non è saggio. E, se non si capisce il linguaggio della giustizia, della correttezza, del rispetto sostanziale della norma (violata dalle istituzioni, non dagli stranieri), parliamo almeno quello dell’interesse, del portafoglio (anche se è triste ridursi sempre e solo a questo): non conviene. La popolazione in Veneto è in calo. Calano gli italiani, che muoiono in misura maggiore di quanto nascono, e in più hanno ripreso a emigrare (i dati appena visti sul lavoro spiegano che non è perché gli stranieri gli rubano il lavoro, ma perché non trovano lavori all’altezza del loro livello di studi). Ma calano anche gli stranieri. E se ne vanno quelli già integrati, magari appena acquisita la cittadinanza, e con essa la libera circolazione in Europa. Non stupisce: perché rimanere in una regione che ti dice continuamente, a modo suo, che non ti vuole? Ma la recessione demografica rischia di essere la premessa di quella economica: del resto, se un’impresa non trova manodopera, va altrove. Perché non lavorare per integrarla al meglio, allora, la manodopera che c’è e quella futura, invece di sbatterle continuamente in faccia una mal sopportata diversità? Rischiamo di pagarle care, domani, in termini economici, di mancata integrazione, di futuri conflitti sociali, le scelte elettoralistiche ma poco lungimiranti di oggi. Per le quali sapremo chi ringraziare. Ma sarà tardi.
Buoni libro: la lezione sbagliata, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 ottobre 2018, editoriale, p.1

I leader-bambini e l'infantilizzazione della politica

L’elettorato è sempre più anziano, i leader sempre più giovani, l’atteggiamento sempre più infantile. Potremmo riassumere così l’evoluzione, o l’involuzione, che si nota oggi nel mondo politico, non solo italiano. E non da oggi: con questo governo, è vero, ha toccato vertici mai visti. Ma il cambiamento è quantitativo, non qualitativo: quest’ultimo era iniziato già prima. Continua a leggere

Ricerca come forme di creatività: nell'impresa e altrove

Prima di tutto bisogna immaginare. E’ questo, in essenza, la ricerca, a partire da quella che chiamiamo ricerca pura: immaginare quello che non c’è ancora, o non è ancora visibile, ma potrebbe esserci, poi cercarne gli indizi, le tracce delle sue leggi di funzionamento, poi renderlo concreto, costruirlo, trovarne applicazioni, inventare nuovi prodotti, e nuovi mercati per collocarli. Continua a leggere

La tripla morale del ministro dell'Interno: Riace, Trento, Italia

Sud Italia. Il sindaco di Riace viene messo agli arresti domiciliari per presunte irregolarità nelle politiche di accoglienza. Il ministro dell’interno lo addita al pubblico ludibrio, esecrandone i comportamenti.
Nord Italia. Un medico del pronto soccorso di Trento si rifiuta di curare uno straniero irregolare e lo segnala ai carabinieri. Mentre molti suoi colleghi si dissociano, il ministro dell’interno lo ringrazia e lo addita ad esempio da seguire.
Tutta Italia. Il vice-presidente del consiglio annuncia, sotto il nome di ‘pace fiscale’, un maxi-condono per chi ha evaso le tasse in passato. Il ministro dell’interno, che è la stessa persona, lo sostiene entusiasticamente, come strumento di giustizia sociale, o di sua correzione. Continua a leggere

Si può fare a meno della scuola?

La seconda puntata della rubrica che tengo su Confronti: “What if”, ovvero come sarebbe “Il mondo, se…”
Questa volta parliamo di scuola Continua a leggere

Parole e simboli. La neolingua del potere

La “manovra del popolo”, “i cittadini, non i numerini”, “aboliremo la povertà”, “per la prima volta lo stato è dalla parte dei cittadini”. E poi l’utilizzo sistematico della logica del capro espiatorio (lo straniero, l’immigrato, in particolare). E l’altrettanto sistematico ricorrere all’immaginario di un prima e un poi radicalmente opposti: prima c’erano gli “altri”, i cattivi, quelli del complotto contro la gente, i “poteri forti”, e andava tutto malissimo; oggi ci siamo “noi”, i buoni, quelli voluti dalla gente e per la gente, i “rappresentanti (o magari gli avvocati) del popolo”, e va tutto benissimo, un altro mondo è possibile, e lo costruiremo noi, contro gli altri. Il prima e il poi presuppongono una cesura radicale. Nessuna continuità è nemmeno immaginabile. Salvo dimenticarsi che metà dell’attuale governo è stato al governo per anni, e lo è continuativamente da decenni nelle regioni più ricche del paese. E salvo magari perseguire, tutti insieme, le stesse sistematiche occupazioni del potere, lo stesso spoil system, la stessa lottizzazione televisiva e non, gli stessi condoni, gli stessi ritardi e inefficienze sui decreti, lo stesso spregio del diritto e della divisione dei poteri, lo stesso allegro ricorso alla spesa pubblica: salvo chiamarli con un altro nome, ciò che consente di agire anche più brutalmente, senza remore e sensi di colpa. Tutto è nel nome della cosa, più e prima che nella cosa. Continua a leggere