Lettera agli studenti (e ai professori)
Comincia, o ri-comincia, la scuola. E la domanda di fondo che sta nella testa di molti ragazzi (e al cuore del problema dell’istruzione superiore) è quella sulla sua utilità. Che senso ha? A cosa serve? Cosa posso aspettarmi? Domanda tanto più importante oggi che la scuola, invece di spiegare la società ai suoi utenti (brutta parola: dovremmo dire abitanti, cittadini), arranca anche lei, con enorme fatica come tutti, dietro a trasformazioni che spesso nemmeno comprende. Nelle società lente l’istruzione, in continuità con la socializzazione primaria (in famiglia), serve a tramandare un patrimonio di conoscenze da una generazione (che sa, o presume di sapere) all’altra (che non sa e deve imparare). Oggi, nelle nostre società sempre più veloci, non è più così: anzi, è quasi l’opposto. La società cambia con rapidità, i ragazzi spesso hanno competenze che i loro genitori non hanno, e spesso ne deducono – terribilmente a torto – di saperne di più della vita, in generale, perché conoscono una tecnologia o un gergo particolare, ignoto ai loro genitori e insegnanti. Ma questo è un campanello d’allarme e un messaggio anche per la scuola, per capire quale è davvero il cuore pulsante della sua missione, al di là degli orpelli: qual è il suo senso primario, al di là delle tante cose secondarie che accompagnano la sua attività.
L’insegnante, anche se spesso lo dimentica, deve ‘e-ducere’: guidare verso qualcosa, dando ai suoi alunni (da ‘alere’, nutrire) le energie per comprendere qual è la loro strada, e incamminarsi in quella direzione (l’arrivarci sarà responsabilità altrui). Cioè avere criteri di lettura del mondo, prima che giudizi su di esso: “L’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità” ha scritto Hannah Arendt.
Certo, per fare davvero questo, la scuola dovrebbe cambiare, stile comunicativo e contenuti. Ed è lentissima a farlo, e pure demotivata: per lo scarso rilievo che la società (facendosi del male) le dà, per la scarsità di risorse che investe, per come malamente ne retribuisce e spesso forma i suoi protagonisti. Ma è la prima e forse l’unica agenzia educativa che può svolgere ancora questo ruolo, di cui la società ha più bisogno che mai. Le altre stanno peggio, sono ancora meno solide, il loro ruolo è progressivamente evaporato: famiglia, parentela allargata, religioni, movimenti politici e partiti, altre socialità intermedie. E vale anche per i (social) media, nonostante la loro invadenza e onnipresenza.
Cosa può imparare uno studente a scuola? L’uso del tempo, per esempio. Il fatto che non è solo in mano propria. Che bisogna imparare a individuare delle priorità, altrimenti lo si spreca. Che bisogna mettersi noi a disposizione del tempo, e non lui a nostra disposizione. Che bisogna lasciarsi mettere in contatto con potenziali passioni che non conosciamo ancora, mettersi alla prova in ambiti e materie che a prima vista sentiamo lontani. La scuola è anche, può essere, dovrebbe essere, il luogo dell’incontro con l’inaspettato. Che potrebbe annoiare. Ma anche no. Come negli incontri della vita. Solo pochissimi valgono la pena. Anche tra gli amici (i social ci hanno abituato alla quantità, ma per noi tutti è la qualità che conta, ed è rara). Quindi la scuola non deve né può piacere in toto. Ma ci sarà un o una insegnante, forse una materia, magari anche solo una lezione che potrebbe cambiare letteralmente la nostra vita, lasciare un ‘signus’ (insegnante, insegnare, insegnamento nel senso di materia, vuol dire questo, ed è parola ambiziosissima: che dovrebbe atterrirci per la responsabilità che ci consegna, e renderci umili nello svolgerla – lasceremo un segno anche senza volerlo, ma se non ne abbiamo consapevolezza rischiamo di lasciarlo negativo, di segnare per sempre la vita di uno studente o di una studentessa).
La scuola è anche il luogo di una preziosissima socialità che, con tutti i suoi aspetti anche negativi, non incontreremmo altrimenti (e abbiamo visto i danni della sua mancanza nei lunghi mesi della didattica a distanza: questa sì un’esperienza che ha segnato per sempre, in negativo, moltissimi ragazzi). La società plurale (culturalmente, socialmente, religiosamente, per orientamenti di genere), che è il nostro presente e sarà sempre di più il nostro futuro, la scopriamo a scuola, e si vede meglio lì che in altre parti della società. Non per caso la scuola è spesso più avanti, e dà già per scontato quello che nella società e in politica è ancora oggetti di dibattiti retrodatati.
La scuola, soprattutto, è il luogo non delle risposte, ma della legittimità delle domande. Una storiella ebraica racconta di un gentile che domanda a un ebreo: “perché gli ebrei hanno l’abitudine di rispondere a un domanda sempre con un’altra domanda?”. E l’ebreo risponde: “e perché no?”. Ecco, la scuola è il luogo delle domande e delle risposte che aprono a nuove domande. E questo nei rapporti tra compagni come in quelli con i libri di testo o con i docenti. Dai quali pretendere tutto questo. E protestare se non lo danno.
Sapere deriva da ‘sàpere’, che ha sapore. Assaggiare, toccare con mano, non contemplare dall’esterno, come se non ci riguardasse. Attività in cui giocano un grande ruolo anche le ‘e-mozioni’ (letteralmente: ciò che ci fa muovere), non solo la razionalità. Qui la scuola rivela tutti i suoi più grandi limiti, e la sua necessità di ripensamento profondo della didattica, e perfino della sua stessa struttura edilizia e del proprio orario e calendario. “Knowledge is life with wings” diceva un grande poeta, Khalil Gibran: la conoscenza è vita con le ali. E le ali servono per volare. Non conosco responsabilità più grande che aiutare qualcuno a spiccare il volo. E, per i diretti interessati, lanciarsi alla conquista del proprio pezzo di cielo.
L’incontro con l’inaspettato. Lettera aperta, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 11 settembre 2024, editoriale, pp. 1-2