Vittime collaterali. Intervista a Zygmunt Bauman

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Allievi S. (2007), Vittime collaterali. Intervista a Zygmunt Bauman, in “Aut Aut”, n.333, gennaio-marzo 2007, pp.108-128; isbn 978-88-4281439-9 AI S
Testo pubblicato in: “aut aut”, n. 333, gennaio-marzo 2007, pp. 108-128
Vittime collaterali
Incontro con ZYGMUNT BAUMAN
Stefano Allievi. Vittime collaterali è un’espressione significativa, che ricorda un po’ quella di danni collaterali, espressione che si usa sempre più spesso per le guerre, per la guerra del Golfo, per la guerra in Iraq, e per tutte le cosiddette guerre postmoderne. È un’espressione tra le più ciniche e fredde che si potessero inventare e ha un grave effetto collaterale: quello di nasconderci gli aspetti più spiacevoli della realtà. I danni collaterali sono immensi, ma di solito non sono calcolati proprio perché sono laterali, non stanno al centro della scena. Non si calcolano prima, per non sprecare risorse (quel che conta è il bersaglio), e non si calcolano neanche dopo, per evitare fastidiosi esami di coscienza. Nell’assordante silenzio dei media solo pochissime organizzazioni internazionali cercano di contare le vittime della guerra, di dare almeno un numero, se non un nome, a quelle vittime, di ricordare almeno statisticamente che ci sono e fare in modo che non scompaiano completamente.
Ma chi sono queste inutili, ininfluenti vittime collaterali, di cui non è necessario parlare, e di che cosa sono vittime? Bauman direbbe che sono innanzitutto vittime della globalizzazione, dei processi globali in atto. Sono i perdenti e i perduti della globalizzazione: i perdenti, cioè gli sconfitti, ma anche i perduti, quelli che non troviamo più e che non si ritrovano più, che si sono persi dentro il processo della globalizzazione, che non capiscono più dove sono. Su alcune di queste vittime Bauman ha focalizzato la sua attenzione: lo straniero, l’immigrato (oggi potremmo dire nello specifico il musulmano), il rifugiato, i nomadi, i devianti, i carcerati, gli anziani. Persino i morenti, perché anche la morte è stata esiliata dalla nostra società vitalista e giovanilista. Insomma le vittime dello sviluppo ineguale. E, più in generale, tra le vittime collaterali della globalizzazione ci sono gli instabili, i precari. I frammentati, quelli che non riescono più a ricomporre i frammenti della loro identità. E aggiungerei infine le parole, di cui occorre tornare a prendersi cura.
Uno dei pregi della sociologia di Bauman è proprio l’enfasi sulle parole, la cura meticolosa, attenta, l’amore per le parole, il rapporto con la letteratura. Io credo che bisognerebbe tornare a una sociologia narrativa, perché la narrazione è spesso l’unico modo che abbiamo di ricomporre un’unità, di dare senso ai nostri percorsi di vita, raccontandoci. I sociologi, nei casi migliori, come in quello di Bauman, riescono a fare anche questo: ad ascoltare le vite degli altri, cercando di ricomporle, di dare loro un senso. Ecco perché nessuno meglio di Bauman è in grado di introdurci al nostro tema. Gli chiediamo allora chi sono, secondo lui, le vittime collaterali e perché ci dicono tanto sulla società ma anche su noi stessi.
Zygmunt Bauman. Mi trovo in una posizione invidiabile, perché Stefano Allievi ha già espresso, con grande chiarezza, i punti fondamentali da affrontare per svolgere insieme alcune considerazioni sulla questione delle vittime collaterali. Nella fitta corrispondenza che ha preceduto questo incontro, Allievi mi ha proposto una definizione estremamente precisa di chi sono le “vittime collaterali”: sono quelle persone che non amiamo ricordare quando ci troviamo a riflettere, e che cerchiamo di non prendere in considerazione quando parliamo.
Ma c’è una seconda ragione che rende la mia posizione particolarmente favorevole: parlerò, infatti, in presenza di Ryszard Kapuscinski, il più profondo studioso di quei fenomeni che lui stesso ha definito le insensatezze del mondo contemporaneo − e di cui il fenomeno delle vittime collaterali è un esempio. Mi auguro, perciò, di essere all’altezza delle sue straordinarie qualità di narratore.
Mi piacerebbe iniziare ricordando un detto diffuso in Africa: “Quando gli elefanti lottano tra loro, è l’erba a subire le peggiori conseguenze”. L’erba, in un certo senso, è una vittima collaterale della lotta tra gli elefanti. Ovviamente, l’erba non è né ostile né favorevole agli elefanti; non è loro alleata, né si pone in conflitto con essi. Semplicemente non è l’obiettivo dell’azione degli elefanti: è solo una vittima collaterale, una vittima non intenzionale di un’azione intenzionale; e il danno che l’erba subisce non è altro che un danno collaterale, un effetto non pianificato e non calcolato di un’azione calcolata. L’azione tende al raggiungimento di uno scopo preciso, è sostenuta da specifiche motivazioni, ma anche le più valide motivazioni non tengono conto di tutte le conseguenze che derivano dal compiersi dell’azione stessa. Ci sono molte persone che subiscono pesanti conseguenze − benché non prendano parte attiva all’azione e non vi partecipino − semplicemente perché sono in relazione indiretta con determinate azioni. In un certo senso, si sono trovate troppo vicine al luogo in cui si stava svolgendo la lotta tra gli elefanti.
Ma ciò che più mi interessa è capire per quali ragioni, nel giro di pochi anni, il concetto di vittime collaterali e quello di danni collaterali siano entrati a far parte del nostro vocabolario. Perché non c’è dubbio che la connessione tra l’idea di “collateralità”, da un lato, e quella di vittima, di danno e di disastro accidentale, dall’altro, sia un’acquisizione di questi ultimi anni. Ma anche se siamo certi che le cose stiano così, non abbiamo ancora fornito alcuna spiegazione del fenomeno. D’altra parte, se guardiamo indietro, se ripensiamo e riesaminiamo il passato tenendo presente il concetto di vittima collaterale, ci rendiamo conto di poterlo applicare anche a eventi accaduti molto tempo fa, assai prima dell’introduzione di questo termine nel linguaggio comune. E, in effetti, vittime collaterali e disastri collaterali sono esistiti sin dagli inizi della modernità, anche se non venivano definiti così. Mi vengono in mente soprattutto due processi tipici dell’epoca moderna – l’epoca della ricerca ossessiva e compulsiva della modernizzazione – che sono stati particolarmente prolifici nella produzione di vittime collaterali.
Il primo è senz’altro la costruzione di un nuovo ordine sociale: ogni volta che si costruisce un nuovo ordine, un ordine migliore del precedente, succede sempre che un certo numero di persone non è più in grado di integrarsi nell’ordine appena costituito e deve quindi essere emarginato oppure eliminato; in un certo senso si viene a creare la necessità di togliere di mezzo queste persone perché non si armonizzano con il nuovo quadro sociale. E la modernità è stata l’epoca della costante ricostruzione, del costante rinnovamento e della continua riforma dell’ordine sociale ideale.
Il secondo processo assai fecondo nella produzione di vittime collaterali è il cosiddetto “progresso economico”. Ma che cos’è il progresso economico? In termini molto generali, consiste nella capacità di produrre cose – oggetti, beni – a un costo minore, con meno manodopera e con più efficacia di come fossero prodotte in passato. Quando questo accade, ecco che certe forme di vita, certi mezzi di sostentamento diventano impraticabili: non riescono a reggere la competizione, non hanno più la stessa efficacia, e le persone che vi si affidavano restano senza lavoro. A queste condizioni, sono costrette a emigrare, oppure a cambiare il proprio stile di vita per poterlo adeguare alle mutate condizioni del mondo o, se volete, al nuovo traguardo raggiunto dal progresso economico. Per cui se osserviamo il passato, avendo in mente questo concetto, ci accorgiamo immediatamente che il fenomeno delle vittime collaterali non è affatto nuovo. Le vittime collaterali hanno accompagnato il corso della storia, e se anche non siamo in grado di dire precisamente da quando esistono − se da due o tre secoli −, quel che è certo è che non si tratta di un fenomeno nuovo.
Ma, allora, perché all’improvviso è stato coniato questo nuovo concetto, che viene usato così diffusamente da tanti politici, da tanti generali e, sulla loro scia, da tanti giornalisti? Uno spunto ci viene dalla definizione che ne ha dato lo stesso Stefano Allievi: le vittime collaterali sono quelle persone sofferenti di cui preferiamo evitare di parlare. Il concetto, dunque, è stato coniato proprio perché, a un certo punto, non è stato più possibile mantenere il silenzio. Non abbiamo più potuto evitare di affrontare la questione perché, in qualche modo, si è riproposta in casa nostra, è entrata a far parte della nostra realtà. Potremmo dire che abbiamo raccolto ciò che abbiamo seminato: infatti, se anche questo concetto è stato coniato, forse, per descrivere fatti accaduti lontano da noi, all’improvviso, guardandoci attorno, ci siamo accorti che essi erano dovunque intorno a noi. Ciò che era lontano è diventato vicino, qualcosa di molto distante, e che in apparenza non ci riguardava, è entrato a far parte della nostra vita.
Una volta Bertolt Brecht, parlando dei rifugiati − le tipiche vittime collaterali del XIX secolo, le vittime dell’intenso processo di costruzione delle nazioni −, li ha definiti gli araldi, gli ambasciatori della sventura e della cattiva sorte. Venivano da lontano, portando con sé l’odore acre delle case bruciate, dei raccolti distrutti, di ogni sorta di catastrofe, e ci facevano presagire che tutto ciò sarebbe potuto capitare anche a noi. Ne avevamo avuto dei presentimenti, talvolta ci capitava di fare sogni angosciosi su di loro, ma senza avere la certezza che si trattava di figure reali, e improvvisamente essi si sono trasformati in simboli viventi, sintomi in carne e ossa, tracce concrete di quanto stava avvenendo in qualche posto lontano, e che sarebbe giunto fino a noi.
Milan Kundera, il grande autore ceco-francese, in alcune pagine di L’ignoranza parla della libertà, di tutte le forme che la libertà assume nella contemporaneità, paragonando la nostra esperienza di uomini liberi con la condizione di chi si è perso nella nebbia. La nostra condizione, infatti, non è quella di coloro che si trovano nella più completa oscurità, dove non sarebbe possibile vedere nulla. Non viviamo nella totale oscurità, normalmente non è questa la nostra condizione, siamo relativamente liberi: riusciamo a vedere a venti, trenta metri, a volte anche un po’ oltre, e abbiamo quindi una visione almeno parziale della nostra situazione. Ciò che non vediamo è l’automobile che sta per sopraggiungere a forte velocità da dietro l’angolo e che, tra pochi secondi, ci investirà. Bene, io credo che abbiamo cominciato ad avere in mente la questione dei danni collaterali quando questo problema “ha svoltato l’angolo”, è entrato nel nostro orizzonte visivo e ha raggiunto casa nostra.
Viviamo in una condizione di incertezza, che è anche una condizione di umiliazione. Questa sensazione di incertezza e questo sentimento di umiliazione hanno la stessa origine, derivano dalla congiunzione di due condizioni molto spiacevoli: una condizione di ignoranza e una condizione di impotenza. Siamo anzitutto ignoranti perché non sappiamo da dove giungerà la catastrofe: ci aspettiamo che qualcosa ci travolga, ma non sappiamo individuarne l’origine. La nostra attenzione oscilla tra diverse cause possibili e non appena ci sembra di aver trovato una causa verosimile, siamo subito pronti a fronteggiarla, a contrattaccare, ma le nostre battaglie sono di breve durata, perché si rivelano del tutto inefficaci. Allora scegliamo un altro bersaglio e cerchiamo di scagliargli contro tutta la nostra rabbia, il nostro dissenso e il nostro risentimento, salvo poi scoprire di nuovo che l’origine, la fonte della nostra paura non si è dissolta. Cerchiamo disperatamente un modo per far convergere quest’ansia diffusa e disarticolata – di cui non conosciamo né origine né causa – contro un bersaglio determinato, contro cui crediamo di poter intervenire. È questo il sentimento di ignoranza: non sappiamo, non abbiamo abbastanza informazioni, non siamo in grado di vedere il quadro nella sua interezza. Anche se a volte persone come Kapuscinski ci illuminano su alcuni aspetti, il quadro complessivo continua a sfuggirci.
Vi è inoltre una sensazione di impotenza, per cui ci sentiremmo ugualmente umiliati anche se sapessimo che cosa sta per travolgerci e da dove proviene il pericolo. Saremmo comunque impotenti, perché non saremmo in grado di reagire in maniera efficace, risolutiva e radicale. È la combinazione dei sentimenti di impotenza e di ignoranza a produrre questa atmosfera di incertezza, questo vago presentimento del pericolo, tanto difficile da localizzare. Le vittime collaterali incarnano i simboli di queste diffuse, vaghe e indistinte paure: ecco le ragioni del nostro interesse per la questione.
Anche se quel che dico può apparire cinico, sono convinto che siano i nostri egotistici sentimenti di libertà, le preoccupazioni per la nostra condizione personale, ad alimentare il nostro l’interesse – che resta blando, e tuttavia esiste – per la questione dei danni collaterali non intenzionali che si producono intorno a noi, in qualche posto lontano ma anche in casa nostra.
Le grandi multinazionali si fondono tra loro, mettendo in atto ciò che si è soliti chiamare “scorporo delle attività”; ed ecco che, improvvisamente, centinaia di migliaia di persone perdono il lavoro. Ma non sono loro il nemico da eliminare: il vero nemico è l’azienda concorrente. Per cui a un certo punto un’azienda decide di distruggere un’altra azienda, con la quale è in competizione sul mercato; soltanto che le vittime collaterali o, se volete, le conseguenze dei danni collaterali prodotti riguardano la vita delle persone, che inaspettatamente si vedono cancellate le proprie competenze, ridotti a zero i propri meriti accumulati in anni di lavoro. Sono individui che non vedono più riconosciuto il proprio contributo alla prosperità dell’azienda per la quale hanno lavorato per anni, e che adesso improvvisamente devono ricominciare da capo.
Anche underclass è un termine nuovo, un concetto recente, di cui fino a dieci o quindici anni fa nessuno aveva mai sentito parlare . Si parlava di sistemi di classe, di persone ricche e persone povere, di classi dirigenti [upper class] e classi subalterne [lower class]. Ma la classe subalterna faceva comunque parte del sistema sociale: era a tutti gli effetti una parte della società. Le classi subalterne erano composte da persone cadute in fondo alla scala sociale, ma che potevano comunque riscattarsi perché esisteva una scala sociale: se qualcuno si trovava all’ultimo gradino della scala sociale poteva sempre tentare di risalirla, un gradino dopo l’altro, cercando delle promozioni, reagendo alle sconfitte, ricominciando a lottare. Il concetto di underclass indica invece qualcosa di molto diverso, perché suggerisce che ci sono persone che si trovano sotto il gradino più basso della scala sociale, al di sotto dell’intero sistema di classe, fuori dai margini della società, persone che sono state escluse, eliminate.
Guardando la televisione, potete facilmente vedere come i moral tales dei nostri giorni, i racconti a sfondo morale, siano i talk show e i reality: programmi come Il grande fratello o Survivor, o The Weakest Link non sono altro che la messinscena delle verità nascoste, della logica nascosta della nostra vita. E quel che vedete in questi programmi, per esempio nel Grande fratello, è la ripetizione a cadenza settimanale di una cerimonia, di un rituale, che produce un picco di eccitazione negli spettatori: l’eliminazione di un membro dal gruppo dei concorrenti. Addirittura, in programmi come The Weakest Link, la saga che nel Grande fratello si prolunga per settimane viene condensata in non più di mezz’ora: c’è una cerimonia ogni cinque minuti. È molto più eccitante, perché non occorre aspettare a lungo prima dell’esclusione successiva. Ma il fatto veramente interessante, per quanto riguarda il rituale di esclusione tanto in The Weakest Link quanto nel Grande fratello, è che le persone non sono eliminate necessariamente perché hanno commesso un’azione illecita, o perché hanno infranto una regola, oppure perché non si amalgamano con gli altri partecipanti, ma semplicemente perché vige una regola che impone l’esclusione di una persona ogni settimana o ogni cinque minuti. La regola dice proprio questo: è istituito l’obbligo di escludere! E il messaggio, la suprema verità di questi programmi è che alla fine resta soltanto una persona, tutte le altre saranno eliminate. Da ciò si può dedurre come, di fatto, la minaccia di essere esclusi ed eliminati si aggira costantemente tra noi.
Noi tutti siamo i danni collaterali di un mondo deregolato, della lotta fra elefanti, della spietata competizione in corso tra poteri enormi, che facciamo fatica a comprendere e contro i quali possiamo fare molto poco. O siamo già vittime collaterali − senzatetto nel mondo della sedentarietà, apolidi in un mondo spartito tra stati sovrani o, se preferite, tra stati che detengono una sovranità territoriale −, oppure, ed è questo il nostro incubo, siamo vittime collaterali potenziali. Ecco perché ci spaventa tanto il fenomeno delle vittime collaterali: perché è qualcosa che magari accade lontano da casa nostra, ma che ci appare come una prova generale di ciò che capiterà anche a noi. La mia domanda, allora, è la seguente: da dove viene questo pericolo?
Mi riallaccio, qui, a un neologismo inventato per descrivere la nostra condizione attuale: out-of-jointness, con cui si vuole indicare che la nostra esperienza è sconnessa, frammentata. Per esprimere questa frammentarietà della nostra condizione sempre più spesso è stato usato il termine “globalizzazione”, che si è rapidamente trasformato in una specie di parola-cestino, di passepartout. Sul fenomeno della globalizzazione si sono dette molte cose importanti, insieme ad altre del tutto irrilevanti: è una parola largamente usata e abusata. Tuttavia vorrei attirare la vostra attenzione su un aspetto specifico che si sta concretizzando e che si nasconde dietro al fenomeno della globalizzazione.
Prima di tutto vorrei osservare che il termine “globalizzazione” è una nuova acquisizione del nostro vocabolario: quando ero studente, nessuno dei miei professori ha mai usato questa parola. Si parlava di “effetti globali”, di “umanità” o di “genere umano”, ma senza mai utilizzare la parola “globalizzazione”. Bisogna chiedersi, allora, perché sia stato necessario introdurre improvvisamente questa nuova parola. La mia idea è che mentre le parole usate dai miei professori – come “universalità” e “universalizzazione” – implicavano un nostro dovere (eravamo chiamati a rendere universali certi modi di vivere, certe forme di legge, certe forme di etica migliori di altre), il termine globalizzazione non dà nessuna indicazione su che cosa dobbiamo fare, quali sono i nostri doveri, anche etici; indica solo che stiamo subendo qualcosa, che ci sta accadendo qualcosa, qualcosa che giunge da fuori e che produce effetti significativi su di noi. È un nuovo modo di vedere le cose, soprattutto per l’Europa: mentre in passato l’Europa è sempre stata capace di approntare soluzioni globali per risolvere problemi locali, ora, all’improvviso, accade l’opposto. È un evento che Kapuscinski ha individuato chiaramente, nel corso dei suoi viaggi per il mondo: si è reso conto che le persone che incontrava non mostravano più alcun interesse per l’Europa, perché dall’Europa non proviene più niente di significativo, arrivano notizie più importanti da altre parti del mondo. La situazione, allo stato attuale, si è completamente rovesciata, e l’Europa si trova improvvisamente nell’impossibile condizione di dover trovare soluzioni locali a problemi globali.
La globalizzazione, dunque, è qualcosa che ci sta capitando e vorrei suggerire che questa condizione di out-of-jointness, di frammentarietà, che viviamo, tipica del processo della globalizzazione, deriva dal fatto che, finora, abbiamo avuto a che fare solo con gli effetti prodotti dalla globalizzazione negativa. Per “globalizzazione negativa” intendo la globalizzazione del capitale finanziario, dell’informazione, del commercio, della criminalità, del terrorismo, del traffico di droga e così via. Sono processi molto diversi tra loro, che hanno però un aspetto in comune: manifestano il più completo rifiuto per il rispetto della sovranità territoriale degli stati-nazione, per le frontiere, senza tenere in minimo conto le tradizioni, le leggi e le preferenze locali. Ecco perché la chiamo “globalizzazione negativa”: perché tende a violare i confini degli stati, incrinando così le basi su cui abbiamo tradizionalmente fondato la percezione della nostra sicurezza.
Finora la globalizzazione negativa non è stata accompagnata o controbilanciata da una globalizzazione positiva, vale a dire dal tentativo di creare, a livello globale, misure analoghe a quelle sviluppate dai nostri predecessori, negli ultimi due o tre secoli, a livello degli stati-nazione, quando ci si rese conto dell’esigenza di contenere e addomesticare le forze violente e fuori controllo che si stavano scatenando. Mi riferisco a istituzioni come una legislazione imparziale e vincolante a livello universale, come un codice etico da rispettare, che non può essere violato o infranto per nessuna ragione, da nessun potere e da nessuna legge; alle istituzioni della rappresentanza politica: una sorta di controllo democratico attraverso cui la volontà popolare è in grado di esprimersi e di imporsi ai poteri legislativi esistenti.
A livello degli stati-nazione, sono state create tutta una serie di istituzioni indispensabili, anche se non si sono sempre rivelate perfettamente efficienti – e verso le quali sono state rivolte molte critiche. Ciò nonostante, oggi, a livello globale, non c’è nulla che si avvicini, nemmeno lontanamente, alla loro efficacia. Questa è la ragione che spiega la discrepanza tra l’impatto negativo della globalizzazione e l’assenza di operatori e di strumenti concreti che ci permetterebbero di frenare e di tenere sotto controllo questi sviluppi tumultuosi. È per questa ragione che il concetto di danni collaterali risulta così adeguato: perché testimonia delle vittime non intenzionali, non volute, della globalizzazione, delle vittime inconsapevoli, non informate e non colpevoli, che alla fine siamo tutti noi. Finora, purtroppo, non siamo ancora stati capaci di adottare delle misure che ci permetterebbero di tornare ad assumere il controllo, e dunque la responsabilità, dei processi che stanno avvenendo.
L’ultimo punto che vorrei toccare riguarda quella che secondo me è la grande questione della nostra epoca, se consideriamo l’enormità del problema, il suo carattere globale e universale. La fondamentale questione da affrontare e che, con tutta probabilità, costituirà il nucleo delle vostre preoccupazioni, delle vostre ansie – dico vostre, perché sarà soprattutto un vostro problema: io ho una certa età, non vedrò le conseguenze, ma voi siete giovani, avete molti anni davanti a voi e penso che spenderete gran parte della vostra vita cercando di risolvere questo problema −, non è tanto che cosa bisogna fare. Penso infatti che si sia già formato un ampio consenso nel mondo: gran parte dell’umanità è contro la guerra, contro l’inquinamento e contro il surriscaldamento del pianeta. Se facessimo un sondaggio a livello mondiale la maggioranza delle persone voterebbe a favore di valori comuni e condivisibili. Ma se sappiamo già e siamo tutti d’accordo su che cosa vada fatto, il vero problema, la vera difficoltà, ora, è di capire chi metterà in pratica le cose da fare. È questo il problema più difficile e non abbiamo nemmeno iniziato ad accennare a una risposta seria. La conclusione pratica a cui giungere, quindi, a partire dall’esperienza dei danni collaterali, delle vittime collaterali, dei disastri collaterali, è che la sfida più grande della nostra epoca è rappresentata dalla creazione di operatori che siano in grado di far fronte ai problemi attuali.
S.A. Quando ha accennato al rituale di esclusione settimanale del Grande fratello, non ho potuto fare a meno di riflettere sul nostro bisogno di escludere qualcuno, e soprattutto sul rituale con cui avviene questa esclusione. Tra i fondatori della sociologia, Durkheim per primo ha ragionato approfonditamente sia sui rituali sia sul significato dell’esclusione, sull’idea di deviante, di criminale, come figura necessaria alla società per poter riconfermare la norma. Ma qui mi riferisco all’idea ancora più inquietante, in società come la nostra, del capro espiatorio, questione che lei conosce bene. Il capro espiatorio è una figura cruciale, che ricompare ciclicamente, e che ci induce a chiederci se si tratti di qualcuno di necessario, persino di indispensabile alle società. Il capro espiatorio di oggi non è più l’ebreo, è sempre più spesso l’immigrato, e soprattutto il musulmano. Se nel linguaggio comune – quello politico, quello dei giornalisti e dei libri – sostituiamo la parola musulmano con la parola ebreo otteniamo molte frasi che considereremmo semplicemente indicibili. Sappiamo bene che sono perverse e che la loro logica è perversa, ma non abbiamo nessuna difficoltà a pronunciarle continuamente e senza alcuno scrupolo di coscienza a proposito di qualcun altro. Come dire che c’è sempre un ulteriore capro espiatorio.
Ma la domanda che le faccio mette in connessione la questione del capro espiatorio con un altro tema, quello della paura: i capri espiatori servono anche perché sono i mezzi che consentono di realizzare una rete di paure. Alcuni sociologi, Ulrich Beck per primo, hanno ragionato sulla nostra società pensandola come una società del rischio, in cui siamo terrorizzati dai rischi globali, dal terrorismo, dai rischi di inquinamento, dalla precarietà e dalla flessibilità, nonostante non siamo mai stati tanto ricchi e non siamo mai stati così bene come oggi. Io, però, parlerei piuttosto di società della paura, perché non si tratta solo di un rischio, è qualcosa che viene “seminato” quotidianamente. La paura si costruisce socialmente, perché c’è qualcuno a cui interessa, c’è anzi molta gente che ci guadagna, ci sono gli imprenditori politici della paura, gli imprenditori economici della paura, gli imprenditori mediatici della paura. La paura, insomma, vende bene.
Ho voluto quindi allargare la riflessione sul rituale di esclusione, che mi ha inquietato, al tema del capro espiatorio perché è connesso all’idea che c’è sempre più gente che ricava dei guadagni dal fatto di seminare paura. Sembrerebbe che il capro espiatorio sia ancora necessario, che non siamo capaci di farne a meno. Dobbiamo allora rassegnarci a pensare che le cose stiano proprio così: che non possiamo fare a meno dei rituali di esclusione? Che, per forza, dobbiamo trovare qualcuno da escludere nella nostra vita quotidiana?
Z.B. Lei ha sollevato molte questioni nella sua domanda. Ma affronterò il fenomeno dell’esclusione, che non può essere evitato in alcun modo, da un altro punto di vista. Il nostro problema, infatti, non è tanto l’esclusione quanto la riabilitazione, la riammissione, il riciclo, in un certo senso, degli esclusi. L’esclusione, come è noto, è un fenomeno di vecchia data. Come ho già detto prima, la modernizzazione comporta due preoccupazioni principali: una è la costruzione di un ordine, l’altra il progresso economico. Entrambe sono state molto efficienti nell’escludere e nel rendere superflue alcune persone. Nel passato, però, c’erano due industrie – chiamiamole così – molto potenti ed efficienti per lo smaltimento dei rifiuti: per quanto riguarda l’Europa, una era costituita dall’imperialismo e dal colonialismo, e l’altra dall’istituzione dello stato sociale. La prima era possibile, o semplicemente pensabile, perché per molto tempo – per due o tre secoli almeno – l’Europa è stata l’unico angolo del globo ad avviare un processo di modernizzazione, e quindi è stata l’unica a produrre persone in esubero, a escludere persone non necessarie. Ma quell’eccesso di popolazione poteva essere facilmente esportato, e fu esattamente ciò che accadde: milioni di europei emigrarono nelle due Americhe, in Africa, in parte dell’Asia, riducendo, in un certo senso, l’esubero di popolazione che si era prodotto in Europa. Quelle persone sono state necessarie per sviluppare i due prodotti principali della modernità solida: l’industria di massa e l’arruolamento di massa. Hanno riempito i reparti delle enormi industrie della produzione di massa di Henry Ford, di Rockefeller; sono state impiegate in fabbriche come la Fiat, la Renault. Altre sono andate a ingrossare le file dell’esercito di leva. Si trattava di eserciti di riserva, in due sensi: l’esercito della manodopera di riserva e l’esercito di riserva in senso letterale, poiché questi individui potevano essere richiamati in servizio attivo, nel caso in cui una guerra avesse minacciato la vita produttiva del paese. Per questa ragione, come vi direbbe qualsiasi generale, bisogna avere cura delle riserve: chi fa parte della riserva deve essere ben nutrito, ben addestrato, deve avere un alloggio e un vestiario adeguati e deve essere assistito sotto ogni aspetto, perché in qualsiasi momento deve essere pronto a tornare in servizio attivo.
Attualmente, nessuna delle due istituzioni per il riciclo di questo particolare tipo di rifiuti è più disponibile: non c’è più la possibilità di esportare altrove la popolazione in eccesso e nessuno pensa più che le persone senza lavoro, e senza la capacità di ricreare la propria esistenza sociale, costituiscano un esercito di riserva o qualcosa di simile. Anche perché si può certo parlare di un esercito di soldati di riserva, si può parlare di un esercito di lavoratori di riserva, ma parlare di un esercito di consumatori di riserva non ha alcun senso. Le persone senza mezzi, senza potere d’acquisto, che non reagiscono alla pubblicità correndo nei negozi, non sono un esercito di consumatori di riserva: sono solo casi senza speranza. Non contribuiscono al benessere dello stato, non contribuiscono al PIL, metro di misura del benessere di una nazione.
Entrambe le istituzioni sono ora in crisi; dunque, non hanno più la possibilità di esportare l’eccesso di popolazione o di canalizzarlo nell’industria oppure nell’esercito di massa. Non esiste più un arruolamento di massa: gli eserciti sono formati da corpi specializzati che richiedono un impegno a tempo pieno e un numero ridotto di unità. Sono eserciti che non hanno niente da guadagnare da una massiccia mobilitazione della popolazione. D’altro canto, la modernità ha vinto la sua battaglia, l’intero pianeta si sta modernizzando e quindi ora ogni angolo del globo produce la sua parte di popolazione in eccesso. Tuttavia, oggi, nessuno gode del lusso di cui ha beneficiato l’Europa nei due o tre secoli passati: non c’è la possibilità di trovare soluzioni globali ai problemi di esubero locali; la popolazione in esubero non si può esportare, come era avvenuto con la popolazione in eccesso dei vari paesi europei. Non ci sono più aree vergini nel mondo, così come non ci sono eserciti di conquistadores in grado di spianare la strada per la popolazione in esubero. Se si prova a farlo illegalmente, andando contro i poteri che attualmente governano il mondo, le persone vengono fermate al confine e rimandate indietro, ai loro paesi di origine. Non esistono più soluzioni del genere, e l’unica alternativa oggi alle soluzioni del passato è costituita dai gruppi più o meno clandestini, dagli eserciti di liberazione più o meno irregolari, in grado di assorbire i giovani in eccesso e senza prospettive di vita, offrendo loro, al posto di una vita degna, una non-dignità di morte.
Ma, allora, che cosa si può fare? Prima di tutto, come Allievi ha giustamente notato, non rimane che scaricare la rabbia contro gli immigrati. In primo luogo perché gli immigrati che stanno venendo qui, aggiungendosi alla nostra popolazione già in eccesso, rappresentano una perfetta giustificazione per dar sfogo alla rabbia. Li accusiamo di essere la causa di ogni sorta di problemi e di pericoli, cosicché abbiamo trovato almeno un motivo per spiegare la nostra avversione nei loro confronti. C’è inoltre la tendenza a squalificare i perdenti, persone che – se in passato sarebbero rientrate nelle classi subalterne della società − ora scivolano nell’underclass. In Europa, inoltre, si tende in misura sempre maggiore a criminalizzare i problemi sociali, che, mentre una volta venivano definiti, descritti e spiegati come conseguenze del cattivo funzionamento delle istituzioni sociali, sono adesso riclassificati come disfunzioni del cosiddetto sistema del law and order, a cui si reagisce costruendo nuove prigioni, rendendo più severe le leggi penali e più lunghe le pene carcerarie. A questo proposito è interessante notare come sia cambiata la natura del compito degli agenti per la libertà vigilata. Fino a qualche tempo fa il loro compito consisteva nel reinserire gli ex detenuti nella comunità; ora la loro funzione principale è tenerli lontani, non permettere loro di mescolarsi e confondersi con l’ambiente, sorvegliarli attentamente in modo che, al primo passo falso, siano rimandati al posto a cui appartengono, vale a dire in prigione.
Tutto ciò dovrebbe farci prendere coscienza di un fatto: abbiamo sotto gli occhi il problema grave e penoso − per il quale, al momento, non abbiamo le risposte adeguate − della riabilitazione e della riammissione nella società di persone che, per una ragione o per l’altra, ne sono state escluse. Non abbiamo trovato alcuna soluzione istituzionale a questo problema, che in futuro diventerà sempre più grave e increscioso. Tutte le soluzioni riduzionistiche non fanno altro che concentrare la nostra attenzione su un’unica questione: i giovani musulmani che stanno arrivando qui. Ci stiamo illudendo che se potessimo sbarazzarcene, ci libereremmo di un grosso problema di cui non amiamo parlare, perché, se ammettessimo che il problema è complicato, sarebbe subito chiaro che una soluzione riduzionistica non funziona. Ci piace credere che se solo riuscissimo a mandarli via dal nostro paese – come suggeriva Oriana Fallaci, per esempio – ogni cosa tornerebbe a posto: ritorneremmo all’età dell’oro, all’età delle certezze, della sicurezza, di un futuro meraviglioso e così via. Ma ovviamente non succederebbe niente di tutto questo. In realtà stiamo combattendo contro i sintomi del malfunzionamento, non contro le cause.
La questione dell’Islam – la questione dei musulmani – è davvero molto complessa e richiederebbe una discussione più approfondita. In questa sede mi limito a segnalare soltanto alcuni aspetti da considerare. In un certo senso, i musulmani si trovano tra l’incudine e il martello: da un lato c’è la civiltà occidentale che chiede loro di convertirsi ai suoi valori, ma che, contemporaneamente, fa tutto quel che è in suo potere per impedire che questo avvenga davvero; dall’altro ci sono regimi autoritari e dittatoriali dei loro paesi di origine che non tollerano alcun genere di tradimento. Il risultato è che chi cerca di mantenersi in una posizione intermedia viene assalito da entrambe le parti: ha delle buone ragioni, quindi, per trovarsi in uno stato di ansia che nasce dalla propria condizione ambivalente. Ma una volta che si vive in un tale stato di ansia endemica, si finisce per essere vulnerabili e sensibili a ogni genere di seduzione e di attrazione verso le cause più estremistiche.
C’è anche un altro fattore che si aggiunge alla loro attuale condizione di ambivalenza: se da un lato i musulmani si sentono bistrattati dalle potenze occidentali che aspirano al dominio mondiale, dall’altro, quegli stessi musulmani possiedono la materia prima da cui più dipende l’Occidente − il petrolio. E tutti sanno che le uniche riserve di petrolio che non saranno esaurite entro la metà del XXI secolo sono proprio quelle dei paesi arabi, dei paesi del Medio Oriente. Si tratta quindi di una combinazione di impotenza e di potere, un potere enorme e ancora inutilizzato, ma del quale l’élite musulmana ha sempre più consapevolezza. Quanto importante sia questo potere è dimostrato dalla corruzione costante dei regimi più autoritari e dittatoriali del Medio Oriente a opera del potere occidentale, che per un altro verso risulta essere anche il loro persecutore.
Tutto è iniziato con il famoso incontro tra Roosvelt e il primo re dell’Arabia Saudita, quando gli USA promisero protezione ad infinitum al regime saudita, in cambio della disponibilità delle risorse petrolifere per le aziende americane: accordo che funziona ancora, dopo più di mezzo secolo. Ma ora la situazione si è ulteriormente complicata, perché ci sono molti più paesi interessati a sedurre e a corrompere i governi che detengono le riserve di petrolio. Pensate alla rapidità con cui si sta realizzando il processo di modernizzazione in Cina, in India e presto anche in Brasile: sono paesi molto potenti, molto popolati, e tutti interessati ad acquisire almeno una parte delle risorse petrolifere disponibili. I musulmani, quindi, si trovano al centro delle contraddizioni del mondo contemporaneo, quelle presenti e quelle che emergeranno in futuro; sono in una posizione molto vulnerabile, nel cuore di una congiunzione di circostanze potenzialmente esplosiva. Sono molte le questioni su cui varrebbe la pena ragionare: da una parte, per ragioni interne che riguardano i paesi in cui viviamo, dovremmo focalizzare la nostra attenzione sul problema degli immigrati, e dall’altra dovremmo chiederci quali sono le ragioni esterne per cui i militanti provengono soprattutto da ambienti musulmani. Ma entrambe queste ragioni – interne ed esterne – appartengono a una stessa totalità: a un mondo universalmente interdipendente inserito in un processo di globalizzazione dalla dinamica rapidissima
S.A. Vorrei porle ancora una domanda su una questione molto più semplice, ma densa di conseguenze. Tra le vittime collaterali del nostro tempo ci sono anche quelle prodotte dagli identitarismi. In una condizione di identità incerta, che anche lei ha descritto, siamo sempre più preda degli spacciatori di facili certezze. Questi identitarismi sono diffusi anche tra noi: sono i fondamentalismi religiosi e quelli laici, sono gli etnicismi, i razzismi, i localismi, i tribalismi metropolitani, che sopravvivono per esempio nella logica del tifo calcistico. Tuttavia non c’è un motivo razionale né una riflessione profonda che informino questi atteggiamenti. Le chiedo allora se anche questo fenomeno − il fatto di finire tanto facilmente nelle braccia dei venditori di identità − è una condizione che sta diventando un destino per noi: è davvero una seduzione a cui non riusciamo a sfuggire? E quali sono invece le vie di uscita da questa trappola interpretativa?
Z.B. Forse ciò che sto per dire potrà apparire eretico, ma penso che i problemi relativi all’identità siano eccessivamente sopravvalutati. Dalla mia esperienza personale e da quanto ho letto nei libri mi sembra che in nessun’altra epoca l’identità sia mai stata tanto flessibile e tanto facilmente modificabile come oggi. L’identità non è più vincolata alla terra, non è ereditata. Non siamo più glebae ascripti, come si diceva nel Medioevo. La maggior parte di noi ha ormai imparato a cambiare identità, a rinascere, a ripartire daccapo più e più volte nella vita.
Tuttavia, dietro alla domanda che mi pone mi sembra che ci sia un fraintendimento diffuso: oggi si parla molto della politicizzazione della religione. Si sente spesso dire che la religione si sta trasformando in militanza politica. Ma, a mio avviso, succede esattamente il contrario: non è la politicizzazione della religione, ma la farsi religione della politica. Esistono due tipi di pragmatica: la pragmatica della politica e la pragmatica della religione. La politica, si sa, è l’arte del possibile: si sonda che cosa si può fare e che cosa non si può fare, quali siano i propri margini di libertà, e, una volta valutati questi aspetti, ci si impegna in un dialogo con altre persone, si ascolta che cosa hanno da dire gli altri e si osserva come si comportano. Si cerca di raggiungere un accordo e si sa che sarà necessario accettare qualche compromesso: è così che funziona la pragmatica della politica. La pragmatica della religione, per ragioni evidenti, è molto differente. C’è un unico Dio – lo afferma in definitiva ogni religione. Non sono solo i musulmani a dire Allah akbar. Ogni religione afferma che esiste un solo Dio e un solo Libro, e che Dio è verità: dunque, per ogni religione, esiste una e una sola verità. Di conseguenza, qualsiasi cosa non sia contemplata da questa verità, è una menzogna e dovrebbe essere ignorata oppure combattuta. Non c’è spazio per il dialogo, né per raggiungere un accordo, non c’è spazio per la negoziazione, né per il compromesso, c’è solo un radicale conflitto.
Ma oggi nelle nostre pratiche politiche abbiamo la tendenza a presentare le azioni politiche, e a tradurle in parole, come se si trattasse di azioni religiose, come se si lottasse per la verità eterna e assoluta, come se si dovesse compiere un comandamento divino. È questo che emerge dai discorsi dei nostri politici, in tutti i paesi – e non credo che l’Italia faccia eccezione da questo punto di vista. I leader politici si esprimono come se stessero compiendo la Volontà divina, come se fossero in contatto diretto con Dio: chi non è con noi è contro di noi. In questo modo la lotta per i propri interessi si traduce nei termini di una lotta del bene contro il male. E l’unica maniera possibile per condurre questa lotta non può che essere lo scontro militare. Non ci sono altre strade. Non c’è la possibilità di sedersi intorno a un tavolo, parlarsi e cercare di persuadere l’altro circa la legittimità delle proprie ragioni. È questo il grave pericolo a cui stiamo andando incontro.
S.A. Molti spacciatori di identità in realtà non sono religiosi: ci sono i nazionalismi, i localismi, gli etnicismi, i razzismi. E anche chi usa di più l’argomento religioso per le proprie guerre di identità, in realtà è spesso ateo – il caso italiano è esemplare da questo punto di vista: pensiamo a nomi come Fallaci, Pera, Ferrara, Sartori. Lei come spiega questo fatto?
Z.B. I sociologi hanno descritto molti casi del genere, che si sono verificati anche in passato, per esempio in alcuni quartieri delle grandi città britanniche, dove c’è sempre stato molto attrito nei ceti sociali più poveri, meno istruiti e con minori prospettive di successo, di diverse origini. È vero che c’è un’ostilità tra protestanti anglosassoni e pakistani, tra pakistani (che sono musulmani) e indù (che non lo sono, anzi che sono antimusulmani) − è, in un certo senso, l’ostilità tra India e Pakistan esportata e riprodotta in Gran Bretagna. Ma una delle possibili spiegazioni con cui i sociologi interpretano questi fatti è la naturale tendenza, da parte di persone già oppresse all’interno della propria società e che magari appartengono all’underclass, a trovare una formula per far parte del gruppo più privilegiato, individuando, escludendo e prendendosela con chi si trova ancora più in basso nella gerarchia sociale. Questa è una delle spiegazioni esistenti: cercare una formula con cui ristabilire almeno in parte la propria dignità, già umiliata, identificando qualcuno che abbia ancora meno dignità e che goda di rispetto ancora minore.
Se sono in una condizione di umiliazione ma, a mia volta, posso umiliare qualcun altro, allora posso almeno sollevarmi al di sopra del suo livello. È una tendenza che probabilmente si reitererà nel tempo, come riflesso perverso, crudele e distorto della competizione per il prestigio e la dignità che avviene anche ai livelli più alti della società. Si tratta di un fenomeno universale. Nelle sfere più elevate, la chiamiamo competizione per la ricchezza, per il prestigio, per la notorietà, per il successo; mentre quando si replica ai livelli più bassi della società, questa stessa competizione diventa semplicemente il tentativo di affermare la propria dignità umana.
Per indicare l’infelicità umana usiamo nomi ed espressioni diverse, che invecchiano piuttosto rapidamente e cambiano a seconda delle epoche, perché anche se in questo modo ci sembra di poter fare qualcosa per eliminarla, essa continua a esistere. Cinquecento anni fa, chi si sentiva infelice probabilmente avrebbe creduto di essere posseduto dal diavolo e sarebbe andato da a un prete per un esorcismo. Cento anni fa, l’infelice avrebbe attribuito la causa al proprio matrimonio fallito o a un’infanzia traumatica e si sarebbe rivolto a uno psicanalista per indagare nel proprio inconscio. Ora cerchiamo le ragioni della nostra infelicità in ciò che sta succedendo all’esterno di noi stessi, nei problemi irrisolti dell’immigrazione, nella minaccia del terrorismo, nei criminali, nei pedofili, in tutti coloro che infrangono la legge e disturbano l’ordine sociale: è questa la spiegazione più comune, certo non l’unica, ma quella che sta riscuotendo più successo. Ma se si compara questa spiegazione con quelle prodotte in passato, ci si rende facilmente conto che sarebbe opportuno prendere distanza da esse, perché non sempre le spiegazioni colgono la radice del problema. Se guardate le prime pagine dei giornali o se ascoltate le notizie a cui viene dato più rilievo in televisione, è ragionevole aspettarsi che anche il linguaggio attuale perda il proprio significato, con la stessa inevitabilità con cui sono state respinte le vecchie nozioni, quando hanno perso la loro validità e il loro potere esplicativo.
Traduzione dall’inglese di Raffaella Voi e Massimo Simone