Gaza ci guarda. E ci riguarda

Gaza ci guarda: anche se noi guardiamo altrove. Ci riguarda: perché avrà conseguenze anche da noi. E ci giudica: perché ci costringe a giudicarci.

Non è solo un problema nostro, è vero: è dell’intero Occidente. Che ha smesso di essere quello che diceva di essere – l’avamposto della democrazia e dei diritti universali (per tutti, quindi) – generalizzando un regime di doppia verità, per cui ciò che vale per noi e al nostro interno (a cominciare dal rispetto del diritto alla vita e alla dignità della persona umana) non vale altrove, e comunque non vale per alcuni. Tra questi, ci sono certamente i palestinesi di Gaza.

Sì, certo, c’è stato il 7 ottobre. C’è Hamas. C’è il sacrosanto diritto a esistere dello stato di Israele (anche se dimentichiamo il diritto a esistere in pace anche degli altri stati della regione, e di quello che non esiste ancora, quello palestinese, che la comunità internazionale da decenni vorrebbe – due popoli, due stati, ricordiamo?). Ma questo non può giustificare tutto: il radere al suolo intere città, il massacro quotidiano di un popolo, le annessioni di territorio che proseguono attraverso gli insediamenti illegali (anche in Cisgiordania, dove non c’è Hamas e da dove non partono missili, e quindi non ci sono alibi), le deportazioni, la guerra esportata in altri paesi dell’area (Libano, Siria, Iran…).

Non ci azzardiamo nemmeno a riassumere qui una storia complessa, in cui nessuno ha il monopolio della verità, tutti hanno responsabilità flagranti, nessuno è vittima innocente. Se c’è una zona del mondo dove il bianco e il nero non esistono, dove i buoni e i cattivi non stanno solo da una parte, e a fasi alterne si trasformano gli uni negli altri, quella è il Medio Oriente. Ci limitiamo, qui, a constatare due o tre cose sull’oggi, che avranno (stanno già avendo) degli effetti anche da noi e su di noi. A casa nostra.

La prima è l’isolamento internazionale dell’Occidente. La seconda riguarda i futuri flussi migratori. La terza, invece, le nostre trasformazioni interne. Cominciamo dalla prima.

Siamo sempre più lontani dal resto del mondo: un po’ perché gli altri non sono più sicuri che valga la pena essere come noi, e un po’ perché siamo noi ad allontanarci da noi stessi e a respingere gli altri. Lo si vede bene sulle grandi questioni della geopolitica (non solo riguardo a Israele, peraltro): dove sempre più spesso, anche all’assemblea generale delle Nazioni Unite, quasi tutto il resto del mondo (Africa, Asia, America Latina) vota in maniera diversa da noi (è la piccola Europa, con gli Stati Uniti, a essere isolata), e preferisce votare con Russia e Cina, pur non amandone il modello di sviluppo e non abbracciandone i valori. Siamo apertamente dileggiati per la nostra incoerenza, e non di rado guardati con stupore dal resto del mondo. Come abbiamo potuto cambiare così tanto e così in fretta? Il nostro plateale doppio standard nei confronti di Israele ne è l’immagine più forte: basta immaginare una banale inversione di ruoli (con i palestinesi che fanno agli israeliani il dieci per cento di quanto gli israeliani hanno fatto ai palestinesi, e non da oggi), per cogliere la nostra evidente contraddizione – quanto ci saremmo indignati, e quanto prima avremmo agito, a parti invertite! Ma anche rispetto all’Ucraina, in fondo, ci preoccupiamo di più di programmare la sua futura ricostruzione, anche nel nostro interesse, che di evitare che venga distrutta.

Le future migrazioni sono la conseguenza tutt’altro imprevedibile di quanto accade oggi, di cui nessuno ha il coraggio di parlare. Immaginiamo che, come vogliono Israele e gli USA e come sta già accadendo, si svuoti la striscia di Gaza, e si costruisca la fantomatica ‘città umanitaria’ (quanto fanno orrore, gli eufemismi della politica: quanto pervertono parole che non saranno mai più pulite e utilizzabili) per accogliere una parte, presumibilmente modesta (dato che non si potrà uscire e il controllo dell’enclave sarà israeliano), della popolazione ghazawi. Che faranno tutti gli altri? Andranno altrove, come fanno da decenni. Solo, tutti insieme. E dove immaginiamo che vadano? Qualcuno nei paesi arabi, certo. Gli altri, prevedibilmente, in Europa (gli USA, con gli ultimi sviluppi, sono destinazione impensabile, e del resto non sarebbero nemmeno fatti entrare). Li accoglieremo, come fatto giustamente con gli ucraini? E, se no, con quali scuse, inaccettabili innanzitutto per noi, li rifiuteremo?

Infine, c’è il costo morale, che ci stiamo infliggendo da soli. Il nostro non voler vedere, non voler intervenire, o peggio giustificare, costa alle nostre coscienze, al nostro vivere civile, alla nostra capacità di guardarci dentro, alle nostre democrazie. Ne pagheremo il prezzo: tutti noi, generazione che ha il potere decisionale. Anche di fronte alle generazioni dei nostri figli e nipoti, che ci giudicheranno (hanno già cominciato a farlo) per quello che hanno visto, o meglio non hanno visto, da parte nostra. Non diversamente da come abbiamo fatto di fronte al cambiamento climatico, all’esplodere delle diseguaglianze, e altre grandi emergenze globali. Di fronte alle quali la nostra più grande abilità è stata quella di far finta di non vedere.

 

Gaza ci guarda e ci giudica, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 luglio 2025, editoriale, pp. 1-5