La crisi sulle spiagge e il senso della vacanza
E se la crisi del turismo fosse un bene? Certo, gli operatori del settore non saranno d’accordo: e come non capirli. Se si perde clientela, fatturato, incassi, cala anche l’occupazione, e si ridimensiona l’indotto. Il problema economico c’è, coinvolge tutti, ed è serio: è la società tutta che ci perde. Ma poi, se andiamo a vedere le attività che calano maggiormente, molti di noi, socialmente e culturalmente, non si stupirebbero più che tanto: magari perché hanno già smesso di praticarle, e nemmeno solo per il costo – perché non si divertono più.
Certo, c’è la crisi economica che morde. E finalmente, anche nel turismo, cominciamo ad accorgercene anche in termini di consapevolezza culturale, non solo di opportunità mancate. Meglio tardi che mai. Ma come! Viviamo in un paese in cui i salari reali calano costantemente, eppure nel settore del turismo di massa i prezzi aumentano, e ci aspettiamo comunque le stesse presenze di prima: ci sarà una contraddizione, o no? Come si può immaginare che la gente vada al mare come se le famiglie fossero quelle di una volta, e con le stesse disponibilità di prima? E allora, forse, anche gli operatori dovrebbero cominciare (e dovremmo farlo tutti noi) a guardare anche alla salute del paese, non solo al proprio orticello e ai propri pur legittimi interessi. Se il paese va male, come possiamo pretendere che a noi vada bene? Se lo capiamo, vogliamo tirarci su le maniche e cercare di migliorare il paese? Che vuol dire coscienza civica, partecipazione, dare una mano e non solo prendere, impegnare tempo, soldi e idee per il bene comune, per migliorare la società, diminuire i conflitti anziché esacerbarli, favorire il miglioramento della condizione sociale ed economica di chi sta peggio, non solo della propria. Il che vuol dire anche delle persone diverse da noi, delle minoranze culturali e d’altro genere. Faccio un esempio minore ma non irrilevante. Le persone di origine straniera che vivono in Veneto sono ben oltre il dieci per cento della popolazione. O nella ricezione turistica li accogliamo, e gli diamo il benvenuto, anziché sperare che non si presentino e magari non tollerarli proprio, o significa il dieci per cento di turisti potenziali in meno. E se il problema è che sono più poveri perché hanno salari più bassi (peraltro, in specifico, anche proprio nel settore del turismo), forse è il caso che ci domandiamo se è giusto e normale che la società sia così. Ma il discorso vale anche per altre minoranze culturali. Se non accetteremmo una coppia gay nell’ombrellone accanto che magari osasse tenersi per mano (o, Dio non voglia, si baciasse), se ce ne andremmo o ci sentiremmo infastiditi se ci fosse una famiglia musulmana con una donna che veste il foulard, se già una persona di colore ci turba e va bene solo se ci vende un pareo (un po’ meno se ci siede accanto mentre ordiniamo un aperitivo al banco), se pure una famiglia con più di un bambino (e quindi più rumorosa) ci darebbe fastidio, in effetti, perché tutti costoro dovrebbero venire in spiaggia con noi, sempre che se lo possano permettere? Ma, sommati, fanno pezzi sempre più grandi della società. Che, peraltro, si trovano turismi specializzati pronti ad accoglierli, che operatori accorti approntano per loro.
Il problema più di fondo e radicale, su cui la crisi del turismo tradizionale ci interroga, è tuttavia un altro: e tocca un vero cambiamento culturale. Ma siamo proprio sicuri che la stanza in albergo, l’ombrellone a pagamento, la passeggiata per il gelatino, l’acquistare tutti gli anni la stessa paletta e secchiello (ma un materassino di foggia diversa) buttati via a fine stagione, strafogarsi di aperitivi ed happy hour, passare la serata al ristorante per mangiarsi (cito da una vecchia canzone di Guccini) “un fritto misto dato lì con mala grazia naturale”, tirare tardi in attività la cui ratio ci sfugge ma il cui denominatore comune è che sono a pagamento, fare shopping serale, andare per forza in discoteca, siano il top di gamma del divertimento, e quello di cui hanno bisogno le nostre menti e i nostri corpi per ricaricarci in quella che chiamiamo vacanza? Ci piace ancora, farlo, o è solo un’abitudine acquisita, cui ci adeguiamo per pigrizia mentale, e per non saper trovare alternative? Perché poi, in realtà, le alternative ci sono, e sempre più persone se le trovano o le costruiscono. È solo l’immaginario che è ancora fermo lì. È la televisione (un oggetto che produce contenuti culturali per boomers) che nei servizi estivi sempre uguali, ci fa vedere queste solite immagini. Ma è quella, la vacanza?
La crisi sotto l’ombrellone e le vere vacanze, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 agosto 2025, editoriale, pp. 1-5



