La guerra, quella vera. E noi.
Torna la guerra, quella vera. Non quella delle metafore abusate, che con una leggerezza intollerabile ma significativa usiamo quando parliamo di politica, di sport, o di virus: a colpi di battaglie, conquiste, vittorie, sconfitte, nemici, alleati, lotta, trincea, vittime, sangue, vincere, perdere, difendere, attaccare…
No, torna la guerra come fatto reale. Perché tocca persone che conosciamo, e attraverso di loro. Gli ucraini e le ucraine che vivono tra noi. Finora solo forza lavoro: badanti e operai di cui sappiamo pochissimo (per esempio non sappiamo che hanno livelli di istruzione più alti dei nostri, ma sono costretti a fuggire la miseria di un paese tanto più povero del nostro), ma che oggi scopriamo nella loro umanità di persone dilaniate dal dolore e dalla necessità di compiere scelte primarie: partire, restare, difendere il paese e stare vicini agli affetti rimasti in patria, o aiutare da qui, in qualche modo. E poi ci sono i loro figli e figlie nelle nostre scuole, e quelli (e soprattutto quelle) sposate qui, in matrimoni misti ormai stabilizzati, che ci mostrano quanto le persone si identifichino assai meno nelle loro presunte radici etniche o linguistiche (in cui anche le guerre li imprigionano) e assai più nei frutti che la vita, nella sua casualità, ha fatto sbocciare dove è capitato. In loro ritroviamo una sofferenza che avevamo dimenticato: quella che ci hanno raccontato i nostri genitori e nonni che la guerra l’hanno vissuta, attraverso eventi troppo più grandi di loro, che li schiacciavano e li dominavano, e li costringevano a scelte dilanianti.
È vero che non sono stati settant’anni di pace, questi. Guerre vicine, come quella di Bosnia, ci hanno in parte coinvolto. Con altre guerre più lontane ci siamo invece emozionati meno. Ma forse per la prima volta da moltissimo tempo, attraverso gli ucraini e le ucraine che vivono tra noi (e anche attraverso gli assai meno numerosi italiani che vivono e lavorano là, testimonianza di una globalizzazione ormai saldamente intrecciata alle nostre vite), sentiamo con maggiore evidenza la violenza dell’aggressione ingiustificata, l’impotenza della vittima innocente la cui vita è travolta da qualcosa di troppo più grande, di incomprensibile, di indicibile. E riscopriamo il significato della parola destino, applicata a un’intera popolazione, a un’intera generazione.
Ma la guerra torna nelle nostre vite anche come archetipo potente, comprensibile per tutti. Quello che ti mette di fronte a scelte discriminanti, che ti cambiano e ti mettono a nudo, a potenze e passioni soverchianti, al bisogno di chiederti “tu cosa faresti al loro posto”, nella loro situazione. Dunque al tuo coraggio, o alla tua vigliaccheria, al desiderio di fare qualcosa e al non saper che fare, allo sprofondarti nel climax lasciandoti inondare di notizie e immagini terribili, o al contrario fuggirle, distraendoti, occupandoti d’altro, per non dover pensare. E purtroppo è vero che qui, anche qui, in questo modo, nei nostri egoismi e chiusure, o al contrario nei nostri slanci di altruismo, nel modo in cui reagiamo alle polemiche, o le fuggiamo, o al contrario le alimentiamo, in come traduciamo quello che accade là nelle nostre posizioni da qua, capiamo il peggio e il meglio della nostra umanità. Che si parli di sanzioni sì o no, a livello istituzionale, di governo o di impresa, pensando se ci conviene o meno. O se vogliamo usare il nostro portafoglio, o anche solo un po’ del nostro tempo, per testimoniare una vicinanza, per attivare una piccola solidarietà. Al di là delle retoriche. Nel concreto.
I dolori antichi e il conflitto che entra in casa, “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, 27 febbraio 2022, editoriale, p. 1