Primo maggio: ha ancora senso festeggiarlo?

Ha ancora senso festeggiare il Primo Maggio? Forse no. Forse non come lo si fa ora. Forse dovrebbe diventare una riflessione su come si sta trasformando il lavoro, e quale senso avrà, e quanto sarà diverso da quello che siamo abituati a pensare che abbia. Perché il tema è lì, ed è decisivo.

Non è tanto questione di data. Manteniamola pure, rispettando le tradizioni, anche se non molti, oggi, ne conoscono le ragioni. L’origine rimanda alla lotta di un gruppo di lavoratori statunitensi a Chicago per ottenere la giornata lavorativa di otto ore, e le proteste, gli attentati, la repressione e i morti che ne sono seguiti. Curiosamente, non è adottata come tale negli USA, i diretti interessati, dove il “Labor Day” si festeggia il primo lunedì di settembre. È invece stata adottata dal movimento operaio e socialista di tutto il mondo, e quindi viene festeggiato con più ostentazione nei paesi che socialisti si dicono ancora, come la Russia e la Cina (non proprio i paesi dove è ideale vivere e lavorare): anche se è festa pure nella maggior parte dei paesi d’Europa, dove però è diventato, appunto, un (benemerito, naturalmente) giorno festivo in più sul calendario.

La modalità invece ci dice qualcosa. Ho fatto in tempo a vivere e partecipare alle ultime grandi manifestazioni degli anni Ottanta (lavoravo, allora, al sindacato): quando il Primo Maggio non solo si bloccava tutto, ma i lavoratori (dipendenti, almeno), spesso con le famiglie, partecipavano davvero ai cortei, e ci tenevano, invece che approfittarne per una gita fuori porta (dove, invece, nel settore ampio della ricezione, lavorano tutti in turni rafforzati). Certo, la retorica era spesso insopportabile, i discorsi dei leader di CGIL-CISL-UIL e delle altre più o meno autorevoli autorità di contorno (dai sindaci all’ANPI o qualche altra sigla più o meno collegata al tema) monotoni, ripetitivi e di lunghezza oggi – ai tempi dei social – impensabile, anche per il militante meglio disposto. Ma, appunto, si respirava ancora aria di festa, e almeno si sapeva perché si era lì: c’era un clima che si poteva ancora condividere, e spesso messaggi da diffondere. Oggi? Dal 1990, ciò che era manifestazione popolare nazionale è stata trasformata in concertone. Tatticamente, una trovata abile: c’è una presenza cospicua, si coinvolgono moltissimi giovani (che ai cortei tendevano a sparire), e immagino si sia trovato il modo di caricare almeno parte delle spese sulle spalle della RAI, che lo trasmette in diretta. Soprattutto, ci si illude di contare qualcosa, perché gente, dopo tutto, ce n’è. Strategicamente, ormai ci si è già accorti che è una iniziativa a perdere. Perché le persone sono lì per tutt’altri motivi, e nonostante gli encomiabili ma anche un po’ cosmetici sforzi di inventarsi ogni anno un tema e una parola d’ordine, e qualche minuto di contenuti parlati nella disattenzione generale, magari con il contorno di qualche strumentalizzazione legata all’attualità politica del momento, alla fine ci si va solo (o lo si guarda in TV) perché c’è la musica e perché è gratis.

Questa parabola è fortemente simbolica, e ci dice molto sulle trasformazioni del lavoro. E, magari, dovrebbe richiamare più attenzione: anche e soprattutto da parte di chi, come i sindacati, svolge un lavoro di tutela di cui c’è ancora enorme bisogno, anche se in forme sempre più differenziate. Da un lato ci avviamo a un dualismo di fatto, a una polarizzazione progressiva: a seguito della quale per alcuni il lavoro è sempre più denso di significato e strumento di valorizzazione di sé e della propria creatività (sono quelli, sempre più individui e sempre meno collettività, che del primo maggio hanno meno bisogno, perché in più il loro lavoro è spesso decentemente redditizio); mentre per altri è solo uno strumento necessario e inaggirabile per percepire un reddito, sempre meno adeguato ai costi e ai bisogni, e sempre meno valorizzante per chi il lavoro lo svolge. Dall’altro il legame tra lavoro e reddito sarà sempre più indiretto: dall’alto, per così dire, perché chi può, perché ne ha i mezzi (i ricchi sempre più ricchi in un paesaggio di diseguaglianze crescenti), si è già liberato da solo dal lavoro, e non fa nulla per nasconderlo; dal basso perché si stanno diffondendo forme di reddito universale e di sostegno a prescindere dal lavoro svolto. Al punto da rendere obsoleto l’articolo 1 della nostra Costituzione, e dunque il fondamento su cui poggia. Che “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro” ha ancora molto senso nella sua prima parte, molto meno nella seconda, anche se continuiamo a crogiolarci nella retorica della Costituzione più bella del mondo.

Ecco, forse è questa la svolta su cui vale la pena riflettere, se vogliamo dare ancora un senso al giorno del lavoro: e farne occasione di riflessione sull’ingiustizia e di ripensamento della società.

 

Il vero senso della festa in un mondo del lavoro che sta cambiando, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 1 maggio 2024 pp. 1-4