Sulla Fiera delle parole: laicamente…

Ora che la decisione è presa, e le proteste passate, forse possiamo affrontare laicamente la questione, al di là degli schieramenti pregiudiziali. In termini di principio, di metodo e di merito.
Cominciamo dai principi. Può una giunta mettere mano alle iniziative culturali che al municipio fanno capo? Ovviamente sì. Si suppone, forse arditamente, che un governo diverso, facente capo a schieramenti diversi, abbia politiche culturali diverse (l’arditezza sta nel presupporlo, per gli uni e per gli altri… spesso non è così): è legittimo che le porti avanti? Certamente. Non ha senso quindi discutere se sia lecito o meno introdurre o cancellare iniziative: lo è. Soprattutto se si tratta di iniziative privatistiche, che ai comuni chiedono pubblico denaro. Diverso sarebbe se si trattasse di una iniziativa municipale: nel qual caso una giunta potrebbe comunque deciderne e cambiarne la dirigenza, nel rispetto dell’autonomia ma anche con il diritto di interlocuzione che il banale buon senso presuppone. La Fiera della parole era una meritoria iniziativa privata, svolta con il supporto di denaro pubblico, con poca interlocuzione istituzionale. E non una antica tradizione locale, ma un evento recente, acquisito dalla città perché rifiutato dalla sede precedente, senza un ancoraggio reale nel territorio, e sconosciuta al di fuori del perimetro cittadino.
Passiamo al metodo. Se un sindaco ha il diritto di sostenerlo, incoraggiarlo, ridimensionarlo o cancellarlo, dovrebbe farlo in rapporto allo scopo che l’evento si prefigge, oltre cha analizzando il rapporto tra investimento e risultato. Lo scopo è fornire alla città un’offerta culturale? Sarebbe ora, in una città che, nonostante la presenza di un’enorme bacino universitario, ha un’offerta e una vivacità culturale spesso inferiori a quelle di altre città venete, per non parlare del numero di iniziative e festival che si svolgono nelle regioni confinanti (seppur beneficiate, grazie allo statuto speciale, da una maggiore disponibilità economica). La città di Padova da questo punto di vista offre molto meno di quello che potrebbe e dovrebbe offrire: e questo da prima dell’insediamento dell’attuale giunta Bitonci – grazie alla quale, tuttavia, le cose sembrano peggiorare (un taglio dopo l’altro: dal Sugarpulp al Biologico in piazza…). E la risposta alla cancellazione di un festival non è l’inventare un’altra iniziativa chiamando una persona lontana e disinteressata alla città (Vittorio Sgarbi), giocandosela come spot anziché come iniziativa di lungo periodo. Da questo punto di vista Bitonci potrà anche vincere, offrendo magari un insieme di eventi non minore di quello offerto dalla Fiera delle parole, ma non avrà costruito nulla che meriti di durare anche dopo l’uscita di scena dell’attuale giunta.
E veniamo al merito, che è la cosa più importante, e forse più trascurata dal dibattito di questi giorni. La Fiera delle parole ha coinvolto in pochi anni decine di migliaia di presenze, mostrando l’esistenza di un pubblico e la grande fame di iniziative culturali che c’è in città. Ma – cito un’opinione ampiamente diffusa tra gli operatori culturali della città – non l’ha fatto in maniera solida e coinvolgente: il che spiega l’assenza e la sostanziale indifferenza degli scrittori indigeni rispetto alla querelle. Era una fiera fatta di grandi nomi, che quindi attraggono molta gente, con un po’ di presenza locale, ma senza un progetto, senza linee guida, senza nemmeno un tema che la caratterizzasse. Un festival solido, che abbia conseguenze di lungo periodo, che incida davvero sulla città e la sua offerta culturale, magari in maniera non solo episodica, ma seminando iniziative nel corso dell’anno, può nascere solo dal coinvolgimento delle istituzioni culturali (a cominciare dall’università), degli intellettuali, degli scrittori, delle case editrici, delle librerie e, aggiungiamo, di chi in città fa teatro, musica, arte, animazione culturale: costruendo un progetto, un’idea da perseguire negli anni, un pubblico partecipe e interessato. Non gli spot dell’uno o dell’altro: che male non fanno, ma non sedimentano niente di solido – niente che valga veramente la pena di difendere, al di là degli schieramenti. Ed è forse questo quello che si dovrebbe e potrebbe fare: con, senza o contro il sindaco. La maggior parte dei festival di successo che conosciamo, e che oggi caratterizzano il paesaggio culturale del nostro paese, non è nata dall’alto, ma per l’iniziativa di persone motivate, culturalmente influenti, ancorate al territorio, che ne avevano a cuore i destini. Questo, a Padova, non si è ancora visto. Le energie e le competenze ci sono: manca solo che qualcuno le stimoli e dia loro un’opportunità.
Oltre la Fiera della parole. Più progetto, meno schieramenti, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 gennaio 2016, editoriale, p.1