Governi e società civile di fronte a Gaza. Tra Riviera e Flotilla, l’importanza dei simboli

Gaza è entrata a far parte del nostro orizzonte e del nostro immaginario, piaccia o meno. Ci unisce nell’attenzione. E ci divide nelle posizioni che prendiamo. Non ci divide solo politicamente, e per così dire orizzontalmente: destra e sinistra, filo-Israele o pro-Palestina. Ci divide anche verticalmente: alto e basso, governi e società civile.

La politica è divisa, come ovvio. Si schiera con gli uni o con gli altri, o più precisamente contro gli uni o contro gli altri: dimenticando che potrebbe stare con l’uno e con l’altro quando sono nel giusto, contro l’uno e l’altro quando non lo sono, ma dovrebbe innanzitutto stare con le vittime (tutte), gli innocenti, i violentati, i massacrati, i deportati, gli affamati, i perdenti e i perduti, ovunque siano. Complessivamente, tuttavia, appare inattiva, inefficace, incapace. Anche quando prende (finalmente e tardivamente) posizione, e comincia a riconoscere i torti dell’aggressore, smettendo di fare distinguo insostenibili tra morti e morti, tra bambini e bambini, lo fa timidamente, con parole insopportabilmente neutre, con diplomatica cautela, con perbenistica condiscendenza, evitando di dire pane al pane, di nominare ciò che accade con il suo nome, per evitare parole sgradevoli. Pochi, pochissimi, se hanno potere, hanno anche il coraggio di dire che Israele, con questa guerra, è andato oltre tutti i limiti possibili e immaginabili dell’orrore, che le sue azioni non hanno più giustificazioni, essendo la sua reazione (ammesso e non concesso che sia solo una reazione al 7 ottobre) incommensurabile. Che pagherà esso stesso un prezzo immenso, avendo in buona misura già dilapidato un credito enorme: di reputazione, di simpatia, di consenso, di dignità morale. La parte peggiore della politica e del potere occidentale (perché, sì, è l’Occidente che si è autoisolato nel sostegno incondizionato – o ancora troppo poco condizionato – a Israele) fa anche di peggio, immaginando una oscena Riviera di speculazioni immobiliari e finanziarie miliardarie su una terra rubata ad altri con la forza, deportando intere popolazioni.

Ecco allora che la società civile, di fronte a uno spettacolo indecoroso e inguardabile, reagisce: la Global Sumud Flotilla è parte, solo una parte, di questa reazione globale e diffusa, insieme a manifestazioni di solidarietà, controinformazione, richieste di boicottaggio, o semplicemente di uscita dal silenzio e dall’indifferenza. Sì, certo, c’è un elemento spesso ideologico e non solo umanitario, in questa azione. Sì, certo, c’è un’attenzione geopolitica selettiva (“e allora il Sud Sudan, dove è in corso un genocidio anche peggiore?”, si dice: come se chi lo dice, invece, se ne interessasse…). Sì, certo, c’è anche una quota di partigianeria politica, più interessata allo schieramento che al merito. Sì, certo, c’è anche tanta ingenuità. E sì, certo, ci sarà anche un po’ di protagonismo in favore di telecamere. Ma è la prima e unica iniziativa veramente transnazionale (quasi cinquanta i paesi coinvolti), e con una valenza simbolica forte, che si è vista, in quasi due anni: i governi non hanno saputo fare di meglio – e la vita collettiva ha invece bisogno anche di simboli, di emozioni, di spinte valoriali incarnate. È, anche, una iniziativa dal basso, che nasce da un impegno diffuso, ramificato, diversificato nelle sue motivazioni (politiche, religiose, umanitarie): che coinvolge enti locali che sostengono ufficialmente l’iniziativa, prese di posizione di sindacati dei lavoratori (con minacce di chiudere i porti in caso di blocco della missione) e, lo vedremo con l’inizio dell’anno scolastico e accademico, mobilitazioni di studenti. Con gente che è disposta a correre dei rischi, e a pagare un prezzo personale (cosa che non si può dire dei governanti del mondo). E, soprattutto, è qualcosa di reale: c’è, esiste, è in campo. Mentre la cautela intollerabile della realpolitik finora non ha prodotto nulla di concreto: anzi, con la sua sostanziale ignavia ha consentito il proseguimento e addirittura l’aumento di intensità del massacro.

Ancora una volta, sono le generazioni più giovani che ci mandano un segnale. Sta a noi coglierlo, o meglio accoglierlo, o rifiutarlo con supponenza e degnazione: dall’alto (o dal basso) del nostro cinismo, della nostra pigrizia anche intellettuale, della nostra incapacità di immaginare un’azione, e un pensiero che la supporti. Come se la cosa non ci riguardasse. Non è così. Ce ne accorgeremo presto.

 

L’orrore oltre i limiti. La tragedia di Gaza, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 settembre 2025, editoriale, pp. 1-5