Non si vota più divisi per genere: perché è una piccola rivoluzione di costume

Quando andremo a votare, ci troveremo davanti a una piccola, minuscola, impercepita, eppure grande novità. Una innovazione apparentemente banale, meramente burocratica: ma anche una significativa, per quanto inconsapevole, rivoluzione di costume.

La novità non è legata al risultato elettorale, che di innovativo, e tanto meno rivoluzionario, non avrà nulla: in alcune regioni, come in Veneto, si conosce in anticipo il vincitore, che sarà nel segno della continuità, e le eventuali sorprese saranno al massimo legate al peso dei singoli partiti all’interno delle coalizioni, o a qualche illustre promosso o bocciato. Sta invece tutta nelle modalità di voto: nelle sezioni, infatti, troveremo per la prima volta le file divise non per genere, maschi e femmine, ma per ordine alfabetico.

Talvolta il nuovo, senza essere veramente pensato e progettato come tale, semplicemente accade. È il caso di questa riforma, che, per via amministrativa, pone fine al binarismo di genere, superandolo. Ed è tanto più significativo che accada in un periodo in cui un certo revanscismo, oggi particolarmente popolare negli Stati Uniti ma assai visibile anche da noi, rivendica, con il ritorno alle tradizioni del passato, il tradizionalismo delle divisioni di ruolo, e se la prende con fasce iperminoritarie di popolazione, assurte al ruolo improbabile di pericolo pubblico e nemico politico, come le persone transgender, e più in generale con la composita galassia LGBTQ, accusata di confondere le acque (peraltro mai state cristalline), delle identità sessuali e di genere. Ancora più significativo è che questo accada proprio mentre governano, e appaiono più visibili nello spazio pubblico, i paladini della differenza radicale, anche di ruoli, tra maschi e femmine (questa sì, una ideologia gender, probabilmente più concreta di quella contro cui alcuni si scagliano). Che tra l’altro, in maniera benemerita, ne violano alla radice i presupposti, portando alla presidenza del consiglio e alla guida del paese, per la prima volta, una donna. E al contempo mischiano e confondono i ruoli, laddove le suddette presidentesse del consiglio rivendicano di farsi chiamare presidente, le direttrici d’orchestra si fanno chiamare direttore, mentre le rettrici, a capo di istituzioni spesso accusate di prestare troppa attenzione alle multiformi dimensioni del genere, sono felici di essere chiamate tali.

Non si sottovaluti la portata implicita di questa piccola/grande innovazione di costume. Il voto per ordine alfabetico alle elezioni ha lo stesso significato simbolico dell’introduzione dell’otto per mille nella dichiarazione dei redditi. Il primo seppellisce senza accorgersene il binarismo laddove non si rende più necessario, superandolo. Il secondo ha sdoganato a livello simbolico e popolare (con riferimento anche alle tasche dei contribuenti, sempre sensibili) il nuovo pluralismo religioso del paese, il suo non essere più omogeneamente cattolico, e basta. Sono novità che vanno nella stessa direzione: il riconoscimento esplicito di diversità non più incasellabili nei paradigmi tradizionali; o che non c’è più bisogno di ribadire ovunque senza necessità. Piccoli passi di un lungo cammino. Che, forse, potremmo semplicemente chiamare civiltà.

 

Che bello l’ordine alfabetico, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 22 novembre 2025, editoriale, pp. 1-7