Quelle domande a cui non riusciamo a rispondere. In morte di una dodicenne

Trieste, primo giorno di scuola. Una ragazzina di dodici anni, appena alzatasi, ha lasciato un messaggio sul suo cellulare: “Odio la scuola”, e “Odio la famiglia”. Poi ha accostato una sedia vicino alla finestra, ha messo a posto le sue ciabatte, l’ha aperta, e si è buttata dal quinto piano, uccidendosi. Mi hanno chiesto di ragionarci sopra. E’ uno degli articoli più difficili che abbia mai dovuto scrivere
Non si può, non si può proprio, commentare – e ragionare meno ancora – di una ragazzina che a soli dodici anni decide di darsi la morte, invece di darsi la vita, il futuro, nell’età in cui il futuro è ancora tutto da inventare. Non c’è nulla da ragionare, perché non c’è ragione al mondo per accettare che ci si possa sentire così male da uccidersi, quando la vita è appena ai suoi albori, e dovrebbe essere ancora leggera: non così pesante da pensare di doverla lasciare.
Di fronte alla tragicità di un ineluttabile con cui ci è così difficile immedesimarci, possiamo solo lasciarci prendere dalla commozione: com-muoverci, cioè muoverci con, emozionarci insieme; quell’umano sentimento che ci fa sentire ancora, almeno nel dolore, comunità, che con-divide il peso del vivere. E, con infinito rispetto, possiamo farci delle domande. Noi, adulti. Noi, genitori. Noi, grandi: così ci chiamano, a quell’età, senza sapere quanto ci sentiamo piccoli anche noi di fronte a eventi, questi sì, davvero grandi.
Non c’è colpa, innanzitutto. Da nessuna parte. Tutti – la scuola, la famiglia, le istituzioni, i servizi sociali, il mondo dei grandi insomma – sono chiamati a interrogarsi: nessuno a dare giudizi, ad attribuire colpe, limiti, inadeguatezze. Che sono di tutti noi, di fronte all’incommensurabile, alla difficoltà e qualche volta all’impossibilità di entrare in quei mondi spesso impenetrabili che sono l’infanzia e l’adolescenza, di fronte ai quali tante volte ci sentiamo, noi grandi, inadeguati, incapaci di trovare il canale di comunicazione giusto, le parole per dirci e le orecchie disponibili ad ascoltarli.
Ci ha mandato un messaggio, questa ragazzina determinata, intraprendente, e così grande, seria, adulta nel percorrere fino in fondo le sue scelte. Vi odio: “odio la scuola”, “odio la famiglia”, ma è come se avesse scritto “odio la società”, che genitori e scuola a quell’età rappresentano. Non c’è genitore e insegnante che non sappia che il più delle volte queste sono frasi e fasi conflittuali, che si attraversano per emanciparsi, per uscirne migliori, più maturi, più grandi appunto. Ma qualche volta non è così: qualche volta quell’odio rappresenta una ragione (perché un sentimento è una ragione, per il cuore) più forte di tutte le altre. Non sappiamo cosa si è vissuta: ma quell’odio ci pesa addosso come un macigno, difficile da sollevare. Perché il nostro farci odiare difficilmente non ha ragioni: ragioni senza colpa, spesso, e inconsapevoli, di cui ci potremmo stupire, che non hanno niente di oggettivo e determinabile. E tuttavia lì, evidenti, schiaccianti.
Ci sono altri piccoli indizi che ci testimoniano dell’universo di questa ragazzina, che è l’universo di tanti ragazzini di oggi. I messaggi lasciati sul cellulare, ad esempio. La nostra inseparabile protesi tecnologica, ma anche il depositario delle nostre gioie e dolori, negli sms, nelle frasi su facebook, nelle canzoni del cuore: il nostro – il loro – diario. E poi quel mettere a posto le ciabatte, per bene, prima di buttarsi nel vuoto che la accoglierà, che forse ci racconta di una solitudine ordinata e smisurata. Ma c’è poco da provare a farne una fenomenologia, un’esemplificazione: la verità è che non ne sappiamo nulla, e siamo del tutto impotenti, e incapaci di articolare un perché.
Possiamo solo, attraverso questa morte, accettare il fatto, drammatico ma quotidiano, che talvolta per noi infanzia e adolescenza sono continenti impossibili da esplorare, ma che nondimeno dobbiamo continuamente cercare di sondarli, come certamente avranno fatto i suoi genitori, sapendo che saremo talvolta incapaci, come tutti i genitori, di spezzare quella spessa corazza di vetro che li isola da noi. E talvolta, quando il miracolo avviene, e la corazza si spezza, non è per nostro merito: ma è perché la spinta è venuta da dentro, o da chissà dove.
Possiamo e dobbiamo, attraverso questa morte, ricominciare a pensare alla morte un po’ più spesso. Viviamo in una società vitalista, giovanilista, che si crede amortale, che vive in una finzione – estetica, per esempio – di immortalità: tutti giovani, belli, sani, e ciò che è brutto, vecchio, malato o semplicemente diverso (il diversamente abile, per esempio) ci faccia almeno il piacere di sparire dalla vista. E’ una società dura, questa: violenta. Ci sono gesti e momenti che ci ricordano che questa inconsapevolezza non è un destino necessario. E che la morte fa parte dell’orizzonte della nostra vita. E dovremmo ricordarcelo, capirlo, sentirlo.
Dobbiamo ricordarci, come diceva Ernst Jünger, che “il suicidio è un indizio del fatto che esistono cose peggiori della morte”. E che dovremmo rifletterci sopra: senza giudizi o peggio pregiudizi. E che non è detto che la vita sia il destino ultimo. Che non sappiamo cosa c’è dopo, ma per alcuni il qui è davvero insostenibile, e il dopo, l’oltre, può essere davvero più leggero: nella forma delle braccia di un buon Dio che accolga e che consoli, magari.
Dobbiamo ricordarci, infine, che si vive anche per gli altri, e nel ricordo degli altri. Che com-memorare vuol dire fare memoria insieme, rispettosamente: anche come comunità. E dovremo quindi stringerci intorno a chi ha perso così duramente anche il proprio, di presente e di futuro. E abbracciarli, e sostenerli. Senza sostituire lo spettacolo al rito. In silenzio, tra le lacrime: senza applausi, magari.
Quelle domande a cui non riusciamo a rispondere, “Il Piccolo”, 12 settembre 2012, p. 1