Bambini stranieri a scuola: governare il fenomeno. Il caso Mestre

Prima o poi doveva succedere. Se non si governa un fenomeno, se lo si lascia semplicemente accadere, se addirittura ci si dice ‘contro’ per evitare di occuparsene (cosa che ha lo stesso senso di essere contro la globalizzazione, il maltempo, il trasporto pubblico o i servizi sociali, che effettivamente portano e comportano – anche – grane, e costi), lasciandolo alle logiche del mercato, come spesso accade quando si tratta di migrazioni, esso si trova da solo le sue strade per emergere. Se non si studiano le tendenze e i dati, se non si affrontano i fenomeni di cambiamento della composizione demografica e sociale delle città, se non si attivano politiche (di edilizia popolare, di integrazione, di dialogo tra neoarrivati e autoctoni, o arrivati precedentemente), se non si fanno previsioni, se non ci si confronta con lo stato d’animo della popolazione, accade che la realtà si mostri da sola all’evidenza: come è accaduto con la scuola primaria “Cesare Battisti” di Mestre, che si è trovata con 60 iscritti stranieri su 61 iscritti al primo anno, suddivisi in tre classi, di cui una sola vedrà un bambino italiano. O almeno, questa è l’immagine che passa. In realtà diversi bambini di cognome straniero sono di cittadinanza italiana, come i loro genitori, che l’hanno acquisita dopo molti anni di residenza nel nostro paese (mediamente almeno 15-20), e per lo più sono nati in Italia: quindi, stranieri solo all’apparenza – nell’inerzia della percezione, non nei fatti, e nemmeno nell’estraneità alla cultura italiana.

Non dobbiamo pensare alle scuole diversificate per lingua: come lo sono le scuole inglesi, in cui si mischiano stranieri e autoctoni per lo più privilegiati, o le scuole cinesi, come quella di Padova, che peraltro non suscitano scandalo in nessuno. Sono iniziative private, dove si insegna ovviamente l’italiano, e dove si scopre, come la ricerca ha dimostrato da decenni (chiedere a glottologi e linguisti, ma anche psicologi), che le persone bilingui, che parlano in casa o a scuola una lingua che non è quella del paese in cui vivono, al contrario di quel che si crede, hanno spesso un vantaggio competitivo, e mettono a disposizione della società una competenza linguistica e culturale in più, che può venire buona anche nel mondo del lavoro.

Qui si tratta di scuola italiana: in italiano. E di istruzione pubblica. In cui il tema è quello proprio, da sempre, della scuola in quanto istituzione universalistica: come integrare le diversità? Cominciamo da una constatazione. Le università sono valutate in classifiche di cui uno dei criteri di valorizzazione importanti è proprio il livello di internazionalizzazione: più studenti stranieri hai, più professori stranieri hai, più vali. Ora, se questo è vero per l’università, siamo proprio sicuri che non valga anche per la scuola dell’obbligo, e più in generale per l’istruzione, dal nido alle superiori? Il problema è la diversità in sé, o il fatto che non siamo attrezzati ad affrontarla, e il nostro modo di insegnare è poco aggiornato ai cambiamenti in corso?

Certo, è comprensibile una prima reazione di “fuga bianca”, come la chiama la letteratura internazionale, ovvero di iscrizione dei bambini autoctoni altrove. Ma il fatto che sia comprensibile non significa che sia la più adeguata, o la più giusta, e nemmeno necessariamente la più vantaggiosa per i diretti interessati. Nessuna catastrofe, quindi. Magari, un utile segnale che dei problemi è necessario occuparsene prima che sviluppino tutte le loro conseguenze, anziché dopo. Ma è possibile comunque attrezzarsi, come molte scuole già fanno da anni, in tutto il mondo e anche da noi. Con insegnanti di supporto per l’apprendimento della lingua. Con iniziative specifiche e mirate. Con un certo livello di sperimentazione, naturalmente monitorata (di cui avrebbe un enorme bisogno la scuola nella sua interezza, in un momento di colossali cambiamenti, tecnologici, culturali e sociali – e quelli demografici sono tra questi): è la rigidità (di programmi, metodi, ecc.) e l’inerzia (il fare come si è sempre fatto, o ‘come si faceva una volta’), che uccide, non l’elasticità, l’innovazione, la creatività.

Si colga la sfida. La si rivendichi. Si consideri il vantaggio di sperimentare l’integrazione di popolazioni maggioritariamente musulmane in una scuola pubblica, laica e pluralista: e quanto questo sia utile al paese e alle stesse comunità di appartenenza. La si faccia diventare un esempio di collaborazione costruttiva e collettiva. Si coinvolgano le buone energie della società, che ci sono: dal terzo settore alle associazioni industriali, dalle polisportive ai luoghi di produzione culturale, dalle fondazioni alle sagre, dagli oratori alle moschee e alle comunità d’origine. E ci si occupi del contorno e del contesto, non solo della singola classe o istituto. E allora la scuola continuerà a essere quello che è sempre stata, con successo, di fronte a sfide man mano differenti, spesso senza aiuti o addirittura tra gli ostacoli della società e della politica: un’agenzia di integrazione. Delle classi sociali fin dall’origine (genitori dal sud magari analfabeti, autoctoni che parlano solo dialetto, differenti livelli di reddito e di istruzione), delle diversità poi (disabilità, genere), delle etnie, delle culture e delle religioni oggi.

 

Governare il fenomeno superando le diversità, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 settembre 2025, editoriale, pp.1-3