Caro Piero ti scrivo… Lettera aperta a Piero Ruzzante

Caro Piero,

non faccio finta: non siamo mai stati amici. Ma ci conosciamo abbastanza bene, sul campo. Ti lascio, se vorrai leggerle, le riflessioni che mi sono venute in mente leggendo la tua intervista. Come patrimonio di una discussione che ci riguarda tutti.

Ho apprezzato che tu ti sia dimesso dalla segreteria cittadina: sei stato l’unico, dopo la sconfitta. Il gesto è apprezzabile in sé, e te ne va dato atto. E sarà utile anche per innescare una discussione seria: ciò che va a tuo merito. Se sei stato il primo a farlo, è perché, a differenza di altri, sai che la politica ha anche dei tempi che vanno rispettati, e li conosci. Da par tuo, te ne sei fatto interprete.

Le modalità del tuo gesto – le parole che lo accompagnano – mi hanno lasciato invece più di una perplessità. E ugualmente le intenzioni. Di solito ci si dimette per innescare un cambiamento che non si riesce a produrre altrimenti: qui ci si dimette, mi pare, per poter andare avanti come prima, su una linea tracciata da tempo e non messa sufficientemente in discussione.

Tu eri il coordinatore della campagna elettorale di Ivo Rossi, e in quanto tale sei stato il principale ma tutt’altro che l’unico responsabile della sconfitta (che coinvolge anche il candidato, la segreteria provinciale e altre personalità del partito, di diverso orientamento e area politica, per essere chiari): il tuo disegno non era solo tuo, ed era condiviso, seppure con responsabilità e possibilità d’azione diverse, da altri. E’ cosa buona e giusta – e te lo ribadisco: lo apprezzo sinceramente – che tu tragga le conseguenze del ruolo che rivestivi. Ma non sei il solo che dovrebbe farlo.

Tuttavia ti sei dimesso, possiamo dircelo, in maniera polemica. Attribuendo gran parte della responsabilità, di fatto, al candidato sindaco (e, poco elegantemente, invitandolo a farsi da parte); attribuendo responsabilità minori anche al leader nazionale (perché non è venuto a difendere il nostro candidato: come se fosse colpa sua il risultato) e denigrandolo (tra l’altro, nel paragone con lui, azzardando persino una qualche forma di superiorità morale generazionale: mostrando di non aver colto né il punto che ti ha fatto ben osservare Umberto Contarello, né che, complessivamente, si è aperta un’altra stagione nel PD, e che questa stagione è l’inizio della sua rinascita); polemizzando col segretario cittadino (certo, in risposta alle sue, di critiche), senza ricordare che lo avevi di fatto esautorato fino al giorno delle elezioni (al punto di scrivere al suo posto le lettere ai circoli e agli iscritti indicando chi votare); designando quella che secondo te deve essere la leadership futura del partito e con essa la linea politica da seguire; rilanciando infine sulle prossime iniziative.

Il significato della parola dimissioni, a questo punto, mi sfugge. Se uno si dimette, lascia che le responsabilità, la linea, le persone, le decida chi verrà al suo posto: altrimenti tanto valeva restarci, in quel posto. Dimettere, scusa se lo sottolineo, significa “far uscire, lasciar andare, congedare”; dimettersi, significa farlo in proprio: uscire, andarsene, congedarsi. Ed è un verbo nobile.

Ma sfugge anche, del tutto, il significato della parola discontinuità, pure evocata nella tua intervista: come si fa a dire che ce n’è bisogno, ma proporla con le persone di prima a fare le cose di prima? Dicendo che sì, in campagna elettorale si sono sbagliate alcune cose (soprattutto, pare di capire dalle tue parole, il candidato) ma tutto il resto va alla perfezione? Come si fa, in particolare, a rivendicare come rinnovamento l’accordo consociativo – accettato da tutte le parti in causa: avresti ragione a sottolinearlo e va a loro torto – che ha portato al risultato degli ultimi congressi? Mandato giù senza entusiasmo, con tanti mal di pancia, e tante schede bianche degli iscritti, e tanti voti mancanti? Come si fa a non ascoltare il forte malcontento degli iscritti, prima ancora degli elettori, di fronte a questa scelta e dopo, in città e provincia? Come si fa a dire che ha funzionato? Come si fa a dire che le cose, in città e provincia, vanno bene, che il partito è in salute, che il rinnovamento è già fatto?

Come si fa, per esempio (se davvero si vuole onestamente ricominciare coinvolgendo tutti, anche chi non c’è ancora ma potrebbe esserci), a non ammettere che finora il partito è stato gestito da una componente – che a livello nazionale rappresenta l’opposizione: i vincitori di ieri e gli sconfitti di oggi – forte, chiusa, coesa, abile quanto impermeabile? E che l’opposizione, la minoranza – che a livello nazionale si ricollega all’attuale dirigenza – è stata vista come un pericolo e un intruso, è stata sopportata ma non coinvolta, e infine, per sua colpa, nell’impossibilità di incidere o anche solo di sentirsi parte del medesimo progetto, ha finito per passare il tempo a guardarsi l’ombelico e gestire personalismi velleitari? Che, insomma, finora il partito è andato avanti per compartimenti stagni, senza mai interrelarsi davvero, senza contaminarsi reciprocamente, ciò che sarebbe stato la sua ricchezza e la sua forza? Soprattutto, senza aprirsi sufficientemente all’esterno?

Quello che ci sarebbe invece da capire, con un po’ di umiltà, e da parte di tutti, ma proprio tutti, senza distinzioni d’area, è che il problema non è la resa dei conti personale, e nemmeno trovare sul piano personale chi si metta al posto di guida. La sconfitta viene da lontano: è la sconfitta non di una singola persona (in questo senso, nemmeno di Piero Ruzzante), ma di un modello di partito e di un modo di fare politica. Che, senza colpa individuale di nessuno, semplicemente ha concluso il suo ciclo e – se mi si permette la citazione di un padre nobile che di questi tempi citano tutti senza imitarne la chiarezza analitica – ha esaurito la sua spinta propulsiva. Che a suo tempo ha avuto e ha portato a risultati lusinghieri: ma che adesso non c’è più. E’ una stagione passata. Definitivamente. Ed è ora di cominciare a elaborare il lutto, se si vuole andare avanti.

Il problema non è chi ci sarà alla guida del partito, ma cosa farà: perché se farà le stesse cose, con le stesse chiusure interne ed esterne, ha già finito prima ancora di cominciare. E su questo il PD di Padova e provincia (un tutt’uno, come imprinting e reti di relazione) dovrà fare molta strada. Interrogandosi serenamente sui suoi limiti, e accettandoli, per ripartire costruttivamente, aprendo un rapporto con la società e con la città che, palesemente, negli anni si è ridotto ai minimi termini. Non a causa di singole persone: troppo facile. Ma, più profondamente, di un modo di fare politica, pensarla, organizzarla, praticarla che appartiene a un tempo che non è questo. Tutto qui. Questa presa d’atto è una condizione necessaria della ri-partenza. Se questa consapevolezza non c’è, è un problema, prima ancora che politico, culturale, di orizzonte, e assai grave. Non è un lavoro di giorni o settimane, ma di mesi e probabilmente di anni: se non si riconosce che è necessario, non si è capito nulla di questa sconfitta – meritata, e che merita di essere meditata seriamente, perché non ce l’hanno inferta gli avversari, ma i nostri elettori attuali e potenziali.

E’ da lì che bisogna ripartire. Ringraziando te, Piero, per il lavoro svolto in passato, e per esserti messo da parte quando quel lavoro non è più diventato possibile perché semplicemente non ha più senso, perché quella stagione è finita: per sempre.

Se si parte da lì, tutte le risorse che ancora ci sono, sono buone e utili: tu, Piero, con la tua grande esperienza e le tue indubbie capacità, incluso. Ma solo se ci sarà anche una seria valutazione delle risorse che invece non si sono utilizzate, si sono sprecate, si sono lasciate colpevolmente andare via, non si sono ricercate in passato. Dando così il segno vero di una ripartenza: che, in questo momento, mi dispiace, ma ancora non c’è, non si vede.

A scanso di equivoci: tutto vuol significare, questo discorso, tranne pensare che le cose si risolvano cooptando qualche persona che la pensa diversamente. Sarebbe l’errore più grande: e, ancora, vecchia, vecchissima politica. Occorre aprire porte e finestre, coinvolgere iscritti ed elettori, energie e forze che sono presenti intorno a noi, fuori dal nostro piccolo fortino, in cui l’aria è diventata irrespirabile, e dar loro credito e fiducia, accettare le loro scelte future, anche se non le capiremo. Darsi il tempo per fare analisi, discutere, litigare forte, mandarsi a quel paese, anche: ma con parole chiare e oneste, senza dietrologie e messaggi obliqui. Avere il coraggio di mettere in discussione gli equilibri del passato: di resettare tutto, ma proprio tutto. In un cammino che deve essere affrontato insieme, ma con un passo ben diverso da quello del passato: e per andare in altra direzione.

Con stima

Stefano