Segni dei tempi. Genova, la fine del PD, il futuro della politica

Ho visto e rivisto le immagini dei funerali di Genova: quelle relative all’arrivo della delegazione governativa, e di quella del PD (se si vuole, del governo precedente).
Non riesco a impedirmi qualche riflessione. Non di schieramento: non mi interessa. Di sostanza. E di raggio più vasto. Prendendo quanto successo a Genova come un simbolo: una rappresentazione potente di quanto sta succedendo anche altrove.
Salvini e Di Maio sono stati accolti da applausi scroscianti. Quando in questi frangenti i rappresentanti di un governo sono sempre a rischio di contestazione. E Martina è stato invece accolto da un freddo silenzio, e qualche esplicita contestazione.
Ecco, pensiamoci. Facendo pure la tara su eventuali claque organizzate, se si vuole.
Salvini e Di Maio rappresentano il tempo presente, sono nel vento della storia, lo interpretano: un vento che non mi piace, a scanso di equivoci, ma di cui prendo atto. Sono bravi a rappresentarlo (dove bravi è una constatazione professionale, non morale: vale per chiunque faccia bene il proprio mestiere, foss’anche uno sporco mestiere…). Al di là delle scelte concrete che possono fare.
Martina (ma sarebbe stato lo stesso – o, credo, assai peggio – se ci fosse stato Renzi, immagino anche Gentiloni, certamente anche Bersani o Grasso; e, dall’altra parte, penso anche Berlusconi) rappresenta il passato: un ciclo finito. Definitivamente. Al di là delle scelte concrete fatte. Al di là dei meriti e dei demeriti. Ci fosse stato Delrio, un galantuomo che proprio sulle infrastrutture, e proprio per Genova, ha fatto più e meglio di molti altri, sarebbe stato fischiato anche lui.
Cosa voglio dire? Che siamo giunti alla fine di una storia. A un capolinea. I marchi hanno una loro reputazione. Magari anche inspiegabile. E così come inspiegabilmente (talvolta) hanno un successo travolgente e inimmaginabile, così, in un batter d’occhio, al di là di qualsiasi ragione, e merito, e demerito, possono perderla, la loro reputazione. Al punto che riproporli, reiterarli così come sono, rischia di essere controproducente, un’operazione in perdita, perdente.
Ecco, penso che sia il caso del marchio Partito Democratico. Ormai irrimediabilmente compromesso, almeno per il grande pubblico. Con un appeal limitato. Insieme a molti altri del passato, identificati col passato. E’ finito un ciclo storico. Bisogna prenderne atto. Non ha più senso nemmeno rivendicare la bontà delle scelte fatte: quelle buone, almeno. O difendere un’eredità, nei suoi aspetti positivi, e ci sono.
Semplicemente, il marchio – così com’è – non è più in grado di incontrare il pubblico, o almeno un pubblico significativo, tale da poter diventare in futuro dominante, o almeno incisivo: non è più nelle sue corde. Lo stesso vale per gli uomini e le (poche) donne che lo hanno rappresentato. E prima la sinistra, o quel che resta di essa (o diciamo il mondo progressista, riformista, democratico, o comunque lo si voglia chiamare) se ne rende conto, e lo accetta come si accetta un dato di fatto, anche se ingiusto, meglio è.
Occorre costruire qualcos’altro: a partire anche dal PD, ma molto oltre di esso. Per lo più, con qualcun altro. Non parlo di militanti e simpatizzanti, ovviamente. Parlo dei dirigenti. E per non ingenerare equivoci: non è più questione di rottamazione, di renziani o rappresentanti della ditta, di Martina o Zingaretti o, appunto, Renzi; in ogni caso, con qualunque leader, a vendere lo stesso prodotto, o un prodotto un po’ diverso con la medesima etichetta, non cambierebbe nulla. Il destino è segnato. Piaccia o meno. Sia giusto o meno.
Siamo in uno di quei momenti storici in cui delle cose finiscono, inevitabilmente e inesorabilmente. Non capirlo porterebbe questo mondo, comunque vogliamo chiamarlo, e l’elettorato che non si riconosce in questo governo, a una traversata del deserto – peraltro priva di un Mosé a dare speranza – la cui lunghezza potrebbe essere inimmaginabile. E probabilmente senza una terra promessa all’orizzonte.
Qualcos’altro: ma cosa? Non lo so. Anche perché senza leader capaci di dare forma a questa cosa nuova – che non ci sono ancora, o almeno, per ora non riusciamo a vederli – è difficile identificarla. Certo non una sommatoria di sigle politiche già esistenti (alcune di queste, non ho neanche bisogno di nominarle, sono ancora più morte, trapassate, con l’aggravante di non accorgersene nemmeno). Certo non una federazione. Certo non una sigla preesistente che si prende qualche esterno di rappresentanza.
Probabilmente qualcosa del tutto nuovo, diverso anche come genesi (non politicista, diciamo così), in cui le sigle antiche – come il PD, come altre – possano entrare e sciogliersi con dignità (o rimanere come componente, tra tante), senza recriminazioni o processi o accuse, ma anche senza pretese di essere in alcun modo determinanti (tanto meno nella scelta del gruppo dirigente), ma con tante persone nuove, a rappresentare professioni, categorie, tendenze, modi di sentire, culture, diversità, competenze. Qualcosa di innovativo perché radicale, cioè radicalmente antitetico all’esistente: e penso sia al governo e ai suoi valori guida, sia all’attuale opposizione. Senza nessuna golden share a favore di nessuno.
Quello che so è che il vuoto, anche in politica, non rimane tale a lungo. In qualche modo qualcosa lo riempirà. Se non sarà una cosa nuova, sarà quello che c’è adesso, ciò che è oggi nel vento della storia.
Se questa prospettiva non vi piace, come non piace a me, forse è il caso di rimboccarci le maniche.