Il fattore “C”. Dinamiche (inter-)culturali e logiche istituzionali: osservazioni a partire dal caso dell’I.P.M ‘Cesare Beccaria’
Allievi S. (2004), Il fattore “C”. Dinamiche (inter-)culturali e logiche istituzionali: osservazioni a partire dal caso dell’I.P.M ‘Cesare Beccaria’, in A. Campus (a cura di), Minori stranieri soli. Tra politiche di accoglienza e politiche di controllo, Roma, Officina Edizioni, pp. 221-256; isbn 8887570-78-7
Il fattore “C”.
Dinamiche (inter-)culturali e logiche istituzionali:
Osservazioni a partire dal caso dell’IPM “Beccaria”
di
Stefano Allievi
Padre nostro
che sei nei cieli
dacci oggi i lavori giornalieri
non ci indurre al Beccaria
e liberaci dai carabinieri
così sia
Andrea
(dal sito web del Beccaria)
Premessa
Le riflessioni che seguono sono il frutto di una ricerca svolta nel corso dell’anno 2000, con momenti di osservazione partecipante all’interno della struttura dell’Ipm “Beccaria”, in diversi ambiti e momenti della giornata, a seguito dei quali sono state svolte alcune interviste ad operatori ai vari livelli, dal vertice alla base, oltre che diversi incontri e riunioni con i medesimi, allo scopo di far emergere alcuni nodi particolarmente rilevanti nell’ambito delle relazioni interculturali[1].
Data il carattere non sufficientemente lungo e intenso della nostra presenza (in particolare, data la mancanza di un periodo di osservazione partecipante continuativo e approfondito – stile Asylums di Goffman, per intenderci), non abbiamo in questa sede alcuna ambizione esaustiva, né riassuntiva: soprattutto non ci permetteremmo, per motivi deontologici, dopo una serie di prese di contatto troppo brevi per essere considerate sufficienti, di proporre uno strumentario analitico, né ad uso di operatori che in molti casi hanno una maggiore conoscenza sia dei problemi che delle dinamiche relazionali in gioco, né ad uso dei decision makers.
Il fine che ci muove non è nemmeno, d’altronde, quello di proporre una analisi della letteratura in materia. Il nostro scopo è piuttosto e soprattutto, in questa sede, di far emergere alcuni spunti di riflessione, a partire dall’osservazione di alcune dinamiche legate alla concretezza del caso in questione, e a una più generale frequentazione delle problematiche interculturali in vari ambiti, che possano eventualmente servire da spunto operativo, e magari da punto di partenza per una ricerca ulteriore.
In particolare, affronteremo alcune dinamiche culturali, indotte dalla presenza sempre più significativa di minori immigrati, o figli di immigrati, o comunque appartenenti a culture minoritarie (ad esempio linguisticamente), che esulano dalla normale pratica relativa alla situazione dei minori e della devianza minorile. Dinamiche che, innanzitutto per questioni numeriche (questa ‘utenza’ è in crescita, mentre quella autoctona ‘tradizionale’, a causa della sempre maggiore diffusione di misure alternative, è in diminuzione; cf. Campus 2000[2]), ma anche per la loro precipua importanza, diventano sempre più importanti e centrali anche nella vita dell’‘istituzione Beccaria’.
La situazione
La percentuale di stranieri, al Beccaria come in altri istituti per minori, è come si è visto sempre più ampia. Tanto per dare una cifra indicativa, al momento del nostro ingresso, il 74% dei minori presenti (60 maschi e 15 femmine) era straniero, di cui l’86% in custodia cautelare, per recidiva o per fallimento delle misure assunte in precedenza. Le presenze principali erano quelle degli jugoslavi (quasi ‘monopolistiche’ nel femminile), dei maghrebini, degli albanesi e di alcuni altri (sudamericani, rumeni ecc.). Naturalmente gli stranieri hanno molte più probabilità di finire reclusi: “Di fatto, su 100 italiani che arrivano al CPA (Centro Prima Accoglienza), 20 passano in carcere; su 100 stranieri ve ne finiscono 80”, come afferma sinteticamente il vice-direttore dell’Istituto (Centomani, s.i.d.).
Sembra ancora vero insomma quanto notato a suo tempo da Goffman a proposito degli Stati Uniti: che c’è “un solo tipo di uomo che non deve mai arrossire”, e che può sperare, nel corso della sua vita, di non finire in galera, e costui “è il giovane, sposato, bianco, abitante nei centri urbani, proveniente dagli Stati del Nord [da noi, senza modifiche geografiche, le Regioni, ndr], eterosessuale, protestante [da noi, ovviamente, cattolico], padre, con istruzione universitaria, un buon impiego, una bella carnagione, giusto peso e altezza e dedito a vari sport” (Goffman 1970, 198).
Sul peso della presenza degli stranieri, anche minori, in carcere ha peraltro qualche non secondaria influenza la percezione del fenomeno della delinquenza minorile, e più in generale della presenza straniera. Società e politica (o, per meglio specificare, certo associazionismo – tipicamente alcune organizzazioni dei commercianti e non pochi comitati cittadini – e talune forze politiche) promuovono volentieri mobilitazioni e proteste sul tema della sicurezza dei cittadini[3]. E a livello politico come giornalistico diventa pane quotidiano quella che viene chiamata strategia, ma è soprattutto una evocazione retorica, della tolleranza zero[4]: una idea della società, o per meglio dire della città (ché si tratta di fenomeno essenzialmente urbano, anche se non solo metropolitano), spesso tutta incentrata su una politica di “prevenzione situazionale”[5]. E non si tratta certo di una novità, ma piuttosto di una costante. Già Foucault notava come “la convinzione generalmente diffusa di un aumento incessante e pericoloso del crimine” sia all’origine, insieme ad altri fattori, della svolta nella concezione della pena e del carcere avvenuta nel XVIII secolo (Foucault 1976, 83-84).
Per parte nostra aggiungiamo solo che la storia stessa della parola crimen ci indica questa prospettiva: in origine significava ‘accusa’ – solo poi, ‘delitto’.
Bene, oggi sappiamo quanto la ‘percezione selettiva’ che caratterizza questo modo di concepire la società veda negli immigrati, negli stranieri, degli obiettivi di per sé prioritari: percezione cui implicitamente o esplicitamente si adegua l’operato tra l’altro delle forze di polizia, ad esempio privilegiando taluni obiettivi invece di altri.
I minori stranieri sono anche elementi di una catena migratoria atipica: ragazzini venuti il più delle volte senza famiglia e genitori. Ci preme sottolineare la vulnerabilità precipua di questi minori: a causa della necessità di produrre un reddito immediato (per sé, per la famiglia rimasta nel paese di origine, ed eventualmente per il racket che li ha presi ‘in carico’), della carenza di contesti e di luoghi di aggregazione, delle condizioni di vita e di alloggio precarie e marginali, della forte mobilità sul territorio alla ricerca di opportunità di guadagno, della irregolarità giuridica diffusa (Favaro 2000).
Va notato tuttavia che comincia a farsi presente una ‘normale’ seconda generazione di figli di immigrati in Italia, con famiglie quindi presenti sul territorio. E questi stranieri sono più simili agli italiani, anche dal punto di vista della devianza: commettono ‘reati di seconda generazione’, per così dire.
Per gli stranieri, in ogni caso, la permanenza negli Ipm non è una extrema ratio,
come dovrebbe essere (Campus, in questo stesso volume): per loro le misure alternative alla detenzione, le pene alternative, come la permanenza presso il domicilio della famiglia (che non c’è quasi mai) o in comunità, sono sostanzialmente residuali. Manca ancora una struttura di accoglienza esterna al carcere in grado di accoglierli, con strutture alloggiative adeguate, anche se un progetto in tal senso è in corso di realizzazione proprio in collegamento con il Beccaria. Si radicalizza dunque quell’andamento ‘a forbice’ delle presenze, che vede gli italiani in diminuzione e gli stranieri in aumento. Ma non solo essi entrano più facilmente nel circuito detentivo; essi tendono anche a rimanervi più a lungo.
La permanenza media è compresa in un periodo di 3-5 mesi. Non molto lunga, dunque, e questo è certamente un dato positivo, anche se vi sono singoli casi con detenzioni di lunghezza maggiore. Tuttavia questa permanenza relativamente breve può essere a sua volta un problema, rendendo difficile impostare lavori in profondità, necessariamente più di lungo periodo. Paradossalmente il fattore tempo rischia di incidere maggiormente, in negativo, sugli stranieri: l’auspicio di base anche degli operatori, e non solo dei ragazzi/e, è ovviamente che il periodo detentivo sia, in linea di massima, il più breve possibile (e qui notiamo già l’implicita ammissione di una sconfitta: la consapevolezza che esso non svolga, in definitiva, quella funzione educativa che la società, in teoria, gli affida). Ma d’altro canto, se questo stesso periodo è troppo breve e per giunta segmentato, è più difficile costruire un percorso (ri-)educativo, che, ulteriore paradosso, è in un certo senso più importante ancora per i minori stranieri, la cui famiglia o altri legami parentali, capaci di responsabilizzazione nei confronti del minore medesimo, sono assenti o comunque non coinvolgibili.
L’attenzione è comprensibilmente focalizzata sul destino personale del minore, il progetto da costruire intorno e a partire da lui: non a caso la terminologia usata all’interno della struttura, tra operatori ed educatori, ed anche con i ragazzi/e, parla di “contratto”, di “progetto”, e così via, in una logica marcatamente individuale e individualizzante (Ciavattini 2000). Non vi è quindi di necessità molto tempo e molta attenzione disponibili rispetto al background culturale: o meglio, questa attenzione deve essere sussunta nell’interazione personale, e in buona misura data per scontata, o utilizzata in maniera per così dire ‘tecnica’, strumentale, mirata.
Proprio per questo motivo risulta o risulterebbe di non poca utilità disporre di informazioni di base sui mondi culturali di provenienza, e sugli effetti anche relazionali che la diversità culturale può innescare, del resto ampiamente verificati nella pratica dagli stessi operatori, al fine di ottimizzare il rapporto e la possibilità di costruire un progetto/processo educativo. Questo perché il ragazzo non è solo un individuo, e in un certo senso non è primariamente questo. Specie in una situazione, e in una fascia d’età (anche se il discorso vale anche per gli adulti) in cui le logiche di gruppo, marcate culturalmente, operano come fattore integrativo spesso decisivo. E, per esempio, possono favorire l’integrazione nel gruppo, al limite a spese e ‘contro’ l’integrazione nella vita della struttura, che ha a sua volta una sua cultura, marcata dalla cultura della società in cui si colloca – e con cui gli ‘utenti’ non necessariamente si identificano. Ciò è valido in generale per le culture ‘devianti’: lo è in un certo senso a fortiori per le culture alloctone, che non hanno una storia che si incrocia con quella della struttura, e nemmeno con quella della società al cui servizio la struttura si colloca[6].
Il ‘peso’ stesso della struttura, la sua impostazione, è una variabile anche culturale importante. Oggi la situazione è certamente diversa da quella desumibile dal regolamento della “Casa dei giovani detenuti” di Parigi, redatto nel 1838, riportato da Foucault (1976, 8-9), in cui tutto si incentrava sul lavoro, con un po’ di preghiera e letture edificanti a mo’ di ‘distrazione’, e assenza totale di presa in considerazione dei corpi (il movimento, la ginnastica, e persino l’’ora d’aria’), quasi si trattasse di individui dis-incarnati. Non parliamo pertanto di manifestazioni ed espressioni latamente culturali, aspetto per il quale i giovani detenuti potevano essere considerati solo passivi: recettori, anzi, recipienti, pensati come vuoti e da riempire, peraltro con moderazione.
Tuttavia, anche se la descrizione foucaultiana non si attaglia più alla realtà attuale, si tratta pur sempre, anche oggi, di una istituzione restrittiva.
Dopo tutto carcere[7] significa recinto, in cui il prigioniero è prehensus, preso, recluso, cioè chiuso dentro, internato appunto: è questo il dis-crimine che lo separa dal ‘fuori’. E all’interno vi sono scopi eminentemente culturali, incorporati per così dire nella struttura, ben evidenziati dai nomi che essa di volta in volta assume: correzionale, riformatorio, e infine penitenziario, di non casuale derivazione religiosa.
In fondo anche il “progetto” che oggi viene fatto sui singoli casi non è, per certi aspetti, e senza nulla togliere alla sua importanza, che la proiezione sul futuro del “resoconto morale” (Foucault 1976, 274), cioè di fatto un giudizio sulla moralità, dunque sulla cultura, che si iscrive in un inconsapevole orizzonte ancora una volta religioso – almeno nel senso di re-ligare, ricostruire il legame sociale, che è uno dei significati, non il solo, della parola religione (e non solo nell’interpretazione durkheimiana). E il resoconto morale è a sua volta un equivalente delle odierne “cartelle cliniche”: esse stesse un giudizio su cui, come notava Goffman (1968), si scrivono solo gli aspetti che possono in qualche modo collocare il soggetto – ma meglio sarebbe dire in questo caso l’oggetto – in un universo interpretabile, che possa insomma ‘spiegarlo’ attraverso i sui sintomi e la storia della sua ‘malattia’. Anche qui, dopo tutto, l’etimologia ci viene in aiuto, ricordandoci che la malattia è anche il male, da cui bisogna essere liberati o, nel caso del percorso progettuale e responsabilizzante, liberarsi.
C come cultura
Nella definizione culturale non è certo possibile lasciarsi andare a spiegazioni ‘naturalistiche’, di tipo lombrosiano, in termini di frenologia o di fisiognomica, che sono per inciso tra gli elementi di base delle moderne teorie razziste[8]. E nemmeno accontentarsi della ‘statistica morale’ che sta agli albori della sociologia criminale ottocentesca, o della ‘biometria’ che è in un certo senso, dal punto di vista concettuale, l’evoluzione naturale delle fisiognomiche e del positivismo biologico e biologistico. Neanche, tuttavia, possiamo del tutto passarle sotto silenzio – ed è per questo che qui le ricordiamo, limitandoci peraltro a citarle – perché esse sono tutt’altro che assenti nella pratica quotidiana, nell’implicito, nell’inconsapevole, nell’inconscio delle relazioni con ‘devianti’ in più appartenenti ad altra cultura.
Occorre andare oltre esse, e contemporaneamente a monte e a valle di esse. Ed è quello che tenteremo di fare qui, incentrando la nostra attenzione su alcuni aspetti e dinamiche che hanno a che fare più con la cultura che con la ‘natura’ (essa stessa, peraltro, soggetta a definizione culturale).
Già nel 1841 J.-J. Marquet-Wasselot, rendendosi conto che “i condannati sono… un altro popolo nello stesso popolo” scriveva una Ethnographie des prisons (cit. in Foucault 1976, 277). Oggi questa relazione si è ulteriormente complicata, come del resto la società stessa in cui è inserita, e l’etnografia stessa scoprirebbe la presenza di ‘popoli’ diversi all’interno della medesima popolazione ‘condannata’, che danno letture diverse delle medesime situazioni (diverse da quella dell’istituzione stessa e dei suoi rappresentanti, e diverse anche tra loro). Mai come oggi dunque una ‘etnografia delle prigioni’, in un senso alquanto letterale, sembra necessaria. L’istituzione stessa mostra del resto di essersi accorta di questa impasse comunicativa, e per cercare di risolverla ha cominciato a fare ricorso a personale specialistico in funzione di “mediatore culturale”, come viene pertinentemente chiamato.
Oggi infatti le società occidentali, e non solo esse, si fanno sempre più plurali dal punto di vista etnico, culturale, e religioso. Un processo che, a partire soprattutto dall’ultimo quarto di secolo, ha cominciato a investire anche l’Italia, in maniera sempre più significativa, anche se pur sempre con percentuali che potremmo definire ‘sotto controllo’. Gruppi etnici prima collocati altrove hanno cominciato a radicarsi nel nostro paese, hanno fatto la loro apparizione lingue e costumi diversi, e la pluralizzazione progressiva della società, dal punto di vista culturale e religioso, comincia a dare un quadro inaspettatamente frastagliato e articolato (Allievi, Guizzardi e Prandi, 2001 e Garelli, Guizzardi e Pace, 2003), cominciando a innescare dinamiche di cambiamento ulteriori.
Una prima conseguenza di questo processo è riassumibile secondo la tesi seguente: la cultura di appartenenza, o meglio di provenienza, è un fattore integrativo di per sé, che contrasta anomia e perdita di sé nell’indifferenziato. Ma bisogna conoscerne le dinamiche. La prima modalità di conoscenza è ovviamente quella sperimentale: ci si trova in una situazione specifica, si ‘scoprono’ delle cose, si sperimenta per tentativi ed errori una possibile soluzione. E questo già succede. Ogni operatore, come ogni ragazzo, è portatore di una conoscenza empirica, fondata sulla propria esperienza, delle differenze, e delle reciproche modalità di relazione tra le medesime. Ma si può e si deve andare oltre questo primo livello, pur importante.
Proviamo a riprendere la nota affermazione di Becker (1987, 22): “la devianza non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di norme e di sanzioni nei confronti di un ‘colpevole’. Il deviante è una persona a cui questa etichetta è stata applicata con successo; un comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta come tale”.
Non ci interessa qui testare l’efficacia euristica della labelling theory, che, pur utile, non basta a spiegare il comportamento detto deviante[9]. Da sola, se ci si consente il gioco di parole plurilingue, è una “labilis theory”. Nel contesto che stiamo analizzando ci muoveremmo semmai nei termini classici della “definizione della situazione” e della conseguente self-fulfilling prophecy mertoniana (ad esempio: se percepisco l’altro come estraneo, questo porterà a un’estraneità effettiva tra gli attori coinvolti). Tuttavia è vero che la percezione reciproca passa frequentemente attraverso stereotipi costruiti culturalmente: le etichette, insomma, sono anche – anzi, sono essenzialmente – culturali. E giocano nei due sensi. Come pregiudizio della società nei confronti del diverso, dello straniero. E come pregiudizio del ‘diverso’ nei confronti della società. Un esempio noto, tra i molti possibili, è l’opinione implicita ma spesso anche esplicitata di alcunigruppi nomadi nei confronti dei gagé, cioè degli ‘altri’, in cui sono ricomprese le istituzioni sociali che gli ‘altri’ esprimono. Ma ne troviamo dei casi anche in altre culture, in cui l’in-group si definisce e si esprime in termini religiosi, e attraverso categorie religiose definisce anche l’alterità, l’out-group.
Si pensi, tanto per fare un esempio concernente il mondo islamico, cui più di frequente ci riferiremo in questa sede, all’idea, seriamente discussa all’interno di un gruppo di immigrati iraniani che abbiamo incontrato, studenti universitari e dunque anche colti (Allievi 1999), che pagare il biglietto dell’autobus non fosse lecito sul piano religioso perché così facendo si andava ad arricchire un sistema di infedeli e dunque esso stesso infedele (interpretazione per inciso contestata e quindi non accolta dal loro riferimento spirituale, sollecitato per iscritto, ciò che ha fatto cambiare i comportamenti del gruppo in questione). Ma anche, più legato a comportamenti che pure c’entrano con quanto accade al Beccaria e soprattutto col perché ci si entra, l’idea, promossa da qualcuno per fini evidentemente ‘interessati’, che spacciare agli ‘infedeli’ non sarebbe stato un crimine, un male: un volantino in arabo sulla questione, apparso in una città del nord Italia, è stato duramente commentato e contestato dal locale centro islamico, in un’opera di controllo sociale rimasta ignota alla città in questione… (ibidem). Il fatto non è importante in sé, proprio perché ‘unico’, in certa misura ‘estremo’: ma proprio per questo è interessante come ‘segnale’, come indicatore – come sintomo è forse dire troppo[10].
La trasgressione di tipo ‘ludico’, ‘espressivo’ (A. Colombo 1998, 77), il cui moto originario non è primariamente acquisitivo, rientra assai spesso in una definizione delle regole, e dunque della possibilità della loro trasgressione, di tipo culturale. Basti pensare che la troviamo con relativa frequenza, in gradazioni molto diverse, anche nei comportamenti di chi, semplicemente, compie un viaggio all’estero per motivi turistici, e ‘sente’, percepisce intimamente, per questo solo fatto, e per essere in maniera percepibile circondato da estranei, non foss’altro che dal punto di vista linguistico, che il controllo sociale viene meno: che, in certa misura, egli è libero da esso.
Dunque, anche avendo a che fare con l’individuo singolo, occorre sapere cogliere le implicazioni culturali del suo comportamento. Vale anche per il sociologo quanto asserito a proposito di etnopsicanalisi, e cioè che “anche un’osservazione superficiale mostra ben presto che possedere una cultura ed essere dotati di psichismo sono due fatti strettamente equivalenti, e che per lo psicopatologo, di conseguenza, la differenza culturale non è una deviazione ma un dato di fatto altrettanto ‘umano’, altrettanto imprescindibile quanto l’esistenza del cervello, del fegato e dei reni” (Nathan 1996, 40; il corsivo è nel testo). Semmai siamo cauti – da sociologi, abituati ad analizzare quanto la realtà anche culturale sia una ‘costruzione sociale’, dunque modificabile e di fatto in continua rielaborazione – nei confronti di ogni essenzializzazione (e anche folklorizzazione) delle culture, e di ogni ipostatizzazione delle identità, che pure ci pare di osservare in molta sociologia ‘etnica’, che ha scoperto di recente il peso del fattore etno-culturale, e non l’ha ancora sistemato al suo posto, che è uno dei posti, dei fattori determinanti, ma è lungi dall’essere il solo[11].
In questo senso potrebbe essere promettente ricorrere al concetto bergeriano di “struttura di plausibilità” (Berger 1984, 58 segg.), che per così dire ingloba la cultura nella sua base sociale e allo stesso tempo ne costituisce la solidità (relativa…): un concetto nel contempo più sociologicamente fondato e paradossalmente meno rigido di quello di cultura (e anche di quello schutziano di “provincie finite di significato”; Schütz 1979). Cultura è infatti un termine troppo frequentemente usato (e abusato), almeno implicitamente, per così dire, con la maiuscola, anche quando viene scritto in minuscolo: il suo significato ha spesso, anche se chi lo usa non se ne rende veramente conto, la coloritura di Kulturkampf, anche nel quotidiano, a livello micro.
In ogni caso occorre molta cautela – merce rara nell’attuale dibattito non solo sociologico e mediatico – nel maneggiare il concetto di cultura. Con esso infatti si rischia di porre troppa enfasi sulla specificità delle culture medesime, evidenziando, a causa di questo solo procedere epistemologico, per un ‘vizio metodologico’, per così dire, le diversità o le presunte ‘incompatibilità’[12] rispetto a quanto, nella vita degli individui, è invece continuità, e al limite rifiuto implicito di obbedire al principio di non contraddizione, che è costrutto concettuale, ma molto meno percezione vissuta. Le culture si modificano infatti nell’interazione con la società di inserimento – dire di accoglienza è probabilmente troppo. Occorre dunque una certa dose di attenzione diffidente nei confronti di ogni essenzialismo e ‘fissimo’ nell’interpretazione delle culture medesime: vale per l’islam, ma anche per altri universi culturali[13]. Il minimo della precauzione è di parlarne quanto meno al plurale: gli islam, le culture nomadi, ecc. (Allievi 2000c).
La nozione di confine anche culturale, la sua stessa esistenza, è del resto intrinsecamente ambigua. Confine è cum-finis. Ciò che separa e nel contempo abbiamo in comune con l’altro: “Con-fine vuol dire infatti contatto, punto in comune e le guardie di frontiera condividono il paesaggio anche se lo tengono diviso” (Cassano 1998, 56); ci può essere dunque “un confine in cui la prima parte della parola (con) vince sulla seconda (fine)” (ibidem). Dove c’è il confine c’è appunto anche chi lo transita: vale del resto anche per i confini ‘morali’, per esempio tra norma e devianza. Il confine stesso presuppone il fatto di attraversarlo, per così dire – con delle implicazioni direttamente legate al nostro tema: “C’è un’economia illecita che spesso collega le popolazioni di frontiera e indebolisce la sacralità dei confini rendendoli permeabili” (ibidem) [14].
Fatte tutte queste doverose e cautelative premesse, dobbiamo tuttavia constatare, innanzitutto in quanto evidenza empirica, che le culture non solo esistono, ma ‘pesano’, hanno conseguenze esaminabili ed evidenziabili nel quotidiano. Anche nel quotidiano di un’istituzione carceraria.
Sarebbe interessante già vedere quale è, come viene rappresentata e praticata, l’idea di pena in altre culture – sottolineando il significato anche religioso incorporato nelle rispettive tradizioni culturali, esattamente come nella ‘nostra’: i termini pena[15], giustizia, reato non sono certo religiosamente neutri, e si legano peraltro in modi diversi, nello stesso tempo distinguendosi da essi attraverso un lungo processo culturale e sociale, a concetti strettamente religiosi come quello di colpa, peccato, espiazione[16].
E probabilmente universi culturali diversi declinano diversamente i concetti qui richiamati, che si pongono in conflitto tra loro. Con l’aumentata presenza straniera aumenta, insomma, il grado di complessificazione del sistema.
Anche le percezioni del reato sono effettivamente diverse, o possono esserlo: “Gli immigrati italiani, che durante il proibizionismo continuarono a produrre vino per loro e per gli amici, agivano in accordo con la norma italiana, ma trasgredivano la legge del loro nuovo paese”, ricordava Becker (1987, 26). Ma questo è sostanzialmente ovvio, e non è questo il caso principale di conflitto tra culture che intendiamo sottolineare: anche perché molti di quegli stessi immigrati sapevano benissimo che comunque negli Stati Uniti si trattava (in quel momento…) di un reato. E probabilmente lo stesso vale per i nostri ‘reclusi’ di oggi, anche se può essere utile mettere a tema, e non dare per scontata, la ‘comprensibilità’ tanto del reato quanto della pena che ne segue, e la concatenazione tra i due concetti.
Occorre inoltre quanto meno ricordare che la pena è essa stessa un fattore culturale, e “essa stessa crea cultura”, come sottolinea Garland, ma come già aveva sostenuto, con maggiore radicalità, Foucault: “La nostra idea di fondo è che le pratiche, i discorsi e le istituzioni penali giocano un ruolo attivo nel processo generativo con cui significati, valori e, in ultima analisi, cultura condivisi sono prodotti e riprodotti dalla società. Tra l’altro, la pena è un’istituzione comunicativa e didattica che attraverso le sue pratiche e le sue dichiarazioni conferisce concretezza – iscrivendole nel contesto culturale – ad alcune categorie e distinzioni che noi usiamo per dare un senso al mondo” (Garland 1999, 294).
Le diverse culture interpretano diversamente il senso delle cose: “Per esempio, le mentalità scientifiche e razionali privilegiano esperienze di carattere oggettivo, imparziale, mentre alcune forme di pensiero religioso non negano l’importanza di esperienze emotive, stoiche o, a volte, perfino estatiche” (Garland 1999, 237); ciò può avere conseguenze inaspettate anche nel vissuto relativo alla pena, ben noti del resto a chi opera nelle carceri[17].
In un certo senso è dunque rischioso perdere o non acquisire la consapevolezza del ‘senso’ anche culturale della pena, che del resto non è collegato solo alla presenza di culture straniere[18]. C’è, esiste, una sua percezione estremamente variabile: citiamo per esempio la percezione, in taluni gruppi (nel caso in oggetto, di nomadi) dell’avventura penale come di una specie di “passaggio obbligato, una specie di malattia infantile, come la varicella: sarebbe meglio non prenderla, ma si sa che prima o poi capita” (Pozzar 1995).
Reinterpretando Weber alla luce del paradigma carcerario, Garland nota che “una volta diventato ‘professionista’, il personale carcerario tende a sostituire il giudizio morale sul reato commesso dai detenuti con un giudizio puramente formale, fondato su parametri valutativi di carattere burocratico, di modo che i detenuti vengono trattati non per i reati commessi, ma in virtù della loro condotta istituzionale” (p.225).
I confronti col passato rischiano sempre la sindrome del “una volta invece”, come noto più nostalgica che fondata: non è quasi mai vero che “si stava meglio quando di stava peggio”. Come notava Seneca: “Ti inganni, caro Lucilio, se consideri come un disordine proprio del nostro secolo la dissolutezza, l’abbandono dei sani principi morali, e gli altri vizi che ognuno suole attribuire al suo tempo. Questi sono i vizi degli uomini, non dei tempi”[19]. Dubitiamo quindi che in passato vi fosse invece nel personale penitenziario giudizio morale e non valutazione istituzionale. Se valutazione morale il personale fa, ieri come oggi, è spesso sul piano personale (per esempio sul registro della pietas, eventualmente, della misericordia, non del giudizio legale cui è comunque tenuto ad adeguarsi).
D’altro canto non ci dimentichiamo di quanto vi sia di positivo nel fatto che il personale non abbia a esprimere anch’esso un giudizio morale, già espresso implicitamente dalla società attraverso la comminazione della pena, che ‘incorpora’, per così dire, tale giudizio.
Ma è vero, o ci pare lo sia, che la presenza di più valutazioni morali fondate su culture diverse, potenzialmente e fattualmente discordanti, reintroduca in qualche modo con maggiore visibilità l’interrogativo morale nel cuore stesso dell’istituzione. Dell’appartenente alla medesima cultura (poiché l’istituzione assume inevitabilmente – anche se, sappiamo, a torto – che i cittadini di un medesimo stato abbiano una medesima o comunque sufficientemente omogenea cultura, magari anche fondata sulle medesime basi religiose) possiamo credere che capisca i motivi della condanna e la ratio sottesa alla pena comminata. Non altrettanto possiamo dire dell’appartenente a cultura altra, diversa, che spesso ci restituisce in maniera visibile (più visibile) la sua assoluta o relativa incomprensione della medesima, il suo ‘non capire’ o capire diversamente. E dunque, anche, il non reagire allo stesso modo, il non corrispondere alle attese, ivi comprese quelle rieducative. Occorre, in questi casi, un’attenzione raddoppiata, anche nello spiegare, nel ‘tradurre’ in categorie comprensibili non solo la vita all’interno dell’istituzione, ma gli scopi stessi della pena, e il senso dell’intero processo – che spesso, invero, sfugge in primo luogo a coloro che ne sono o ne dovrebbero essere gli attori consapevoli e pensanti.
“Paradossalmente, il fatto di non attribuire un ruolo specifico ai fattori morali (vale a dire, all’educazione morale) diviene uno dei motivi del crollo dei valori e delle istanze del paradigma riabilitativo, minato proprio da un esasperato tecnicismo” (Garland 1999, 227).
E’ leggibile anche come un problema di rapporto tra codici culturali l’impatto con la stessa autorità, seppure in questo caso ci si possa attendere una coerenza concettuale di base: perché, in fondo, come è stato notato con ovvia ma non banale tautologia, “quella autoritaria è la caratteristica più evidente dell’autorità” (Matza 1976, 253); ovunque essa sia e comunque si vesta essa è appunto vestita, porta una divisa e un non sempre solo metaforico bastone, impone sbarre – ha, insomma, un potere. E lo usa: anche, peraltro, per attribuire etichette. Non è un caso che, come hanno notato varie ricerche, gli stranieri siano ad esempio fermati più spesso, a prescindere dal loro coinvolgimento effettivo in comportamenti in qualche modo perseguibili. E che anche in fase giudicante si possa parlare nei loro confronti di “diritto diseguale” (Patrone 1995).
Problematiche interculturali di ordine generale
A monte del discorso che affronteremo ora sta una riflessione sulla definizione del concetto stesso di identità, personale e culturale, che i cambiamenti avvenuti nella ‘modernità radicalizzata’ o nella postmodernità, comunque la si voglia chiamare, hanno indotto. In particolare, ci sembra utile ricordare, senza soffermarci oltre, quel processo che ha portato la sociologia contemporanea a definire l’identità “non già come una ‘cosa’, come l’unità monolitica di un soggetto, ma come un sistema di relazioni e di rappresentazioni” (Melucci 1982), spostando la definizione dell’identità “dal contenuto al processo, dal dato al potenziale”, arrivando a dubitare del concetto stesso di identità e proponendo semmai quello più incerto e dubitativo, e comunque rimesso costantemente in discussione, legato alla “capacità degli individui di identificarsi e di differenziarsi dagli altri”, che potremmo definire come “un processo continuo di identizzazione”[20]. Questi paradigmi interpretativi dell’identità sono ulteriormente complicati e complessificati dalla pluralità dei modelli culturali in gioco, dalla loro com-presenza e concorrenzialità, che rende meno ovvie le strutture di plausibilità una volta sostanzialmente scontate. Tra l’altro, abbiamo il sospetto che queste dinamiche (inter-)culturali abbiano un certo peso e una certa influenza anche nel determinare quelle che Goffman chiamava “carriere morali”[21]; sia nell’evoluzione delle dinamiche, sia nella percezione delle medesime, a cominciare dalla percezione del “noi”, dell’in-group e dell’out-group.
Nel caso di modelli culturali diversi infatti giocano un ruolo importante anche i pregiudizi, che influenzano pesantemente i processi comunicativi. Il ‘nuovo pregiudizio’, che caratterizza le società plurali odierne, a differenza del vecchio, caratterizzato essenzialmente da sentimenti di minaccia, sarebbe connotato da tre caratteristiche fondamentali: difesa dei valori tradizionali del proprio gruppo; percezione esagerata delle differenze culturali; rifiuto di provare emozioni positive nei confronti dell’out-group. Atteggiamenti questi che non sempre né necessariamente escludono il riferimento a ideologie egualitarie e tolleranti, il che rende difficile collocarli con chiarezza in chiave politica (Brown 1997).
Compagno del pregiudizio è lo stereotipo, “un’inferenza tracciata a partire dall’assegnazione di una persona a una determinata categoria” (ibidem, 103); il che gli da’ quel caratteristico aspetto ‘meccanico’ che ci spiega come, non casualmente, la parola stereotipo derivi dal calco per la stampa e dunque la riproduzione di modelli e figure nei processi tipografici.
La costituzione di gruppi, l’appartenenza ai medesimi, la nascita e/o lo sviluppo del pregiudizio intergruppo, attraverso meccanismi di categorizzazione, di stereotipizzazione e di differenziazione, e infine la nascita di vere e proprie dinamiche razziste o razzializzanti, sono ingredienti comuni della relazione sociale, che vengono incrementati laddove si incrementano le diversità, comunque definite e soprattutto comunque percepite[22]. Come ha notato Elias, questo processo sociologicamente può essere definito, se si riesce a farlo uscire dal …pregiudizio ideologico con cui viene solitamente affrontato dal superficiale dibattito su xenofobia e razzismo, “come manifestazione normale delle convinzioni sociali di un gruppo stabilizzato che difende il suo status e il suo potere apparentemente minacciato da un attacco esterno”[23].
Ci incentriamo qui sul fattore culturale perché cruciale e sottovalutato, in queste dinamiche; con l’avvertenza che intendiamo la parola cultura in un senso che potremmo definire ‘tradizionale’, corroborato ampiamente dalla letteratura antropologica, oltre che dall’etimologia, ma un po’ lontano dalla sensibilità (almeno consapevole) odierna: un significato che incorpora e contiene, per così dire, tanto la cultura quanto il culto, come risulterà più chiaro quando parleremo specificamente di islam.
I rapporti inter-culturali all’interno della struttura carceraria possono essere analizzati su tre livelli diversi, che presuppongono differenti tipi di dinamiche e anche di iniziative possibili:
– Rapporti con la struttura. A questo livello possiamo trovare questioni di vario tipo. Ad esempio il caso di un agente che si lamenta perché dice che, parlando in arabo, i giovani detenuti lo prendono in giro: per cui non vuole che si parli o si canti in arabo in sua presenza. Oppure la reazione di alcuni operatori, che magari si rivolgono a un gruppo dicendo: “Voi marocchini”. O ancora affermazioni come: “Sei un animale: mangi con le mani”, rivolte a qualche ragazzo da parte dell’uno o dell’altro dei ‘rappresentanti’ della struttura.
– Rapporti con gli italiani in quanto ‘maggioranza culturale’[24]. Un esempio può essere quello delle ‘alleanze’ che i ragazzi zingari possono tentare con gli italiani, se siamo in presenza di una maggioranza o comunque di un gruppo dominante arabo, e non c’è quindi reciproca fiducia tra i gruppi. Tale strategia può manifestarsi in particolare rispetto agli italiani che rappresentano ‘l’ordine’, la struttura[25]. E’ chiaro che si tratta di un cambiamento culturale spettacolare per la struttura se pensiamo che, nelle parole di un operatore, “sette anni fa era l’opposto: c’erano magari tre marocchini e bisognava proteggerli dagli italiani”.
– Rapporti dei gruppi culturalmente ‘stranieri’ tra loro. Qui gli esempi possono essere diversi: il fatto che il gruppo degli zingari si senta umiliato dal gruppo arabo che riesce a porsi come gruppo dominante; oppure il gioco variabile delle alleanze: slavi con italiani e/o latinoamericani contro gli arabi, talvolta il contrario. Vi sono stati infatti sia episodi di risse tra slavi ed arabi, sia anche frequenti dinamiche arabi contro italiani, dove ci pare di poter intuire che gli italiani ‘interni’ e internati, dunque ugualmente reclusi, possano anche risultare, nel gioco delle percezioni, comunque come rappresentanti della cultura ‘esterna’, che è quella dominante, che reprime e costringe alla reclusione. Detto questo, ancora contro ogni essenzialismo culturale, ci preme sottolineare sia la non inesorabilità di tali dinamiche, sia il ruolo decisivo che gioca la capacità, la presenza e la professionalità degli operatori nel far innescare o meno questo tipo di conflitti, e nel guidarli in una o in un’altra delle direzioni possibili. Certamente vi è anche un effetto di ‘importazione’ all’interno della struttura di dinamiche culturali apprese nei quartieri di provenienza. Un operatore ce l’ha riassunto con l’intuibile espressione del “razzismo tra poveri”, verificabile nelle battute pronunciate contro il gruppo degli ‘altri’. Allo stesso modo si creano e si manifestano forme di tutela interna al gruppo, potremmo dire di ‘padrinaggio’, rispetto al più debole, perché è comunque del gruppo, dalle angherie di altri esterni al gruppo, per orgoglio di appartenenza e solidarietà di fondo.
Tutte e tre queste declinazioni possibili dei rapporti interculturali all’interno della struttura sono attraversate da una questione più generale, trasversale appunto: la questione, evidentemente cruciale, e ancora più immediatamente percepibile, della lingua, cui già abbiamo fatto cenno. La lingua è infatti il veicolo che incorpora la cultura, che, letteralmente, la trasporta: e che può mettere in comunicazione o, appunto, impedire la comunicazione medesima, se non è fatta da codici condivisibili, cioè se non è conosciuta sia dall’emittente che dal ricevente. Inoltre vi è il problema della sua ‘traduzione’, che può costituire anche una sorta di rendita di posizione: chi meglio domina la lingua dell’istituzione domina anche nel gruppo e tra i gruppi, potendo rapportarsi con gli operatori e l’istituzione, eventualmente anche a nome e per conto di altri. E’ chiaro che nella fase delicata della traduzione possono introdursi e di fatto si introducono sovente problemi e inceppamenti, che definirei come ‘incidenti ermeneutici’: che si manifestano in mancanza di adeguata traduzione, che non è solo linguistica, ma, ancora una volta, di codici culturali
Peraltro qualcuno sottolinea che più uno appare come ‘assimilato’ (orecchino, tuta, scarpe e tute da ginnastica ‘conformi’, della marca ‘giusta’, ecc.) e non ostenta le proprie diversità culturali (ad esempio quelle religiose, come la preghiera – rara, come tale, in pubblico – o altro), e più è accettato: le dinamiche in atto andrebbero dunque, da questo punto di vista, in direzione e in favore di una perdita di identità, come accade del resto anche nella società più ‘larga’. Che poi questo processo di ‘stemperamento’ delle identità sia davvero deducibile da questi segnali, e che comunque sia nell’interesse tanto dei soggetti coinvolti che della società medesima, è un altro discorso, che forse bisognerebbe qualche volta affrontare. Qui ci limitiamo a sottolineare che alcuni meccanismi, impropriamente considerati ‘sottoculturali’ (la moda, la musica, ecc.), finiscono per favorire, in genere, l’identificazione in un minimo comun denominatore culturale, piuttosto che l’esprimersi di forti dinamiche identitarie. Dall’esperienza in altri ambiti e in altri settori dobbiamo tuttavia anche rilevare che non necessariamente, a differenza di quanto si potrebbe considerare intuitivo, queste due dinamiche sono tra loro contrapposte e confliggenti.
E’ utile notare, inoltre, che vi sono anche elementi di pregiudizio, se non, come l’ha chiamato un’operatrice, di “razzismo interno”: interno appunto a quello che, agli occhi dell’osservatore esterno, verrebbe considerato un medesimo gruppo etnico, culturale e linguistico. Ci riferiamo per esempio al conflitto culturale, spesso esplicito, tra ragazzi marocchini di Casablanca, dunque della città, e Beni Mellal (una particolare filiera migratoria di provenienza rurale). Riassumiamo il racconto di alcune dinamiche: parlano male gli uni degli altri, vogliono stare in stanza tra loro; quelli di Casablanca accusano gli altri di puzzare, di non lavarsi (sono vestiti diversamente), di non spendere niente e di mandare tutto alle famiglie; gli altri accusano i ‘Casa’ di essere spendaccioni, di mettere l’orecchino, cioè di mettere in crisi i ruoli e le immagini legate al genere, che per alcuni, quanto a gravità, sembra quasi peggio che spacciare; i Casa spacciano ma anche consumano, secondo le accuse dei Beni Mellal, gli altri no. Vi è anche spesso diversità di rapporto con la religione e le pratiche tradizionali che da essa derivano: mangiare cibo halal, osservanza del digiuno di ramadan, desiderio di incontrare personale religioso, ecc. Naturalmente, ancora una volta, bisogna stare attenti ad essenzializzare il conflitto, che tuttavia può proporci alcuni istruttivi elementi di riflessione. E’ possibile peraltro che tale genere di conflitti, solo apparentemente ‘interni’, si acuirà maggiormente, in futuro, per esempio nella diversità di comportamenti e strutture culturali di riferimento tra giovani stranieri nati in Italia o comunque con la famiglia in Italia, dunque di seconda generazione, e giovani nati all’estero, spesso soli, con la famiglia nel paese d’origine, e un progetto migratorio non chiaro, ancora influenzato dal ‘mito del ritorno’ – pur se entrambi appartenenti al medesimo gruppo etno-linguistico, e condividendo la medesima cittadinanza. Per altri versi, naturalmente, è possibile individuare qui le forme di un classico conflitto tra cultura urbana e cultura rurale.
Non bisogna comunque commettere l’errore, frequente quando si osservano le dinamiche culturali, di esaurire in esse i comportamenti e i riferimenti anche identitari.
Anche in questa come in altre strutture vi è una fetta significativa di stranieri silenziosi, anche con gli educatori: “invisibili”, nelle parole di uno di essi, e che come tali rischiano persino di venire in certa misura ‘dimenticati’ – sorta di ‘maggioranza silenziosa’, in senso proprio. I silenziosi non rendono visibile la propria identità culturale, in qualche modo anzi cercano di occultarla, se non di negarla. In ogni caso non la ‘ostentano’, anche se l’espressione, che ci è capitato di ascoltare tra operatori, non è quasi mai in realtà rispondente alle dinamiche effettive: noi chiamiamo ostentazione ciò che spesso è semplice visibilizzazione, senza volontà appunto ostentatorie. Istruttivo in proposito è per esempio ricordare la polemica sull’hijab, il foulard islamico, innescatasi in Francia: in cui nella definizione burocratica vengono definiti “segni religiosi ostentatori”, il cui ingresso nelle aule va vietato, appunto, gli hijab (ma anche la kippah ebraica o un crocefisso al collo). Insomma, anche la definizione di ciò che è ‘ostentato’ e ciò che invece, visto dall’altra parte, è semplicemente ‘vissuto’ e ‘sentito’, è culturalmente marcata.
Una delle principali coordinate culturali è quella che attiene ai rapporti spazio/tempo e ai suoi significati. Anche qui, senza approfondire oltre, ci limitiamo a ricordare che vi sono significati culturali diversi di tempo, oltre che di valore del medesimo, di suo significato. E, incidentalmente, ricordiamo che anche psicologicamente i tempi sono diversi se c’è qualcuno ad aspettarti oppure no, se quel qualcuno è presente e vicino oppure no: e sappiamo che nel caso degli stranieri quel qualcuno non c’è, o è geograficamente lontano. Anche la percezione di essere o meno ‘dimenticati’ da quello che potremmo semplicemente chiamare ‘l’esterno’ è diversa, in questa prospettiva.
Chiudiamo questo paragrafo con una breve riflessione sul rapporto tra dinamiche culturali, di gruppo, e dinamiche individuali, che può aiutarci a cogliere la loro importanza specifica e anche la molteplicità dei loro rapporti.
Un operatore, durante un colloquio, osservava che “se si abbassa la progettualità individuale, si alzano le dinamiche di gruppo”. Naturalmente, il processo funziona anche all’inverso. Tuttavia ci preme far osservare che il problema concettuale che abbiamo, nell’interpretare il peso di queste dinamiche – che diventa anche un autentico rischio operativo se non sappiamo coglierne la ricchezza dei nessi – è quello di percepirle, in qualche modo, come alternative. Ci pare che, al contrario, saperle guidare significhi anche saper cogliere quanto il gruppo, la comunità, la cultura che questo esprime, possa servire all’individuo ed essere suo strumento, senza che l’individuo diventi succube della comunità culturale e del gruppo di appartenenza. Quanto, insomma, l’individuo ‘usi’ il gruppo e la cultura che esprime, entri ed esca da esso, anche in chiave rafforzativa del proprio esistere e porsi individualmente.
Non è perché sono separate dalle dinamiche individuali che le dinamiche di riproduzione culturale sono importanti: al contrario, è precisamente perché si integrano in esse, perché ne sono costitutivamente parte, che vanno affrontate, approfondite e comprese[26].
Un esempio di specificità culturale: la presenza arabo-islamica
Quella islamica è la cultura/culto per molti aspetti più importante da analizzare, in questa sede, anche se non la sola: sono ben presenti infatti, all’interno della struttura dell’Ipm, culture nomadi (diverse), sia nel maschile sia, in maniera pressoché dominante, nel femminile, e provenienze etniche che vanno dagli albanesi, ad altri gruppi dell’est europeo, ai latinoamericani, ecc.
Qui tra l’altro usiamo il termine, volutamente non troppo definitorio, di arabo-islamica, a significare la preponderanza, nella fattispecie, dell’elemento arabo (peraltro anch’esso plurale al suo interno), ma ben sapendo che quello islamico può prescindere da esso[27].
Essa è importante per motivi numerici, innanzitutto, essendo quella più presente anche nell’utenza dell’Ipm, come del resto tra gli immigrati in generale, tra i quali costituisce la seconda religione (Allievi 2003a). Inoltre, essa è transnazionale, non identificabile con una sola origine o paese di provenienza, anche se il suo impatto, per motivi linguistico-religiosi (l’essere l’arabo lingua della rivelazione coranica e della preghiera, dunque lingua sacra dell’islam), è più incisivo tra i provenienti da paesi arabi. In principio, tuttavia, essa dovrebbe coinvolgere, con ampie peculiarità in entrambi i casi, e notevoli differenze rispetto per esempio ai maghrebini, a loro volta diversi al loro interno, anche una parte degli albanesi e della stessa presenza nomade.
Naturalmente, non intendiamo cadere né far cadere nell’errore, peraltro diffuso ma grossolano, di attribuire una religione di appartenenza a degli individui solo in quanto provenienti da tale o talaltro paese. Le forme di identificazione o di mancata identificazione con l’aspetto religioso sono tante quante quelle riscontrabili tra gli autoctoni, e in un certo senso tante quanti sono gli individui con cui si ha a che fare. Tale aspetto è del resto ancora più evidente in un contesto di devianza: e considerare, poniamo, i maghrebini, tout court, come musulmani, sarebbe come considerare gli italiani, solo per il fatto di essere nati tali, come cattolici. Per quanto eventualmente anche battezzati, non è detto che la socializzazione religiosa sia andata molto più in là, né questo aspetto ha necessariamente significative influenze sulle scelte di vita.
Tuttavia questo aspetto, anche quando non immediatamente visibile, non va nemmeno del tutto trascurato, come possono avere tendenza a fare, per esempio, operatori personalmente estranei a riferimenti di tipo religioso, che possono essere indotti a sottovalutarli negli altri (come del resto i ‘religiosi’ a sopravvalutarli). Anche e soprattutto perché esso, anche quando non immediatamente visibile sul piano religioso, si traduce sul piano culturale (e abbiamo già indicato il legame ‘d’origine’ tra questi due aspetti, tra cultura e religione, tra cultura e culto) in numerose e significative conseguenze sul piano squisitamente pratico.
Inoltre l’aspetto religioso, pur non in principio centrale nell’istituzione Ipm, non è in essa nemmeno estraneo, ed anzi possiamo dire che, così come nelle realtà carcerarie e del resto in molte altre realtà sociali, ne fa parte organicamente, con un ruolo specifico riconosciuto come tale. Basti pensare che vi sono momenti religiosi specifici nel calendario dell’istituzione (la Messa, le festività, la possibilità di colloqui) [28]. Inoltre l’istituzione carceraria può avere un duplice interesse a intervenire nell’ambito religioso: da un lato per permettere che ognuno possa rispettare e vedere rispettate le proprie credenze (nonché, in certa misura, per ‘classificare’ i detenuti); e dall’altro, per prevenire ed evitare l’insorgere di eventuali conflitti (Ascaride e Meyer 1990, 295). Infine, un aspetto non del tutto irrilevante della presenza del ‘religioso’ all’interno della vita della struttura è dato dalle attività del privato-sociale, nella fattispecie appunto a carattere religioso, che può consentirsi libertà di azione e di collegamento con l’esterno estranee e impensabili per l’istituzione stessa, e che possono essere da questa opportunamente ‘sfruttate’ e comunque valorizzate.
Non parliamo qui delle incomprensioni più generali e della storia dei pre-giudizi reciproci tra mondo islamico e occidente. Rimane un non detto che bisognerà tenere presente: per esempio nei sottili pregiudizi, che possono essere presenti nel personale come fuori, nella società, nei confronti degli arabi, ma anche il contrario. Ci limitiamo qui tuttavia a citare per punti taluni aspetti rilevanti.
La cultura si esprime nel quotidiano, nel concreto, a partire dai comportamenti più banali e ripetitivi: in cucina, prima ancora che sui libri. Non a caso del resto il sapere condivide l’etimologia con il latino sàpere, da cui anche sapore, sapido, ecc. (si può dire, di qualcuno, che non sa niente, ma sarebbe forse peggio dire che non sa di niente). Cominciamo a guardare lì, allora.
Come noto, nel caso dell’islam si pone il problema di una dieta specifica: una dieta che non dovrebbe contenere né carne di maiale (e derivati), né alcool, e possibilmente, anche se questo, causa forza maggiore, non è un vincolo stretto e cogente, dovrebbe consentire il consumo di carne halal, cioè lecita, in quanto macellata ‘islamicamente’[29].
In pratica dunque il problema principale è la carne di maiale – sull’alcool il discorso è già diverso, e non poche ricerche empiriche, e osservazioni dirette, hanno già notato che, anche nei paesi d’origine, l’interdetto sugli alcolici sia più facilmente superato rispetto a quello sulla carne di maiale.
Nel caso delle istituzioni si sconta il peso di alcune rigidezze strutturali: la mancanza di scelta tra menu alternativi (è sufficiente per esempio che al posto del prosciutto sia disponibile anche il formaggio) è uno dei problemi possibili. Un altro problema strutturale è legato agli appalti per forniture esterne dei pasti, alla gestione del servizio ristoro da parte di cooperative o altri tipi di aziende quasi mai edotti dei problemi specifici legati a questo tipo di alimentazione, e quasi mai informati dei medesimi.
Da un precedente esperienza nel carcere di S. Vittore ci è capitato di notare come molti detenuti rifiutassero il carrello con i pasti caldi perché, spesso, il condimento della pasta conteneva derivati del maiale (lardo, pancetta, ecc., come è comune nelle ricette del nostro paese). E’ stato sufficiente suggerire quanto meno di tenere separato il condimento dalla pasta per consentire almeno il consumo di quest’ultima. Ugualmente, come del resto a S. Vittore, si può porre il problema degli attrezzi da cucina utilizzati: sappiamo che in carcere alcuni addetti alla cucina, musulmani, sono attenti per esempio a non utilizzare i medesimi taglieri, piatti o posate, per il maiale e per altri cibi (fatto salvo almeno un previo lavaggio dei medesimi).
Poi, soggettivamente, può succedere e di fatto succede che i singoli detenuti possano decidere di consumare anche carne di maiale e derivati. Ci pare che in un caso come nell’altro il principio di fondo, del resto facilmente gestibile e non tecnicamente problematico, dovrebbe essere quello di consentire la libertà di scelta all’individuo, quale che essa sia, senza spingere né in una direzione né nell’altra.
Collegato al precedente vi è il problema del rispetto del digiuno di ramadan, uno dei cinque pilastri fondamentali dell’islam.
Esso presuppone l’astinenza da cibo e bevande, nonché dal fumo (e da rapporti sessuali, problema meno presente, giocoforza, nella struttura Ipm), dall’alba al tramonto durante il mese che porta appunto il nome di ramadan.
Dal punto di vista della gestione esso presuppone una diversa elasticità degli orari, con la possibilità di mangiare prima dell’alba e, soprattutto, di ‘rompere il digiuno’ allo scoccare del tramonto[30].
Anche questo ‘pilastro’ non viene rispettato da tutti, anche se i tassi di partecipazione al medesimo sono mediamente molto più alti che non quelli di partecipazione a momenti più specificamente religiosi (vari sondaggi in diversi paesi europei parlano di percentuali di rispetto del digiuno di ramadan variabili, in media, tra il sessanta e il settantacinque per cento della popolazione, per quanto riguarda il complesso della popolazione musulmana). Parlando di giovani, e in situazione comunque ‘particolare’, le percentuali possono essere molto diverse, e inevitabilmente più basse. Tuttavia si assiste a un desiderio di rispetto del digiuno che forse sarebbe più elevato se le condizioni lo consentissero, quasi con una certa ‘normalità’. Sappiamo del resto che la struttura dell’Ipm già si è attrezzata in tal senso, come pure nel senso del rispetto della festa della rottura del digiuno, l’id al-fitr, una delle due principali feste dell’islam, insieme all’id al-kabir (la festa grande) o festa del sacrificio di Abramo.
In situazione di ‘restrizione’ è facile che anche taluni che cominciano il digiuno, non supportati da un ‘intorno’ che ne tenga conto, rinuncino o non riescano a portarlo a termine: la presenza della necessaria elasticità di orari e magari della possibilità di disporre dei tradizionali cibi associati a questo momento (datteri, yoghurt, ecc.) può favorire la partecipazione – che, ancora una volta, deve essere vissuta come una possibilità, non come un obbligo, di fronte al quale l’istituzione dovrebbe porsi in maniera neutra, favorendone l’espletamento ma non necessariamente incentivandolo, o ‘spingendo’, come spesso accade in forme sottili e indirette, nell’una o nell’altra direzione.
Peraltro, il periodo di ramadan è di solito associato al fatto di vivere ‘momenti forti’ dal punto di vista religioso (incontri, momenti di preghiera, la cosiddetta ‘notte del destino’, una maggiore solennità nella stessa celebrazione della preghiera del venerdì) che, ad esempio nelle moschee, vedono un aumento considerevole della partecipazione.
Visto che si è toccato il problema, vi è ovviamente la questione della celebrazione collettiva della preghiera del venerdì: anche il carcere di S. Vittore, per esempio, si è attrezzato, almeno nel quinto raggio e nel femminile, con un piccolo locale ad uso temporaneo di sala di preghiera e la possibilità di avere un imam, o comunque una guida della preghiera, di provenienza ‘esterna’, a disposizione. Ricordiamo incidentalmente che la preghiera islamica presuppone lo svolgimento previo di specifiche abluzioni, e dunque la disponibilità di acqua corrente o comunque la possibilità di accesso ad un locale bagno e/o docce[31].
Sappiamo che da questo punto di vista vi è una scarsa iniziativa, dovuta anche a povertà del livello organizzativo, da parte delle comunità islamiche medesime, che non dispongono di personale che possa garantire stabilmente il servizio in occasione della preghiera del venerdì, e che talvolta, come ci è capitato di constatare in alcune realtà italiane, si pongono in situazione giudicante, diremmo di rifiuto di rapporto con chi delinque: una questione che dovrebbe risolversi con il tempo e la ‘normalizzazione’ della situazione, e una più stabile e radicata presenza, e anche un più attivo livello di organizzazione e di capacità di mobilitazione. Talvolta si fa presente anche un eccesso di cautela da parte delle autorità di sorveglianza, che temono, in situazione di non conoscenza della lingua, qualche forma di ‘contagio’ islamista e radicale (il timore dell’integralismo, ecc.).
Notiamo per inciso che già in passato, in un caso specifico, di un ragazzo molto praticante, che compiva la preghiera le canoniche cinque volte al giorno, accusato e detenuto presso il Beccaria per dieci mesi, e in seguito assolto per non aver commesso il fatto, era stato concesso un permesso speciale di uscita il venerdì proprio allo scopo di frequentare la moschea in occasione della preghiera congregazionale, che, come noto, si svolge nel giorno di venerdì intorno all’una circa, a seconda dei periodi. Dai racconti che ci sono stati fatti tale persona, pur caso abbastanza unico di rispetto esplicito e continuativo delle obbligazioni islamiche, ivi compresa la lettura del Corano, aveva costituito un elemento di riferimento e di rispetto anche per chi tali pratiche non riteneva di seguire.
Un caso ordinario di riferimento a categorie religiose è quello contenuto nella comunicazione verbale quotidiana, che spesso in lingua araba contiene riferimenti religiosi, come inshallah (l’equivalente del nostro “se Dio vuole” o “a Dio piacendo”, come interiezione e risposta relativa a qualsiasi affermazione posta al futuro, foss’anche solo un generico “ci vediamo più tardi”) o al-hamdulillah (letteralmente equivalente del nostro “sia lode a Dio”, ma come formula di conversazione, nel senso di partecipazione in positivo: qualcosa come il nostro “meno male” o “per fortuna” o anche solo “bene!”).
Alcuni operatori hanno sottolineato il ruolo benefico e di rinfrancamento delle benedizioni (“Che Allah ti benedica” e simili) ricevute anche solo durante una telefonata con i genitori, magari ignari che il figlio in Italia sia detenuto.
Un caso atipico di manifestazione religiosa è quello della cosiddetta “non Messa” celebrata all’interno del Beccaria, il sabato pomeriggio, da don Gino Rigoldi: si tratta infatti di una celebrazione eucaristica cattolica, a cui partecipano anche alcuni membri del personale, che nella sua struttura cerca tuttavia di tenere conto, in particolare in alcune preghiere e durante la predica, del fatto che molti dei presenti cattolici non sono, e nemmeno cristiani latu senso.
Essa costituisce momento di distrazione dalla routine, occasione di incontro, e soprattutto è la sola occasione di mixité sessuale, in cui universo maschile e femminile, rigidamente separati durante il resto della settimana, occasione solo di ‘sguardi’ lontani, entrano in contatto, almeno attraverso la com-presenza nel medesimo locale, seppure in settori diversi e separati (ma che, particolare importante, essendo posti a ferro di cavallo, si ‘guardano’).
In occasione della nostra partecipazione alla medesima erano presenti nove ragazze su quindici al momento detenute, e una dozzina di ragazzi su circa sessanta, tra cui diversi musulmani. E’ tra di essi che abbiamo notato un interessante e per certi versi sorprendente tentativo di ‘adattamento’ di un rituale che non conoscono e probabilmente non prendono eccessivamente sul serio, ma che può costituire anche un’occasione di ‘riappropriazione identitaria’. Mettendomi in mezzo ad essi ho infatti potuto notare che, laddove il rituale prevedeva un “ascoltaci o Signore”, loro dicevano “Allah hu-akbar”, ovvero “Iddio è grande”: espressione certo pertinente e dopo tutto congrua, ma che essendo un forte e familiare richiamo per ogni musulmano (si ripete numerose volte tanto nell’appello alla preghiera, quanto nella preghiera stessa, quanto appunto come rivendicazione/identificazione anche in occasioni di contrapposizione anche politica nei confronti di un ambiente non islamico), ha qui chiaramente una funzione di riconoscimento interno, tra coloro che lo dicono, e, diremmo, anche parzialmente contrappositiva rispetto alla cerimonia cui stanno partecipando, e cui si sentono culturalmente e religiosamente estranei. E’ interessante notare come lo stesso celebrante non fosse al corrente e non avesse percepito questo aspetto, del resto, dal punto di vista pratico, non facilmente udibile se non dall’interno stesso del gruppo.
Un aspetto non direttamente religioso, e più di derivazione culturale generale, può essere quello provocato dalla diversa attribuzione e definizione dei ruoli, in particolare maschili e femminili, in culture diverse, e loro conseguente ‘autorevolezza’. Un problema che non è specifico della situazione carceraria, e che può portare a quello che per alcuni può essere un rovesciamento della subordinazione (percepita-come-)‘naturale’ della donna rispetto all’uomo (un aspetto che, lo sottolineiamo, anche in occidente ha più a che fare con categorie come il livello di istruzione o la provenienza da aree urbane o rurali, che non la religione in senso stretto, anche se può essere da questa rafforzato culturalmente o trovare in essa una forma di legittimazione). Ci riferiamo in particolare alla situazione di una operatrice (educatrice o agente) donna, in posizione quindi di potere sui detenuti maschi.
Tale aspetto è occasionalmente verificabile per esempio nel mondo della scuola (Favaro 2000), anche se è lungi dal costituire una categoria universalmente condivisa, e inoltre è una di quelle più soggette a cambiamento nel corso del tempo e nel persistere di situazioni di interazione caratterizzate da questo tipo di rapporti di genere.
Notiamo che, paradossalmente, tale fattore potrebbe incidere meno in una situazione, come quella carceraria, in cui, molto più che nell’utenza dei servizi sociali o nella scuola, vi è una relazione di potere comunque più caratterizzata e incisiva, e in cui la posta in gioco è maggiore, trattandosi della libertà personale stessa, e non solo di una sua modalità esplicativa.
Dire relazioni religiosamente caratterizzata vuol dire anche porre il problema delle relazioni interreligiose. Diventerebbe interessante per esempio porsi il problema di come sia percepito il personale religioso. Nel caso specifico del Beccaria tuttavia tale aspetto è posto in maniera atipica, trattandosi, nel caso di don Rigoldi, di un ‘personaggio’, in tutti i sensi, ivi compreso quello ‘televisivo’, noto e influente, oltre che personalmente attivo e disponibile nei confronti dei minori con cui si pone in relazione, a prescindere dalla religione professata (ospita per esempio giovani marocchini e albanesi, tra gli altri, in ‘uscita’), ciò che ne fa appunto un personaggio rispettato e un riferimento anche strumentalmente utile per le opportunità che è in grado di offrire, ciò che non può essere considerato un caso comune.
Alcune sommesse proposte
Sottolineiamo innanzitutto il paradosso per cui una struttura come l’Ipm abbia finito per essere, a parte il gruppo dei pari e alcuni luoghi di accoglienza nati tuttavia in coincidenza con i fenomeni immigratori e al fine di gestirli (ciò che non è vero per l’Ipm), quasi il solo luogo nella società (e, tra l’altro, un luogo ‘pubblico’, dal pubblico gestito), in cui gli stranieri sono la maggioranza, e le culture ‘altre’ costituiscono le culture numericamente maggioritarie, mentre la cultura autoctona dominante ha il potere ma si presenta come numericamente minoritaria.
Ci pare che non sia quindi inutile tentare di indicare quelle che consideriamo tuttavia solo alcune sommesse proposte di ordine pratico, né necessariamente generali né risolutive dei possibili conflitti culturali che in una situazione come quella descritta si possono manifestare.
Non tocca a una sede come questa mettere in questione quello che potremmo chiamare il ‘modello’, né quello carcerario, né quello societario, anche se ce ne verrebbe la voglia, e manteniamo il diritto dell’osservatore di denunciarne le incongruenze. Qui però abbiamo fatto la scelta di una osservazione dall’interno del modello stesso, così come è, e non come eventualmente dovrebbe essere o vorremmo che fosse. Ci sembrava quindi utile tentare di proporre quanto, in qualche modo, emerge dalla nostra analisi e dal confronto con chi nella struttura è operativo, limitandoci tuttavia, appunto, a dei suggerimenti interni al modello. In attesa, magari, di poterlo cambiare.
Il minorile tra l’altro è anche il luogo dove è possibile sperimentare forme alternative di pena impensabili e impensate tra gli adulti, ma che potrebbero ad essi essere trasmesse, oggi che, a due secoli circa dalla sua sistematizzazione e universalizzazione (il passaggio ad una “penalità di detenzione” realizzatosi tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo; cf. Foucault, 1976, 251), si comincia a riflettere sulla sua efficacia e, seppure in sordina (e con le loro flebili voci assai contrastati dalla canea securitaria che prevale in politica e sui media, cioè nelle forme attuali della agorà neo-democratica), si fanno sentire nuovamente argomenti abolizionisti della pena così come attualmente concepita.
Ma anche senza andare così in là, il minorile è tuttavia almeno il luogo dove è possibile sperimentare, con relativa maggiore libertà e, in proporzione, maggiore disponibilità di mezzi, e innanzitutto di risorse umane, forme diverse di rapporto tra struttura e ‘utente’ (utilizziamo questa parola, presente in documenti interni quando ci si riferisce ai minori presenti, pur consapevoli della dimensione largamente volontarista che tale terminologia presuppone, essendo l’utente, in altri ambiti, persona libera che liberamente sceglie di avvalersi o meno di un servizio). Quanto meno, è possibile qui fare maggiore spazio – e diventa anzi indispensabile nella misura in cui l’utenza tende a diventare quasi monopolisticamente ‘straniera’ – agli aspetti culturali di cui abbiamo finora discusso.
Può sembrare banale cominciare evocando la questione della formazione. Tuttavia essa è – e sarà sempre di più, in un contesto culturalmente sempre più complesso – centrale.
Inserire elementi di formazione alle culture altre presenti nelle diverse strutture, e alle specificità delle dinamiche interculturali in quanto tali, in momenti di formazione che possono porsi come episodici ed essere costruiti ad hoc, secondo le situazioni e i bisogni, ma anche nei programmi delle scuole di formazione del personale, ci sembra dunque fondamentale; già vi sono del resto esperienze in tal senso, che hanno eventualmente solo bisogno di essere implementate e meglio mirate[32].
Sarebbe utile, peraltro, che di tali opportunità formative potesse fruire tutto il personale: dirigenti, operatori, educatori ministeriali, educatori comunali, insegnanti di scuola elementare e media, formatori di istituti esterni, agenti del maschile e del femminile, assistenti sociali, volontari, personale delle comunità esterne, figure specialistiche interne (medico, psichiatra, ecc.), e magari, se non sapessimo che si tratta di wishful thinking, anche figure specialistiche esterne che hanno a che fare con il minore straniero (si pensi anche solo ai giudici).
Una esigenza diversa riguarda i corsi e i percorsi di formazione attivabili ad uso dei reclusi stessi: da quelli di lingua, e intendiamo della lingua d’origine o, diciamo, nella pratica, di entrambe (su cui ci sono state esperienze previe all’interno della struttura stessa del Beccaria, quando ancora di presenza straniera ve ne era poca), ciò che può costituire un modo di alfabetizzare ma anche di motivare a una realtà estranea, a quelli relativi al recupero della propria cultura, che può costituire in un certo senso un elemento di paradossalità laddove svolto da autoctoni.
Per tutti comunque, utenti e operatori, si può parlare di una sorta di co-formazione alla gestione del conflitto culturale.
Qualcosa potrebbe forse essere fatto anche in termini di formazione atta a porsi come contraltare alla diffusione delle culture del razzismo (reciproco). La società infatti ‘entra’ nel carcere con i suoi pregiudizi, e semmai li rafforza. Facciamo un esempio: la percezione diffusa che gli immigrati siano tutti delinquenti è evidentemente più plausibile laddove tutti gli immigrati presenti sono delinquenti, o sono così percepiti ad esempio dal personale educativo o di custodia, nonché dalla società ‘esterna’. Il meccanismo di rinforzo circolare del pregiudizio è in questo caso evidente, e si muove nei due sensi: dalla società verso la struttura, ma anche dalla struttura verso la società.
Tale meccanismo tuttavia non funziona solo come circolo vizioso, ma può essere vissuto anche come circolo virtuoso da parte degli stessi immigrati. Non è infatti l’ultimo dei paradossi dell’istituzione carceraria quello di essere, nella sua struttura, meno razzista (almeno nel senso del razzismo istituzionale) del ‘fuori’: spesso infatti gli stranieri sono inseriti alla pari degli italiani nei programmi di formazione-lavoro o di studio, il trattamento sanitario è uguale, e c’è magari persino attenzione per le proprie specificità culturali. Tutte cose non necessariamente facilmente verificabili in altri contesti istituzionali, per non parlare della realtà sociale.
Un aspetto specifico di formazione per l’utenza può essere quella fornita da personale specialistico (mediatori culturali, personale di supporto psicologico, medici o insegnanti della medesima provenienza ‘etno-culturale’) nell’ambito della prevenzione dell’educazione alla salute, della prevenzione anti-droga o di pianificazione familiare o altro, eventualmente in lingua[33].
Del resto vi sono situazioni in cui occorre o sarebbe grandemente opportuna una mediazione specialistica anche dal punto di vista culturale, sia in termini preventivi-formativi che curativi: e in un certo senso l’una richiama l’altra o può servire da ponte per l’altra, anche se in questo caso il discorso passa dal campo della formazione a quello della presa in carico individuale[34].
Ci limitiamo quindi a sottolineare l’utilità della presenza di personale con conoscenza linguistica corrispondente a quelle presenti nella struttura, che è peraltro figura diversa da quella del mediatore culturale. La presenza straniera, e addirittura di una maggioranza straniera, all’interno della struttura, non è più un fatto di emergenza, e non è una fase transitoria, o comunque se di fase transitoria si tratta essa non sarà breve: questa presenza è diventata la sua normalità, la sua fisiologia. E’ dunque da porre come traguardo in una prospettiva di medio periodo la presenza di una percentuale non irrisoria di presenze legate a quelle medesime culture anche all’interno del personale, anche se siamo ben consapevoli che questo può indurre delle dinamiche conflittuali anche ‘sindacali’ interne al personale stesso (il rischio, da parte degli operatori italiani è, per capirci, di derive del tipo “ci portano via il lavoro”). Si tratta di una tendenza del resto ampiamente verificabile in tutta Europa, laddove sono in questione servizi rivolti al pubblico, nella misura in cui il pubblico stesso si fa multietnico, plurale (dalle scuole agli ospedali ai servizi di stato civile).
Idealmente anche le prossime, future case di accoglienza dovrebbero essere strutturate in questo senso. Naturalmente, ancora una volta, stiamo pensando al medio/lungo periodo, non al breve/brevissimo che è dopo tutto ancora l’orizzonte attuale di riferimento.
Un aspetto importante riveste il rapporto con il proprio ‘esterno’ culturale, ovvero con ciò che, all’esterno dell’istituzione, rappresenta un legame con la propria cultura d’origine. Di questo aspetto un elemento importante può essere il rapporto continuativo con visitatori religiosi e imam, o comunque di personale religiosamente autorevole, all’interno della struttura.
L’importanza di questo aspetto è tutt’altro che nuova, anche a fini regolativi e per così dire di controllo sociale. Foucault cita il regolamento della prigione di Walnut Street, a Filadelfia, una innovativa istituzione sotto influenza quacchera fondata nel 1790: “il clero delle diverse obbedienze che si trovano nella città e nei sobborghi, assicura il servizio una volta alla settimana, e ogni altra persona edificante può avere in ogni momento libero accesso ai prigionieri” (cit. in Foucault 1976, 137).
In concreto, nel caso dell’islam, si tratta di favorire l’accesso di questo personale, non sempre facilmente reperibile né sempre necessariamente disponibile, per lo meno il venerdì e in occasione delle festività religiose. Alcune occasionali visite nella struttura, sia nel maschile che nel femminile, non sono riuscite a costituire un’esperienza stabile; mentre in alcune realtà europee abbiamo la possibilità di accesso di personale ad hoc o addirittura la nomina di personale permanente, almeno con incarichi di rilievo nazionale.
Va purtuttavia sottolineato che anche altrove tale presenza è per certi aspetti più visibile e forse più efficace nell’universo carcerario adulto che all’interno del minorile (come nel carcere della Baumette a Marsiglia, cf. Ascaride e Meyer 1990, 296), anche se un singolo caso non può essere presentato come una tendenza (si veda per una più ampia riflessione Khosrokhavar, 2004).
Peraltro è possibile valorizzare la specificità dell’islam come ‘religione senza clero’ al fine di responsabilizzare eventuali disponibilità interne alla struttura, che possono esse, in certa misura, garantire una continuità non ottenibile altrimenti. A questo fine diventa evidentemente necessaria la disponibilità di un luogo di riunione in occasione della preghiera[35], che può essere anche sede di attività formative collegate, e di un momento esplicitamente previsto a questo fine all’interno del calendario settimanale.
Sulla questione del cibo halal e del digiuno di ramadan si è già detto in altra parte, e non è necessario aggiungere raccomandazioni ulteriori.
Un aspetto di presenza culturale è anche quello dato dalla possibilità di accesso a letteratura, in senso lato, anche ma non solo religiosa, in lingua d’origine: giornali, libri (inclusi Corani e letteratura religiosa), ma anche video, ecc.
Ci limitiamo a segnalare le possibilità di collaborazione anche con volontari esterni, che possono essere membri delle rispettive comunità etniche e religiose di riferimento o associazioni d’altro tipo[36]. Una biblioteca plurale anche dal punto di vista linguistico e cultural-religioso può essere un obiettivo raggiungibile con relativa facilità, così come l’accesso, anche regolamentato, a video e programmi televisivi via satellite dei paesi d’origine, almeno in caso di eventi particolari.
Un altro tipo di rapporto virtuoso con l’esterno, nelle sue declinazioni culturali, può essere quello del ruolo possibile, in prospettiva, delle famiglie immigrate, nel fungere da nuclei di appoggio per l’affido temporaneo degli ‘ospiti’ del Beccaria privi di nucleo familiare in Italia. Un esperimento in tal senso, all’interno di un progetto riconosciuto dal competente ministero, è partito a Torino (Giani 2000), e vi è del resto una richiesta in tal senso da parte delle comunità islamiche (Piccardo 2000). Restano comunque una serie di importanti problemi pratici da risolvere, non ultimo l’esiguità del numero e talvolta l’impreparazione delle famiglie in questione, nonché le difficoltà che esse stesse devono affrontare al proprio interno[37].
Il coinvolgimento delle comunità religiose e culturali di provenienza è del resto una scuola di ‘cittadinizzazione’ per entrambi gli interlocutori, e forse più per le comunità stesse, che imparano a farsi carico di questi problemi e a responsabilizzarsi nella misura del possibile e delle capacità organizzative: si tratta infatti di un aspetto notevolmente trascurato da molte anche se non tutte le comunità (per non parlare della ‘disattenzione’, a essere generosi, di numerosi consolati), che potrebbe avere invece anche utili declinazioni ‘preventive’ in diversi ambiti: dall’evasione dell’obbligo scolastico alla devianza minorile, dalla pedofilia alla prostituzione minorile, e quant’altro.
E visto che ci siamo riferiti alla prevenzione, chiudiamo con un riferimento che riguarda la società nel suo complesso.
“Français, construisez des mosquées et vous fermerez de prisons”, era la parola d’ordine, certo strumentale e interessata ma non del tutto irrealistica, lanciata negli anni Ottanta dalla moschea di Parigi, e rivolta tanto agli immigrati musulmani (molti peraltro francesi di cittadinanza) quanto alla società. Forse può essere utile tenere a mente anche questo aspetto in un momento, come l’attuale, di dibattito sui diritti religiosi degli immigrati che, in Italia, è ancora in una fase agitatoria e molto poco ponderata, che vede ancora la costruzione di moschee come una forma di autoghettizzazione e come cavallo di Troia dell’integralismo islamico, mentre sociologicamente esse costituiscono una forma di integrazione e di concezione del paese di emigrazione come dar al-islam, come ‘casa dell’islam’, cioè come luogo in cui si desidera vivere e costruire il proprio futuro, dunque anche organizzare la propria riproduzione culturale.
Conclusioni
Quanto precede ci ha fatto riflettere su quello che potremmo considerare un ritorno delle culture, e della dimensione culturale in tutta la sua pregnanza. Le culture altre, più visibilmente ‘altre’ (per lingua, colore della pelle, costumi: cibo vestiario, religione, ecc.) delle alterità ‘interne’, che a causa degli elementi comuni passano più facilmente inosservate, ci fanno se non altro recuperare contezza del fatto che le culture esistono per l’appunto solo al plurale (pur all’interno di una comune ‘natura’ – parola anche questa, tuttavia, troppo caricata culturalmente, e che significa dunque cose diverse), che le diversità sono molte, e che vanno dunque comprese e affrontate come tali – anche quelle interne: pena il fallimento del progetto conoscitivo, e ancora di più di quello educativo, dato che l’educare non esiste in sé, ma presuppone sempre l’educare a una specifica cultura, a socializzare in essa e a interagire con essa.
Come sempre, l’alterità, lo straniero che la incarna, ci aiuta a prendere coscienza di noi stessi, della nostra stessa (frammentata e complessa) identità: alter è il presupposto di ego – si richiamano e si necessitano l’un l’altro (E. Colombo 1999). “L’étranger? L’étrange-je”, ha scritto E. Jabès, con una frase difficilmente traducibile[38] (Jabès 1989).
Un’estraneità che si innesta su un’estraneità ulteriore. Quella del carcere, non solo minorile, anche se questa fa soffrire di più la consapevolezza del corpo sociale[39].
Il carcere è davvero questo: un luogo dimenticato, nascosto. Un luogo che si vorrebbe dimenticare. Un luogo, tuttavia, da non dimenticare. Perché è la malattia che ci ricorda che, anche quando ci crediamo ‘sani’, lo siamo in maniera precaria. Perché è il cancro che ci ricorda che, forse, avremmo potuto vivere in salute: che quello, anzi, avrebbe dovuto essere il nostro stato naturale. E’ singolare, dopo tutto, che carcinoma suoni quasi come carcere, anche se la radice della parola non è la medesima. Talvolta le assonanze, le eufonie, ci dicono più delle stesse etimologie. Indicano, segnalano, anche quando non significano.
Non possiamo quindi rinunciare completamente a porre la domanda: “a cosa servono queste prigioni?”; anche nel caso di quelle per minori, pure meno ‘carcerarie’ per forma e per cultura. E’ chiaro che esse sono state e sono luoghi di cui si supponeva una funzione educativa, o quanto meno socialmente utile, correttiva (non a caso si chiamavano anche correzionali). E nel corso della storia, dopo tutto relativamente recente, del carcere, si è posto l’accento, oltre che sulla sua funzione punitiva e repressiva, e su quella preventiva e di deterrenza, anche su quella rieducativa, riabilitativa (e col passare degli anni, con pietosa menzogna sociale, l’accento è stato sempre più messo sulle ultime, anche se continuavano a prevalere le prime).
Ma di fatto, almeno nel mondo ‘adulto’, sembra aver finito per prevalere la funzione ‘immobilizzativa’, priva di qualsiasi utilità individuale e di risvolto sociale, un mero parcheggio umano. Vero è che il minorile fa in questo senso parzialmente eccezione, ma non sempre e non dovunque.
Certo, per alcuni, forse non pochi, svolge un ruolo o quanto meno consente (e al limite obbliga, impone, per il tramite dell’immobilizzazione e della ‘compressione’ spazio-temporale) una funzione di re-interrogazione su di sé, un comprendere che c’è o dovrebbe esserci un ordine sociale, che chi l’ha sconvolto deve essere punito, che ‘chi sbaglia paga’, insomma – ce lo siamo sentiti dire, come affermazione condivisa, in fondo tanto più sorprendente da parte di qualcuno che sta ‘pagando’, da più di un ragazzo e anche da qualche adulto detenuto.
Infine, per alcuni è il luogo dell’incontro, finalmente, con un pezzo di società che si mette in relazione con un soggetto che, di queste relazioni, non è riuscito ad averne in passato – come accade appunto negli istituti minorili e talvolta, forse davvero troppo tardi, negli altri: in cui per la prima volta (ma il paradosso, e lo scandalo, è per l’appunto lì), lo stato, le istituzioni, si fanno presenti in forma nonostante tutto – nonostante, in primo luogo, il fatto fisico della costrizione, della reclusione – positiva, attraverso educatori, corsi di recupero, di alfabetizzazione, magari uno psicologo, una visita medica più attenta anche al benessere generale dell’individuo e non solo al sintomo. Fa riflettere, in un istituto penitenziario per minori, vedere un diciassettenne avere lì, e non avere avuto prima, l’occasione di imparare a leggere, di fare un po’ di educazione sanitaria, di scoprire cosa significa la parola ‘progetto’ o la parola ‘responsabilità’, per sé e per gli altri.
Ma, naturalmente, in carcere non si scopre solo questo. Si può scoprire, o riscoprire, il senso o il non senso della violenza, di una vita vuota, di tempi assurdamente allungati e letteralmente in-sensati, privi di uno scopo (condizione diffusa anche ‘fuori’, è vero…: ma se non altro in apparente libertà). E avere la ri-conferma, se ce ne fosse stato bisogno, di vivere in una società radicalmente ingiusta (ingiusta cioè alla radice: non per sbaglio, per un’inefficacia occasionale – ma perché nasce e si riproduce così).
Non è difficile, in carcere, anzi è patente, avere le prove che la società è divisa in classi, meglio mascherate nella vita quotidiana, del tutto nascoste dalla realtà televisiva – comunque si voglia chiamare la divisione tra ricchi e poveri, tra chi conta e chi al contrario può essere solo contato. Lì certe persone non ci mettono piede, e se ce lo mettono fanno per l’appunto notizia; e non durano molto, del resto – perché escono presto (buoni avvocati fanno la pena corta, o una misura alternativa adeguata allo scopo), o perché in qualche raro caso, non ce la fanno proprio, e soccombono (i celebri suicidi del periodo Mani Pulite fanno testo; ma anche altri si suicidano, e più spesso – solo che non fanno notizia). Ed è ancora più facile, come ci mostra il nostro caso, vedere che ci entrano molto di più gli stranieri e i nomadi che non gli autoctoni. Anzi, il fatto è più evidente ancora nel minorile: ci sono quasi solo loro. L’ingiustizia è patente: e culturalmente, saremmo tentati di dire razzialmente, connotata. A meno di dimostrare, come tentano di fare alcune facili spiegazioni ‘essenzialiste’, che essi delinquono di più; il che fa comunque problema all’osservatore poiché ciò non accade nelle medesime percentuali con cui sono presenti in carcere. E ancora, questo non sarebbe che l’inizio di una spiegazione, che potrebbe e dovrebbe a sua volta ricondurre, o essere ricondotta, a cause ulteriori.
Certo, si fa molto, e molto anche di buono, per cercare di cambiare le cose, di migliorarle, di ‘umanizzare’, come si dice, un universo che evidentemente non viene considerato tale. Da parte dei legislatori, degli operatori, delle istituzioni, dei volontari che sempre più numerosi attivano iniziative dentro le strutture, e in ascolto di esse, anche. Ma quasi sempre, ancora, si tratta di iniziative, pur indispensabili, che concernono queste strutture come mondo a sé. Ancora troppo di rado vanno a toccare il rapporto con la società, pure cruciale: sia per il ‘prima’, per evitare che la gente ci entri, sia per il ‘dopo’, per favorire un reinserimento che è spesso drammaticamente difficile, proprio a causa dell’idea di carcere che abbiamo nella società, per i timori che, anche comprensibilmente, fa nascere, e che si fa troppo poco per cercare di interpretare, se non di fugare. E che si accentuano quando si tratta di stranieri.
Si preferisce, come sempre facciamo, sia come individui che come società, di fronte alle realtà spiacevoli, non pensare, rimuovere. Suscita ri-mozione, anziché e-mozione, la realtà carceraria. Ma in un certo senso la rimozione è anche più pericolosa, perché il carcere, così come è, è una ferita, e sanguina. E non è sano per un corpo, nemmeno per un corpo sociale, portare con sé la propria malattia senza curarla, lasciando che si aggravi senza prestarle soccorso. Come sappiamo, alla lunga infetta. E a risentirne è tutto il corpo.
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[1] Molto di quello che crediamo di sapere, e molto di quel poco che ci è stato possibile avvicinarci a questo mondo, lo dobbiamo agli operatori e agli ‘utenti’ con cui siamo venuti in contatto, e che cogliamo qui l’occasione per ringraziare: non li nomineremo individualmente, per non fare ingiustizie o rischiare omissioni, ma a loro va un sentito ringraziamento collettivo.
[2] Lo stesso sta accadendo del resto nell’universo carcerario ‘adulto’, seppure con caratteristiche e per ragioni diverse: più per un aumento della presenza straniera che per una diminuzione di quella autoctona (Naldi 2000).
[3] Si vedano, in Italia, i vari crime day e security day (in inglese pare che la loro forza evocativa sia più efficace…), promossi dalle forze politiche della Casa delle Libertà. In particolare, più visibilmente e pervasivamente, tale atteggiamento è infatti maggiormente presente tra le forze politiche conservatrici e di centro-destra; ma l’argomento, in Italia come all’estero, è ripreso ampiamente nelle varie latitudini da tutti gli schieramenti politici, candidandosi a divenire uno dei nuovi argomenti ‘ecumenici’ e interclassisti dei take all parties e più in generale della politica ‘postmoderna’ (cf. le osservazioni di Bauman 1999 sul legame tra politiche sicuritarie e globalizzazione).
[4] Ben descritta da De Giorgi (2000, 105) con queste parole: “Zero Tolerance è in realtà qualcosa di difficile da definire: è più una nuova retorica politica, quasi una tendenza sub-culturale o una filosofia popolare, che una specifica strategia di politica criminale”. Occorre tuttavia interrogarsi maggiormente sul perché del suo successo, sui bisogni di cui costituisce una risposta, per quanto discutibile.
[5] “Quando si parla di prevenzione situazionale, ci si riferisce … a un insieme di strategie volte a contenere variabili che incidono sulla produzione di comportamenti, attraverso la gestione e il controllo non delle circostanze sociali o soggettive della devianza, bensì attraverso la delimitazione degli spazi di vita dei soggetti, e cioè l’elevazione di barriere artificiali” (De Giorgi 2000, 46). Questo processo, aggiungiamo, può tendere a ‘chiudere dentro’ (alcune categorie più marginali, o tout court i più poveri e fastidiosi, o quelli più visibili, come per esempio gli stranieri) o a ‘chiudere fuori’ (per esempio dalle possibilità di fruizione da parte dei cittadini). Ci pare che questa seconda tendenza, meno visibile e più sottile (meno soggetta anche a critica ideologica militante, che riflette più volentieri sulla prima), sia ben simboleggiata, anche se le barriere possono essere di tipo meramente simbolico, dall’idea attuata per esempio dall’amministrazione milanese di ‘cancellare’ (nel senso di mettere dei cancelli, di chiudere, ma che chiaramente si trasforma anche in una cancellazione dalle possibilità di uso sociale) alcune piazze a rischio devianza o comunque oggetto di allarme sociale.
[6] Ricordiamo la nota affermazione di Schütz (1979), secondo cui “visto dall’angolo visuale del gruppo in cui è entrato, egli [lo straniero, ndr] è un uomo senza storia”. Si è notato meno spesso come questo sia in certa misura vero anche, per riprendere la terminologia schutziana, dall’angolo visuale dello straniero medesimo: che non ha storia, nella nuova realtà, in quanto non ha storia comune con la società in cui si è inserito, quale che sia la modalità del suo inserimento, inclusa quindi anche quella ‘deviante’.
[7] Ché come tale è comunque percepito, sia all’esterno che all’interno. Cito da un ‘messaggio nella bottiglia’ trovato su un foglietto stropicciato della sezione femminile, scritto da una nomade, in un italiano zoppicante e con una scrittura a stampatello ripidamente pencolante da destra a sinistra, assai espressivo nella sua semplicità: “s.z. / sono in carcere / becaria / estoMale”.
[8] La frenologia è lo studio delle relazioni fra cranio, cervello e comportamento sociale, come elaborato da Cesare Lombroso nel suo L’uomo delinquente, pubblicato nella sua prima edizione nel 1876. Questo approccio è in realtà molto meno ‘antiquato’ di quanto si ami pensare: si pensi al Varieties of Delinquent Youth di W.H. Sheldon, che è del 1949. Ma esso è influente anche e soprattutto a livello popolare, non specialistico, in quanto rispondente al nostro ‘desiderio sociale’ di individuare quello che lo stesso Lombroso ha chiamato il “delinquente nato”: ce ne dà conferma frequente la lettura di tante cronache e commenti giornalistici odierni.
[9] Si vedano le puntualizzazioni dello stesso Becker, in Labelling Theory Reconsidered, nel medesimo volume, e l’introduzione di De Leo (1987).
[10] Esattamente come un atto razzista può essere il segnale di una cultura condivisa, magari in forma più blanda, anche quando, nelle modalità in cui si esprime, è isolato, unico, estremo.
[11] Un problema che ritroviamo nella stessa etnopsicanalisi, cui pur dobbiamo il merito di avere inserito il fattore dell’interpretazione culturale anche nella relazione terapeutica, dunque per capire e curare il soggetto, ma che rischia appunto di dargli uno spazio invadente e invasivo, come ci pare di cogliere da alcune sue espressioni: “La pratica della consultazione etnopsichiatrica ha dimostrato nel modo più evidente che se si prescinde da certi dispositivi quali il riferimento alla stregoneria o alla trance, o alla manipolazione di oggetti ‘magici’, peraltro contenuti nella logica del sintomo presentato dal paziente, diventa impossibile (corsivo nostro, ndr) instaurare una relazione terapeutica con soggetti provenienti da culture non occidentali” (Nathan 1996, 42); il rischio di scivolare dall’essenzialismo all’esotismo e financo al folklorismo è sempre in agguato, insieme a una compiacente e compiaciuta enfasi miracolistica nel descrivere gli effetti del ricorso all’espediente culturale… Su questo ed altri temi legati al rapporto tra culture e psiche, e tra corpo e cultura, rinvio ad Allievi (2004a).
[12] Parola pericolosa, e scientificamente inattendibile (letteralmente in-sensata: fino a prova contraria), troppo spesso ascoltata, di recente, a proposito di islam, dalla bocca di politici (le manifestazioni anti-islamiche leghiste e non solo), alti prelati (si pensi alle dichiarazioni del card. Biffi), giornalisti (si pensi al clamore suscitato dai libri di Oriana Fallaci) e, ciò che dal nostro punto di vista è assai più grave, in riflessioni spacciate – a torto – come scientifiche, come quelle contenute in Sartori (2000; si veda anche la nostra recensione del medesimo in “Polis”, n.3, 2000, pp.500-503). Più in generale, sulle posizioni della società italiana rispetto all’islam, si veda Allievi (2003a).
[13] Del resto occorre porre una certa attenzione nell’uso dell’argomento ‘culturalista’ anche per giustificare un diverso atteggiamento, per esempio nei confronti di zingari – e non solo in negativo. Anche in un ‘positivo’ che rischia di essere addirittura più perverso del negativo. Il rischio è in definitiva di giustificare pratiche, per la nostra cultura (giuridica e non) inaccettabili e al limite proibite, con argomenti di ‘giustificazionismo culturale’: come quando, a proposito di trattamento dei minori, si dice “ma sono zingari, è la loro cultura”, anche se “un pari trattamento fatto ai minori italiani da parte di un genitore porterebbe a valanghe di segnalazioni e denunce” (Miazzi 1995, 136). Discorsi questi che l’opinione razzista finisce per declinare in un “non sono come noi”, dunque non sono ‘integrabili’, sono ‘incompatibili’, ecc. Va ricordato inoltre che il rispetto delle culture si ferma di fronte al rispetto diritti umani, e in primis a quello dei diritti fondamentali dell’individuo, in primo luogo alla propria integrità corporea (quasi un significato letterale, non giuridico, dell’habeas corpus…): basti pensare al caso dell’infibulazione, per citare un argomento ampiamente mediatizzato.
[14] Sul concetto di confine, oltre al testo di Cassano citato, si vedano i contributi contenuti nel numero monografico di “Servitium”, n. 133, 2001 (dedicato appunto a esplorare Il confine).
[15] Pena significa tanto ‘danno’ quanto ‘castigo’ e ‘sofferenza’, nonché ‘pietà’ e ‘stento’. E il latino poena, da cui penale ma probabilmente anche, seppure la radice immediata è differente, penitenza e penitenziario, deriva dal greco poiné che a sua volta deriverebbe da una radice indoeuropea che significa ‘pagare’.
[16] Si veda su questo il ponderoso affresco tracciato da Prodi (2000).
[17] Le carceri del resto possono essere anche, per quanto possa sembrare strano a molti – ed è in queste occasioni, e forse quasi solo in queste, che il penitenziario si ricollega appunto all’originario senso religioso/espiatorio – luogo di recupero religioso. Nel caso dell’islam, su cui ci siamo soffermati più direttamente, basti pensare al fenomeno dei black muslims, che, da Malcolm X a Muhammad Alì/Cassius Clay, ha un’origine frequentemente ‘carceraria’; del resto anche tra i convertiti all’islam da noi intervistati (Allievi 1999) abbiamo potuto rilevare qualche analogo percorso.
[18] Come sempre, la presenza di alter rinvia a un interrogativo su ego, e la riflessione sull’altro ci riconduce a una riflessione su noi stessi (per una riflessione sociologica in materia cf. E. Colombo 1999).
[19] Lettere a Lucilio, Libro XVI, Lettera 97, Milano, Rizzoli, 1983.
[20] Melucci (1993); per un approfondimento e una analisi della letteratura in proposito, Allievi (2000b).
[21] “L’insieme di mutamenti regolari nel sé e nell’immagine di sé di una persona, così come nel giudizio di sé e degli altri” (Goffman 1968, 153); e, aggiungiamo, come determinante cruciale, che Goffman stesso sviluppa ampiamente, di sé negli altri. “La carriera morale di un individuo di una data categoria sociale implica un susseguirsi standardizzato di mutamenti nel modo di giudicarsi includendo – in maniera significativa – il modo di concepire il proprio sé” (ibidem, 193); e ugualmente un mutamento nel modo di essere giudicato.
[22] Per una rassegna delle teorie, in chiave diversa, Mazzara (1996) e Alietti e Padovan (2000).
[23] N. Elias, J.L. Scotson, “The established and the Outsiders”, Cass & C., 1965, trad. it. in Tabboni (1986). Le sottolineature sono nostre.
[24] Seppure il fatto non sussista in termini numerici, in una struttura la cui ‘utenza’ è nella sua grande maggioranza straniera, gli italiani possono essere e probabilmente sono visti, in ogni caso, come rappresentanti della cultura maggioritaria ‘dentro’ (la struttura) e ‘fuori’ (la società).
[25] Un esempio può essere quello di un conflitto, sostanzialmente ordinario (l’esempio è peraltro tratto dal vero), tra un agente e un ragazzo arabo: il secondo sosteneva di essere stato colpito dal primo con un pugno, appoggiato in questa versione dagli altri membri del proprio gruppo etno-culturale di riferimento, mentre italiani e nomadi, insieme, sostenevano che si fosse trattato solo di una spintarella.
[26] Per una riflessione che non vede come alternative ma anzi come reciprocamente supportantisi le dimensioni individuali e comunitarie, applicate al caso dell’islam, e in generale sulle questioni dell’individualizzazione in campo islamico e i suoi effetti, si veda Dassetto (2000).
[27] Tanto che, anche sul piano globale, l’elemento arabo, pur preponderante culturalmente e soprattutto ‘liturgicamente’, costituisce una minoranza statistica all’interno dell’islam, valutabile a poco più del venti per cento circa dei musulmani del mondo. La presenza araba è tuttavia preponderante nell’immigrazione in Italia: il Marocco da solo costituisce circa un terzo delle presenze musulmane (cf. Allievi 2003a e 2004c).
[28] Goffman (1968, 218) fa la seguente osservazione, pur scontando la specificità del contesto statunitense: “Le credenze religiose ci consentono di analizzare un’altra condizione di colui che fa parte di un’organizzazione. Nella nostra società non esiste infatti un’istituzione chiusa che non segua l’osservanza dello shabbat [giorno di riposo], il che implica il riconoscimento del bisogno naturale dell’uomo di disporre di tempo da dedicare alla preghiera, qualsiasi cosa egli abbia fatto; si ritiene cioè che siamo in possesso di una attitudine religiosa inalienabile”.
[29] Dal punto di vista ‘tecnico’ la carne halal è come la carne kasher ebraica: l’animale deve essere ucciso mediante taglio della vena giugulare, con eliminazione quindi, per questa via, del sangue. In realtà, come detto, la giurisprudenza islamica considera che, in paesi non musulmani, e in mancanza quindi di disponibilità di carne halal, ogni altra carne, in quanto presuntivamente macellata da appartenenti alle ‘genti del libro’ (gli ahl al-kitab, le genti del libro appunto, sono per definizione i cristiani e gli ebrei, in alcune specifiche situazioni anche gli appartenenti ad altre religioni), come lecita anche ai musulmani: resta il divieto legato alle carni di maiale e ai suoi derivati.
[30] I centri islamici delle principali città si prendono cura, di solito, di approntare dei calendarietti tascabili con gli orari relativi.
[31] Sempre in situazione di carcere ‘adulto’ abbiamo potuto notare alcuni casi di detenuti che chiedevano di fare le docce al venerdì per poter contestualmente svolgere le necessarie abluzioni legate alla preghiera.
[32] Anche in ambiti diversi, come quello scolastico e – forse più simile, per certi aspetti, a quello in oggetto – sanitario, con l’attivazione di corsi e dispense sulla pluralità (v. ad esempio Allievi, 2003b).
[33] Qualche esperienza con un medico marocchino ci risulta del resto sia già stata fatta in passato all’interno stesso della struttura.
[34] Si pensi alle problematiche e alle ferite legate alla affettività e alla sessualità, e a eventuali patologie delle medesime, descritte in Ben Jelloun (1988). Il discorso vale a maggior ragione anche per le forme di ‘possessione’ e più in generale di malattia mentale, che ha anche, come abbiamo già visto, una caratterizzazione culturale. Basti pensare al ruolo che nella cultura arabo-islamica si attribuisce ai ginn (da cui la parola ‘genio’, come ‘mammalucco’ deriva da mamluk, cioè appunto ‘posseduto’ da un ginn): esseri a cavallo tra il mondo e il metamondo di cui parla il Corano, e quindi in questo caso integrati nell’ortodossia e nel pensiero religioso ‘legittimo’, a differenza dell’universo culturale cristiano (in cui sono ben presenti nella vita quotidiana – basti pensare alla fattura, al malocchio, ecc. – nelle tradizioni popolari e nel folklore, ma negate dall’ortodossia religiosa). Tra l’altro, i ginn sono anche, nella percezione che se ne ha, religiosamente connotati: “Gli spiriti musulmani sono i meno pericolosi perché con loro si può più facilmente ‘negoziare’ in nome di Allah. Quelli cristiani sono più difficili, ma meno di quelli ebrei. I più temuti restono i djinn pagani…” (Nathan 1996, 68).
[35] Può trattarsi nel caso di un luogo utilizzato anche ad altri fini, non quindi a vocazione esclusiva (ad esempio un’aula scolastica o una sala riunioni, o al limite una preesistente cappella); a rigore, dal punto di vista della pratica islamica (alla teoria non serve sostanzialmente nulla), ciò che occorre è solo la possibilità di disporre dei tappeti usati solo a questo fine e non ‘calpestati’ in altri usi, e l’indicazione della direzione della Mecca.
[36] Pensiamo, per il caso milanese ‘adulto’, al ruolo svolto dall’Associazione amici di Mario Cuminetti nel porre in essere e migliorare le disponibilità librarie all’interno del carcere di S. Vittore, nella catalogazione del materiale, utilizzando anche gli stessi detenuti, e per quanto riguarda il nostro tema nel fare da tramite anche per la distribuzione di Corani e letteratura religiosa anche per conto delle comunità islamiche locali, oltre che nel mettere a disposizione letteratura ‘laica’ in lingua araba.
[37] Un esempio può essere l’ospitalità da parte di una famiglia marocchina immigrata, con un reddito relativamente basso, di ragazzi della medesima provenienza, entrati in Beccaria per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti, abituati quindi magari a un tenore di vita, oltre che a modelli culturali, assai diversi da quelli della famiglia medesima. Questi problemi non sono diversi da quelli analoghi che si pongono a famiglie italiane, ma scontano una relativa minor abitudine ad essi da parte delle famiglie immigrate, che avrebbero quindi bisogno a loro volta di un certo supporto.
[38] “Lo straniero? L’estran-io”, suona, se non ricordiamo male, nella traduzione italiana, inevitabilmente infedele e ‘tradita’.
[39] Allievi (2000a), da cui riprendiamo, in forma ridotta e con qualche modifica, le considerazioni che seguono.