Se la politica non fa il suo mestiere. Il referendum sulla cittadinanza
Toccherebbe alla politica, intervenire. Ma la politica non lo fa: perché bisognerebbe aggiornarsi, studiare i dossier, gli effetti delle proprie scelte (o non scelte), magari arrivare a un decente compromesso tra visioni differenti. E invece è più facile e comodo ripetere i soliti quattro slogan per essere eletti, e non fare nulla – costa meno. È per questo che, sulla questione della cittadinanza per gli immigrati, si è arrivati al referendum, così come su altre questioni, come quelle bioetiche e legate ai diritti civili, tocca aspettare la Corte Costituzionale.
Su questo tema, poi, le occasioni perse sono clamorose. Non solo non è intervenuta la destra, per non dover rinnegare decenni di indiscriminata propaganda anti-immigrati, con la quale i voti li raccoglie (anche se li rinnega nei fatti: con questo governo ha decretato il più ampio decreto flussi della storia italiana, così come Berlusconi ha promosso le sanatorie più numerose, ma guai ad ammetterlo). Anche la sinistra, quando era al governo e aveva i numeri per approvare una legge (anche quelli dei sondaggi: la gente era d’accordo, e i giovani ancor più), per pavidità, ha lasciato perdere. E così è toccato inventarsi un referendum, che di necessità propone una scelta netta, anziché consentire lo spazio per una ampia discussione su una riforma, che sarebbe stata una imperdibile occasione di maturazione della pubblica opinione, su un tema di valenza storica: non meno di referendum come quelli sul divorzio o l’aborto, e assai più di quelli oggi al voto sul lavoro.
La via scelta dai promotori è semplice, intuitiva, lineare: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma portare gli anni necessari per fare domanda da dieci a cinque (come in Germania, in passato il paese europeo con il più rigoroso ius sanguinis, Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo: Austria e Finlandia sono a sei, mentre ne ha dieci la Spagna e a dieci vuole tornare la Gran Bretagna). Solo che in Italia non sono reali: lo stato si prende ben tre anni per rispondere, ma spesso sono di più (e quindi si arriva quasi ai dieci sostanziali), senza pagare pegno: nessuno fa causa a uno stato inadempiente quando è da quello stesso stato che dipende, letteralmente, la propria possibilità di acquisire, attraverso la pienezza dei diritti, una vita migliore.
L’acquisizione della cittadinanza dei genitori andrebbe a ricadere automaticamente sui figli minori (esclusi i minori stranieri non accompagnati), risolvendo quindi il dilemma del mai approvato ius scholae: coinvolgendo una platea potenziale di circa un milione e 300mila giovani (quella reale è inferiore perché molti genitori non faranno comunque la domanda), per tre quarti nati in Italia, di cui un milione presente nelle nostre scuole. Persone che, se le ascoltassimo senza vederle, nemmeno ci accorgeremmo che sono stranieri. E se ne ascoltassimo le aspirazioni, ci accorgeremmo che non sono più stranieri dei nostri figli, condividendo con loro aspettative e frustrazioni.
Cittadinanza, occasione persa per la politica, in “L’Altravoce. Quotidiano nazionale”, 3 giugno 2025, pp. 1-7