Che cosa ci ha insegnato il 2020
Adesso che ce lo siamo lasciati alle spalle, possiamo anche provare a tentare un bilancio di questo strano 2020. Annus horribilis, come scrivono in tanti? Certo, imprevedibile. Nessuno, a dicembre 2019, avrebbe potuto anche solo lontanamente immaginare quello che è successo.
Ma che cosa è successo? O meglio: che cosa è successo veramente? I fatti più o meno li conosciamo: è arrivato un virus inaspettato e impensabile, la cui conseguenza è stata una pandemia che ha fatto ammalare e poi morire un po’ di gente, producendo degli effetti collaterali sulle relazioni sociali (quello che avremmo imparato a chiamare distanziamento, portato in alcuni periodi fino al limite dell’autoclausura in casa propria), che a sua volta ha prodotto una crisi economica più seria di altre. Tutto qui, potremmo dire. Niente di tragico, in fondo, o di realmente rovinoso. La storia ci ha abituato spesso a scenari di questo genere, e anche solo nel secolo che ci sta alle spalle ne abbiamo vissuti di ben altrimenti catastrofici: cos’è qualche decina di migliaia di morti, per lo più anziani, e una perdita di ricchezza intorno al 12%, di fronte alle distruzioni di una guerra, al sacrificio di milioni di giovani, o agli orrori quotidiani di un totalitarismo, per dire? Ma in realtà c’è stato qualcosa di più e di più profondo: che ha cambiato più che in altri momenti il clima emotivo in cui siamo immersi. Con conseguenze più serie di quelle che ci si sarebbero legittimamente potute aspettare.
Quello che è avvenuto, infatti, è stato uno stop brusco a una corsa forsennata, di cui non avevamo chiarissima la direzione, e le cui premesse erano fondate su basi meno solide di quelle che ci raccontavamo. Facendoci misurare di nuovo con paure antiche e potenti, precipitandoci in una crisi economica più grave di quanto mostrino i numeri (perché le sue conseguenze sono molto mal distribuite, ed è una crisi di senso e di fiducia nella bontà del sistema), trasformando radicalmente la nostra gerarchia di aspettative, aprendo a scenari di limitazione – consentita, se non consensuale – delle nostre libertà che avremmo considerato inaccettabili fino al giorno prima.
Questo, è successo. Che ci siamo scoperti fragili: come individui, alla mercé di un nemico invisibile (e proprio per questo più terrorizzante, come nei film horror), come collettività e comunità (obbligati a distanziarci per non più esserlo), e come sistema (economico, ma anche decisionale e quindi politico: tuttora impallato in un groviglio di incompetenza, inadeguatezza, pressapochismo, impreparazione, lentezza di reazione e ritardi da cui non sembra saper uscire). Il tutto immerso in una bulimica quotidiana ostensione mediatica, che poco produce sul piano informativo, e moltissimo contribuisce all’isteria collettiva, e ad alimentare, in un circolo vizioso della cui forza non ci rendiamo conto, proprio i timori che dovrebbe aiutarci a comprendere ed esorcizzare.
Abbiamo riscoperto che la morte esiste ed è persino possibile, cosa che – credendoci amortali – avevamo rimosso (ancora una volta, come individui, come collettività e come sistemi). Lo stesso per la malattia, e per il male, che eravamo convinti fossero due cose diverse, e invece abbiamo riscoperto uniti, non solo nell’origine della parola (mentre dobbiamo ancora riscoprire che pure salute e salvezza – anche sul piano sociale – originano dalla medesima parola, salus, che infatti in latino traduce entrambe le cose).
Abbiamo anche riscoperto il significato vero di alcune parole preziose, che in tempi normali restavano vaghe, e che hanno invece assunto un’immediata concretezza. Come relazioni (con i corollari di solidarietà ed empatia), spazio (quando ci hanno rinchiusi), aria (quando ce ne hanno lasciata solo un’ora, come ai carcerati). Ma anche come tecnologia: il salto quantico che abbiamo fatto ci ha cambiati e ha cambiato irreversibilmente la società – pensiamo alla scuola e all’istruzione, non solo allo smart working – più di quanto ci siamo accorti.
Quando ci saremo ripresi dalla botta emotiva, e smettendo di leccarci le ferite ci daremo da fare per riscostruire, aprendoci quindi alla fiducia e alla speranza che ogni progettualità implica, riscopriremo anche la virtù della resilienza: che è il vero contrario della fragilità (non forza, come spesso crediamo). Non un vago e vacuo ottimismo, ma la capacità di riconoscere, nel bicchiere mezzo vuoto, il bicchiere mezzo pieno, le opportunità, quindi, e gli strumenti per superare le difficoltà.
I significati ritrovati nella crisi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 31 dicembre 2020, editoriale, p.1