La cosa giusta nel modo sbagliato. La maturità, gli esami orali, la vita

E anche per quest’anno abbiamo archiviato la stagione degli esami: di maturità, universitari, di laurea. Credo, però, con una consapevolezza diversa. Grazie, anche, al piccolo brivido offertoci dagli studenti che non hanno sostenuto l’orale alla maturità.

Non che questo gesto sia stato chissà che. Fa sorridere chi ha parlato di movimento di protesta. Tre/quattro studenti su una platea di oltre mezzo milione di maturandi è a mala pena una testimonianza, iperminoritaria e ininfluente. Sono ottuse e un po’ patetiche, dunque, le generalizzazioni sui giovani d’oggi (lo sono sempre state, del resto). Ma se ne abbiamo parlato così tanto, è perché hanno colto qualcosa di profondo. Su cui vale la pena continuare a ragionare, anche adesso che gli esami sono finiti.

Una prima considerazione, è che quei pochi sono stati bravi a cogliere un errore, una fallacia, un bug come si dice in informatica, nel sistema. Si sono accorti che si poteva passare l’esame anche senza partecipare all’orale, se lo scritto era sufficiente: cosa di cui chi ha inventato la maturità come è ora non si era reso conto, meno che mai il ministro (in-)competente, che infatti ha reagito in maniera scomposta, alzando il ditino, minacciando sfracelli, e in realtà limitandosi a dire che in futuro cancellerà questa possibilità, risolvendo il bug. Eppure dovremmo premiarli, questi ragazzi: per coerenza con una società che il lavoro di cogliere gli errori di programmazione o di previsione normativa – dagli informatici agli avvocati e ai commercialisti – lo paga bene, e più sei capace di mettere in contraddizione la norma con sé stessa, e più sei bravo. Incidentalmente, la geremiade sugli studenti viziati che non vogliono affrontare le difficoltà della vita, in cui gli esami non finiscono mai, è ancora più risibile venendo dalla generazione del posto fisso, la più garantita di sempre, e rivolgendosi a quella più precaria dell’ultimo mezzo secolo.

Certo, le forme della protesta sono state discutibili. In qualche modo, hanno detto la cosa giusta nel modo sbagliato. Ma c’è davvero qualcosa da dire su una società ossessivamente e anche inutilmente competitiva, e più per motivi ideologici che razionali: tanto che abbiamo pervertito persino la parola competizione, dato che per i latini cum-petere significava andare insieme nella medesima direzione, e quindi collaborare, l’esatto opposto del suo significato odierno. Ed è interessante – dato che questo concetto ha a che fare anche con l’idea perversa e un po’ stupefacentemente accettata di esame e anche di scuola e di istruzione che abbiamo oggi – che la stessa cosa sia accaduta con un’altra parola molto pronunciata in questo dibattito: meritocrazia, di cui il suo inventore, lo scrittore e sociologo inglese Michael Young, nel romanzo distopico “L’avvento della meritocrazia”, nel lontano 1958 già criticava pretese e conseguenze. Del resto, anche skholé, in greco, significava originariamente ozio, modo piacevole di utilizzare il tempo: anche qui, l’esatto opposto di oggi. E anche questo ci dovrebbe dire qualcosa.

Poi, dicevo, se la riflessione è giusta, il bersaglio è stato sbagliato. Non è risparmiandoci l’esame orale che risolviamo il problema. Lo dico da docente che, insegnando una materia umanistica – sociologia, appunto (per le scienze dure e esatte la cosa è evidentemente diversa) – rifiuta di fare esami scritti (con le complicazioni logistiche del caso, avendo un numero assai congruo di studenti). Sono rimasto tra i pochissimi a farlo. Alla magistrale, mi ritrovo studenti e studentesse che, al quarto anno di università, sono in difficoltà (e balbettano malamente, e si emozionano) perché il mio è il loro primo esame orale: e magari sono persone che diventeranno insegnanti, e mi domando come trasmetteranno il loro sapere.

Il problema è che lo sviluppo tecnologico, o la stessa intelligenza artificiale, non sostituirà l’oralità: semmai, molto più incisivamente, la scrittura. La vita è orale. Un colloquio di lavoro è orale (e non a caso, nelle professioni, vengono sempre più premiate competenze trasversali, relazionali, di collegamento, che devono tantissimo proprio alla parola, e alla parola pronunciata, trasmessa da persona a persona – anche la leadership si nutre di questo). Un rapporto di amicizia è orale. Un amore è fatto di parola e di presenza, fin da quando viene dichiarato: per quello ci affatichiamo dietro alle parole per dirlo. E dopo tutto, nonostante lo sviluppo di tanti media ipertecnologici, quello più efficace è tuttora, e forse più di prima, proprio il medium più antico: la parola detta di persona, e possibilmente incarnata. Ed è tanto più vero oggi. Al punto che dovremmo pretenderne di più, non di meno.

 

Gli esami orali. Perché le parole contano, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 luglio 2025, editoriale, pp. 1-6