I dimenticati della cultura. In morte di Omar Rizzato.

Ognuno è infelice a modo suo. E non c’è mai una sola causa, una sola variabile, che possa spiegare la decisione di dare l’addio al mondo, di uccidersi, di spararsi: come ha fatto Omar Rizzato, appena quarantunenne, imprenditore dello spettacolo. Uno di quelli che il mondo della cultura lo aiuta concretamente ad andare avanti, non solo con le idee, ma a supporto di chi le ha: impianti audio, video e luci, palchi, che umilmente si chiamano “service” ma sono molto di più – la concretezza delle tecniche che le idee le fanno diventare realtà, e che sono esse stesse apporto creativo.

Il suicidio è la prova che ci sono cose peggiori della morte: tra queste il vuoto, la mancanza di senso, la perdita di ogni prospettiva. Che non sono mai solo problemi individuali, drammi personali, sofferenze sepolte nell’inconscio. Anche l’atto individuale per eccellenza, infatti, ha delle cause sociali. Durkheim, oltre un secolo fa, ci ha costruito sopra la ricerca fondativa di una disciplina, la sociologia: dimostrando che il suicidio non è mai “casuale”, ma che ci sono tante determinanti sociali possibili, che aiutano a spiegarlo, legate al genere, alla classe sociale, al livello di istruzione, all’età, alla religione, al tasso di urbanizzazione, alla professione…

Di fronte alla morte di Omar – non lo conoscevo, eppure mi viene da chiamarlo per nome – non possiamo non pensare anche a questo: a ciò che lo ha spinto. E che non sono solo difficoltà personali. C’entra la società. C’entriamo noi.

Tutti quelli tra noi che hanno vissuto una separazione lacerante, un lutto doloroso, sanno cosa vuol dire trovare una via d’uscita: e spesso, l’abbiamo sperimentato in tanti, la via d’uscita è potersi buttare sul lavoro, per dimenticare, e dimenticarsi. Quanti, nei momenti difficili, tragici, si sono salvati così… Questo, Omar, e tanti lavoratori della cultura, non l’hanno potuto fare. Gli è stato tolto. Non dalla pandemia, ma dalle misure che abbiamo preso per contrastarla. Profondamente ingiuste, che hanno creato squilibri enormi: tra garantiti e non garantiti, in primo luogo. Tra professioni, tra categorie, tra settori. Ma anche in tanti altri modi.

Senza dimenticare che i lavoratori della cultura sono tali, quasi sempre, perché amano il loro lavoro: non gli è capitato, non lo fanno per caso. Non sono gli unici, certo. Ma spesso fanno grandi sacrifici per seguire le loro passioni, rinunciando a lavori più sicuri, e meglio pagati, o semplicemente più stabili e garantiti, per inseguire – precariamente: sono pochi i divi e le star – i loro sogni, il loro bisogno di trasmettere, di comunicare, di essere. Quindi per loro non lavorare è come non amare, non poter manifestare concretamente il loro essere nel mondo. Non solo non guadagnare, che pure è importante, in certi momenti preponderante: ma non sapere più che fare, non avere ragioni per andare avanti.

Ma se questo è accaduto, è una cosa che ci riguarda tutti. Anche perché il mondo della cultura è percepito da troppi come lontano, in fondo inutile, superfluo: al massimo, quelli che “ci fanno tanto divertire”, come in un indimenticato, terribile lapsus del precedente presidente del consiglio. È uno dei paradossi di questo settore: e di come lo percepiamo. Mai, come durante i lockdown, ci siamo nutriti tutti così tanto di cultura (non foss’altro che ascoltando musica, ingozzandoci di serie Netflix e pay tv, consultando compulsivamente le fonti di informazione più disparate). Ma mai come in questo periodo, nella totale inconsapevolezza e colpevole distrazione: tanto che, se richiesti – come dimostrato da tanti sondaggi di questi mesi – classificavamo il settore tra quelli inutili, o meno importanti. Di fatto, dunque, i lavoratori di questo settore, che spesso dichiariamo retoricamente come indispensabile, il vero petrolio (e lo è) della knowledge society, li abbiamo dimenticati: e sono stati tra le categorie che hanno pagato il prezzo più alto in assoluto – non solo economicamente – e che hanno ricevuto le compensazioni più basse.

Facile, adesso, dare addosso al Ministro della Cultura, per non aver difeso per nulla o quasi il comparto della produzione culturale: cosa che è possibile e giusto fare, con molte buone ragioni. Ma la cosa riguarda tutti noi. I garantiti, gli stabilizzati, i meno o per nulla colpiti, hanno mostrato poca attenzione a chi lo era, invece, maggiormente: poca solidarietà personale, nessuna protesta pubblica. Come se non fossero, anche gli operatori della cultura e dello spettacolo, imprenditori “veri”: peraltro con un tasso di autoimprenditoria, e un numero di partite IVA, più elevato che in altri settori. Eppure anche Omar Rizzato si è ucciso negli uffici della sua azienda a Cinto Euganeo: come altri, che avevano fatto più rumore, durante crisi precedenti. Mandandoci, con questo ultimo suo gesto, un segnale. E una richiesta d’aiuto: che forse – se ascoltata – potrà almeno salvare qualcun altro.

 

Omar, e i troppi dimenticati, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 23 febbraio 2021, editoriale, p.1