Turismo, retribuzioni e qualità del lavoro. Sulle dichiarazioni di Cipriani e il caso Harry’s Bar

Le dichiarazioni di Arrigo Cipriani – che non trova lavoratori per il suo Harry’s Bar – sono un buono spunto per affrontare il tema del lavoro, e nello specifico del turismo, in Italia. Non perché siano originali: non lo sono. Né perché facciano capire cosa succede nel settore: non lo fanno. Ma perché aiutano a comprendere un certo modo di intendere il lavoro e la società (e di fare imprenditoria) che è di molti: e che è parte del problema, non della soluzione.

L’imprenditore avrebbe due metri per giudicare il proprio prodotto: il giudizio dei clienti che pagano, e quello dei dipendenti che paga. Il primo si utilizza spesso, il secondo di rado, anche nelle ricerche di settore. Eppure le due cose sono collegate: e misurare il grado di soddisfazione dei lavoratori è un buon modo per capire se un’impresa o un settore ha un futuro. Chiedere loro un’opinione, invece di dire loro come dovrebbero pensarla, potrebbe essere assai utile a chi con la concorrenza – dunque con la qualità e la professionalità, oltre che con il prezzo – si misura. Tra gli imprenditori invece (quelli che si lamentano in pubblico, almeno: altri riflettono, ma fanno meno notizia) prevale il vittimismo: se non trovi dipendenti è colpa delle loro pretese eccessive, o del contesto (dello stato, delle tasse – con molte buone ragioni, naturalmente), comunque non tua. In particolare, non delle condizioni di lavoro e delle opportunità di crescita e di carriera offerte. Non è solo questione di salari, infatti: anche se contano, visto che con un salario medio del settore oggi si vive molto peggio di qualche decennio fa. E, a costo di ribadire l’ovvio, se per l’imprenditore è vera la massima di Benjamin Franklin, per cui “il tempo è denaro”, perché non dovrebbe esserlo anche per i lavoratori?

Per questo l’accusa del datore di lavoro ai lavoratori di pensare solo ai soldi – avanzata da Cipriani – risulta paradossale. E ricorda più l’inconsapevolezza degli aristocratici russi raccontati da Čechov o da Gogol rispetto ai loro schiavi e servitori, che non la razionalità dell’imprenditore capitalista di Weber o la dinamica disrupting della distruzione creatrice di Schumpeter.

Parliamo di un settore in cui i minimi contrattuali, ma anche i salari medi – ed è risaputo e ammesso anche dai datori di lavoro più avvertiti – sono troppo bassi per gli orari e i turni richiesti (basti pensare alla diffusione del lavoro grigio, con solo una parte del salario pagata in regola, e orari dichiarati ben diversi da quelli praticati). In più, alle condizioni lavorative e stipendiali descritte, si aggiungono condizioni di vita (orario allungato, lavoro serale, festivo e nei periodi di vacanza) e alloggiative (visto che spesso lo si deve svolgere fuori sede) svantaggiate e talvolta indecenti. Una facile riprova è che quegli stessi giovani italiani che vengono accusati di indulgere in pigri lussi garantiti dal reddito di cittadinanza (che non c’è nemmeno più: occorrerà aggiornare il repertorio delle lamentele), all’estero svolgono quegli stessi lavori qui rifiutati, e un perché ci sarà. Come ci sarà un perché se il settore alberghiero e della ristorazione ha visto, nell’immediato post-Covid, una massiccia migrazione di lavoratori anche stranieri verso lavori, qualifiche e salari operai, che la manifattura ha offerto nel momento della ripresa post-pandemica: evidentemente era più attrattiva, e quello che spaventa, quindi, non è la fatica, che la fabbrica non risparmia.

Una riflessione tutto ciò la meriterebbe. Perché, è vero, il settore macina record ogni anno, e il Veneto ne è regione trainante. La crescita, tuttavia, è in parte significativa figlia non di meriti propri (se si può parlare di merito di fronte alle meraviglie della natura o ai lasciti artistici e architettonici dei nostri antenati – chi sta a Venezia, per esempio, non ha alcun merito sulla sua bellezza, e spesso molti demeriti su come la peggiora), o di una capacità imprenditoriale specifica (che alcuni hanno e altri no), ma di una congiuntura globale, che vede crescere il numero di persone nel mondo che il turismo se lo possono permettere: tanto che aree comparabili (e meno dotate per storia e natura di qualità intrinseche) crescono più velocemente, attraggono di più, e hanno un tasso di fidelizzazione (banalmente, di ritorni) superiore. E di questo si dovrebbe ragionare.

Poi, certo, ha ragione Cipriani: è cambiata la società e sono mutate le priorità individuali. Anche rispetto alla centralità del lavoro nella vita quotidiana. Solo che forse è un bene su cui dovremmo riflettere, o almeno un dato intorno a cui riorganizzarci, non un male da stigmatizzare. E su cui anche gli imprenditori hanno molto da dire, da riflettere, da sperimentare. Qualcuno lo sta già facendo: anche nella propria vita privata. Per ripensare il futuro, guarderei lì, evitando di rimpiangere nostalgicamente un passato che – grazie a Dio – non tornerà più.

 

Non è solo questione di soldi. Cipriani e i lavoratori, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 4 luglio 2023, editoriale, p.1