La rivoluzione (digitale) permanente non è un pranzo di gala…

Ci eravamo abituati a pensare che la rivoluzione fosse una cosa che succede, che ha delle conseguenze dirompenti, e poi finisce: come le rivoluzioni politiche, che attraverso un brusco rivolgimento dell’ordine sociale mutano radicalmente gli equilibri di una società, facendole cambiare direzione. Come la rivoluzione francese o quella di ottobre, di cui abbiamo appena celebrato il centenario.
La rivoluzione industriale prima, e quella digitale oggi, con le stupefacenti accelerazioni e gli incredibili salti qualitativi che implica, e la stupefacente pervasività che dimostra, sembra invece dare ragione alla dottrina – sconfitta a suo tempo dalla storia – della rivoluzione permanente, elaborata da Lev Trockij. Solo che, a dispetto di chi credeva nel primato della politica, sta succedendo che la rivoluzione vera (economica, sociale, culturale, e infine, senza che ancora se ne abbia una vera consapevolezza, politica) la sta facendo un altro tipo di soggetto, meno definibile e più sfuggente – la tecnologia.
Di rivoluzione permanente si tratta, tanto che non abbiamo più parole per definirla: stiamo già parlando di quarta rivoluzione industriale, e di 4.0, quando i più sono appena arrivati, e con fatica, a capire cosa significa 2.0; e mentre un pezzo di mondo deve ancora arrivare a comprendere bene come internet collega le persone, siamo già arrivati all’internet delle cose (IOT) che parlano tra loro. Ma anche la digitalizzazione, come diceva Mao Zedong della rivoluzione, “non è un pranzo di gala”: ha i suoi vincitori e i suoi sconfitti, le sue vittime e i suoi carnefici, i suoi eroi e i suoi martiri, i suoi sopraffattori e le sue vittime innocenti. Come si concludeva la sua frase completa, di solito e non casualmente tralasciata: “è un atto di violenza”. E, anziché somigliare al tranquillo e silente moto delle stelle (nel Medio Evo si usava la parola rivoluzione per descrivere il moto degli astri, che nelle loro orbite tornano al punto di partenza), è sempre più un insieme di scatti rapidi e continui, meglio descritti dalla parola rivolta, da cui rivoluzione peraltro deriva: che ha il significato di rivolgimento (cioè di cambiamento significativo, di rovesciamento e sconvolgimento), ma anche di ribellione non guidata (e che provoca tumulti occasionali), talvolta è qualcosa di rivoltante (che disgusta o ripugna, per i suoi effetti indesiderati), e infine può ferire o uccidere (come la rivoltella).
Citiamo alla rinfusa. Robotica (precisione, sostituzione del lavoro umano), big data (concentrazione, potere), cloud (esternalizzazione delle funzioni e della memoria), neurotecnologie (potenziamento delle capacità cerebrali), nanotecnologie e miniaturizzazione, riscrittura del codice genetico, veicoli e macchinari autonomi, riproduzione tridimensionale a distanza (stampa 3D), e molto altro ancora, stanno tras-formando (dando nuova forma: di cui non abbiamo contezza e che non avevamo nemmeno pensato e progettato prima di inoltrarci in essa) al significato stesso di economia, di produzione, di industria, ma anche di società e persino di umanità, per non parlare dell’idea di vita e di vita buona, nella esperienza quotidiana e nei valori che la guidano. Nuove divisioni e diseguaglianze (e nuove inaudite concentrazioni di potere) – dentro le società e tra società – si affermano: di opportunità, legate al digital divide, e culturali (anche solo legate alla capacità di comprendere quello che sta succedendo) – quando parliamo di immigrati digitali e di nativi digitali ci riferiamo a quello. La differenza tra i due, in essenza, è che i primi, per capire come funziona (un dispositivo tecnologico, e più in generale il nuovo tipo di mondo che si va costruendo), hanno bisogno di leggere le istruzioni, mentre i secondi si trovano a loro agio immersi in esso, e riescono a sperimentarlo e a sfruttarlo senza bisogno di spiegazioni. La velocità del cambiamento fa la differenza: nella difficoltà a comprenderlo e a seguirlo, nella capacità invece di assecondarlo, a maggior ragione di prevederlo e anticiparlo, o ancor più di produrlo, sta la differenza tra chi è coinvolto nei processi in atto e chi ne è travolto.
Capirlo o esserne travolti: l’inesorabilità del cambiamento, in “Corriere della sera – Corriere Imprese Nordest”, 13 novembre 2017, p. 3, rubrica “Le parole del Nordest”