La fame del Nordest

Atavica: è questo l’aggettivo che di solito si usa per qualificare la fame, in Veneto e nel Nordest. Una fame atavica, di lungo periodo, radicata nel profondo. La fame chi di lavora e non si risparmia, ma non ha abbastanza da mangiare, e dunque dalla fame non è risparmiato. La fame insoddisfatta, persistente, dolorosa, e che nello stesso tempo diventa ricerca non solo fisica, ma quasi metafisica, di soddisfazione. Quella che spinge a cercare non solo un buon pranzo, ma l’abbuffata, la cuccagna, il rovesciamento carnascialesco dell’ordine del mondo, quando si può. Perché, per il resto, si mangiava solo granoturco: polenta, cioè (anzi, poenta). Spesso senza nient’altro. E a causa di una dieta così povera la pellagra – che produceva le micidiali ‘tre D’: dermatite, diarrea e demenza – era diffusissima, e in Veneto mieterà vittime fino alla seconda guerra mondiale.
“Chi no ga porseo né orto vive sempre a muso storto”, dice un proverbio. Ed è notevole, per l’appunto, il ruolo e la presenza del “porseo” nella cultura popolare (più come mito e aspirazione, che come realtà quotidiana: i consumi di carne si impenneranno solo dopo la seconda guerra mondiale, dove toccheranno punte di quindici volte tanto il consumo medio del periodo precedente). Ancora oggi, che la fame non c’è più, l’essenza della festa, della sagra, del pranzo in agriturismo, è pur sempre la grigliata mista, con gli osseti, le costesine, la luganega, in cui è prevalente, anche visivamente, l’ossessione per la quantità più che per la qualità: “Pitosto che vansa, crepa pansa”. Perché l’esperienza della fame è ancora recente: e atavica, appunto.
Poi c’è l’altro grande nutrimento: il vino. E l’altra grande piaga: l’alcolismo. Endemico pure lui. Perché il vino fino a poco tempo fa era l’altra importante sostanza economica e nutriente a disposizione: cibo, di fatto, più che bevanda. E, esistenzialmente, un modo più per dimenticare che per vivere con piacere. A fine ‘800 i consumi medi italiani erano intorno ai 90 litri pro capite, e toccheranno punte di 130 litri: medi, che vuol dire per tutti, lattanti compresi – e in certe aree montane del Veneto, come ci ricordano i libri di Mauro Corona, si era largamente sopra la media. Infatti quando arriverà la fillossera, nella seconda metà dell’Ottocento, sarà una catastrofe anche dal punto di vista del nutrimento in sé, non solo come effetto del disastro economico.
Ma c’è un’altra grande conseguenza storica della fame atavica: e si chiama emigrazione. Dagli albori dell’umanità, quando ancora viveva in tribù cacciatrici e raccoglitrici, l’uomo si sposta alla ricerca del cibo. L’agricoltura non l’ha mai del tutto sedentarizzato: perché il suo frutto non bastava a sfamare tutti. E non ha ancora smesso. Ci sono stati anni in cui sono partite mediamente oltre 600.000 persone l’anno dall’Italia appena unificata, con una punta di 870.000 nel solo 1913: e il Veneto sarà la regione che darà il maggiore contributo quantitativo a questo esodo, che riguarda tuttavia anche altre aree del Nordest, e che continuerà fino a tutti gli anni ’60 (e, in percentuali enormemente minori, non è ancora finito). A cui va aggiunta l’emigrazione verso altre regioni italiane più sviluppate.
Oggi è cambiato tutto. La fame spinge ancora ad emigrare: ma non i Veneti. I flussi si sono invertiti, e le zone da cui si partiva fino a ieri sono quelle verso cui si arriva, oggi. Quella stessa fame, che produce anche la spinta per uscirne, ha portato attraverso un poderoso processo all’invenzione del Nordest come modello produttivo, e alla ricchezza diffusa: mangiare, bere, equivalgono oggi a stare bene insieme, non a sopravvivere; a divertirsi, a fare affari intorno a un tavolo e a un buon bicchiere, non a nutrirsi. Inoltre il Veneto ha acquisito una leadership nel settore eno-gastronomico che oggi sa puntare sulla qualità e non solo sulla quantità del prodotto, capace di attrarre altri, e quindi di esportare. Semmai oggi ci sarebbe da ricordarsi che, evangelicamente, “non di solo pane vive l’uomo”: ma anche di cultura, di valori, di spiritualità. Anche questi bisogni si possono soddisfare, volendo. Quella che manca, talvolta, è proprio la fame.
Alla base di ciò che siamo c’è una forza formidabile: la fame, in “Corriere della sera – Corriere Imprese Nordest”, 9 maggio 2016, p.3, rubrica: “Le parole del Nordest”